Destino
TEA, 2006
TEA, 2006
Genesi e motivi della nuova edizione (rivista) di un successo editoriale di 15 anni prima
Scriveva Isaac B. Singer: “Dio è un romanziere, e il suo romanzo è il Mondo”. Ribaltava così abilmente la più antica e ostinata pretesa del romanziere. È infatti lui (il narratore) che con le sue storie aspira nientemeno che a levare una sfida a Dio, creando un Mondo “Altro”, una realtà parallela che non è ma potrebbe benissimo essere. Ogni romanzo è un universo a sé, in cui personaggi fittizi (la fiction degli anglofoni, espressione intraducibile in italiano) possono apparire del tutto reali agendo in un ambiente fittizio, che a sua volta può apparire del tutto reale. Non soltanto: personaggi e ambienti possono anche inseguirsi da una storia all’altra, da un romanzo (o da un racconto) all’altro. Dalla Commedia umana di Balzac giù giù fino a esempi molto meno nobili ma di grande fortuna del romanzo popolare. Quanti Sean Courteney e compagni, quanto, persino, Harry Potter... Avendo in mente questa considerazione generale (e questa pretesa), io ho sempre voluto fare il romanzo, anche in anni in cui (diciamo dai Sessanta ad almeno metà dei Novanta) in Italia sembrava vietato. La parola d’ordine della critica era: “Il romanzo è morto”. Chi lo avesse ucciso, di quale malattia fosse morto, non era dato sapere. Era morto e amen: la realtà storica richiedeva l’esercizio di stile. Con solide argomentazioni tipo: “È troppo lungo per essere un esercizio di stile”. La lunghezza come parametro di qualità… Gettando così spericolatamente alle ortiche non soltanto I promessi sposi e I Malavoglia ma anche Don Chisciotte, Guerra e pace, I Buddenbrook, Ulisse, quasi tutto Balzac, Maupassant, e l’elenco continuatelo voi. Per di più io lavoravo in editoria, quindi vedevo passare davanti ai miei occhi decine di romanzi provenienti da altre lingue, che — pur essendo “troppo lunghi” — mietevano grande successo e di conseguenza rapinavano risorse (diritti d’autore, mezzi di pura sopravvivenza) ai narratori di casa nostra, depressi, condannati all’indigenza e costretti obtorto collo all’esercizio di stile, breve ma comunque letto al più da qualche sottile critico (fino a pagina 10) e rigorosamente trascurato dal largo pubblico, che preferiva divertirsi e appassionarsi (pagandole) alle vicende dei romanzi tradotti da altre lingue. Per fortuna quel singolare (e suicida) atteggiamento critico sembra a poco a poco essere stato sommerso dalla famosa risata oceanica, e per doppia fortuna ci si è messi a praticare con vigore il rinato romanzo anche in Italia. I cosiddetti “narratori di genere” sono finalmente diventati “narratori” e basta. Ma quanta fatica. Quando pubblicai (1985) quello che sarebbe rimasto il mio romanzo di maggiore successo, Gli occhi di una donna, Giancarlo Vigorelli, personaggio bizzarro e stentoreo ma per molti versi straordinario, mi sfondò praticamente un timpano urlandomi attraverso il telefono: “Hai osato l’inosabile”. Già. E ho continuato a farlo. Mi deliziava semplicemente l’idea di costruire il romanzo come se fosse una struttura architettonica, una casa, con le sue stanze, l’arredamento, le tende, i tappeti, e gli abitanti che non soltanto abitavano in quella casa ma si spostavano anche in altre (altri romanzi), andando a trovare i personaggi che le/li abitavano. Pretendevo, ostinatamente, di scrivere il Romanzo Globale, di creare un autentico Universo Parallelo. Così, per esempio, Emma Olgiati Drezzo e i suoi figli (e le loro abitazioni) cominciarono a uscire da Gli occhi di una donna per trasferirsi in una serie di romanzi successivi. Mi piaceva sentirmeli vivere attorno, mi facevano compagnia. A un certo punto ricomparve persino Pierre, l’enigmatico francese del mio secondo romanzino, La sera del giorno. E così via. Tracciare un elenco completo dei miei personaggi e dei libri in cui essi (ri)compaiono è impresa complicata, che esula da questo breve testo. Ma a un certo punto non mi bastò più che i personaggi ricomparissero qua o là. All’orizzonte delle altre lingue si profilavano sterminate opere narrative, sintetizzabili nelle 1600 pagine del Ragazzo giusto di Vikram Seth (1993 in inglese). Se poteva farlo un indiano, perché non potevamo farlo noi italiani? Volevo anch’io vedere i miei personaggi agire, interagire, amare e darsele di santa ragione in uno sconfinato arazzo narrativo. Pretesi di progettare quello che chiamai il “romanzo di 1000 pagine” e ne parlai con il mio editore di allora, che manifestò interesse. Quindi mi misi all’opera, ma quando presentai i primi due terzi del romanzo, con il progetto per l’ultimo terzo, l’editore aveva cambiato idea. Ne aveva parlato con i “commerciali”, che avevano manifestato forte perplessità: i miei romanzi — secondo loro — andavano bene com’erano, sulle 350 pagine; i miei lettori (non erano pochissimi) se li aspettavano così. Perché, lasciando perdere l’ultimo terzo ancora in fase di progetto, non dividere i primi due terzi in due parti? Sarebbero venuti appunto due romanzi di circa 350 pagine. Bastava inventare un buon finale intermedio, tra la prima parte e la seconda. Lo feci. Egoisticamente parlando, ci guadagnavo il doppio (anche gli scrittori purtroppo devono pagare il pane e le bollette), ma, soprattutto, combattere con i “commerciali” è sempre stato a dir poco aleatorio, se non addirittura esiziale. Se il famoso “romanzo di 1000 pagine” si fosse rivelato un insuccesso, la colpa sarebbe stata tutta e soltanto del testardo autore. Così, quello che era nato come Destino divenne Il destino di un uomo (1992), seguito da Due bellissime signore (1993). Dai romanzi precedenti vi rifecero la loro ricomparsa la famosa Emma Lucini e qualcun altro (o altre cose). Da La civetta sul comò riapparvero trionfalmente Benedetta Cailler e Salvatore Di Terlizzi (ringiovaniti di una quindicina di anni). Ma l’autore Mario Biondi è notoriamente testardo. Quindi Destino è rinato quattordici anni più tardi in quella che doveva essere la sua vera forma, con qualche taglietto di cose aggiunte per forza all’atto della divisione in due e divenute ridondanti. D’altra parte, anche il linguaggio del 2006 credo richieda una maggiore concisione e “presa diretta” rispetto a quello di allora. Lasciato in sospeso il famoso “terzo terzo delle 1000 pagine”, personaggi e ambienti sono lì ad aspettare di trasferirsi in visita in altre “case narrative”. Per adesso, salvo falli di memoria, Moiso Segre e la sua Valgrande (con tanto di Dimora dei Cavalieri) sono ricomparsi in Una porta di luce. Gli altri, si vedrà...
Mario Biondi
Scriveva Isaac B. Singer: “Dio è un romanziere, e il suo romanzo è il Mondo”. Ribaltava così abilmente la più antica e ostinata pretesa del romanziere. È infatti lui (il narratore) che con le sue storie aspira nientemeno che a levare una sfida a Dio, creando un Mondo “Altro”, una realtà parallela che non è ma potrebbe benissimo essere. Ogni romanzo è un universo a sé, in cui personaggi fittizi (la fiction degli anglofoni, espressione intraducibile in italiano) possono apparire del tutto reali agendo in un ambiente fittizio, che a sua volta può apparire del tutto reale. Non soltanto: personaggi e ambienti possono anche inseguirsi da una storia all’altra, da un romanzo (o da un racconto) all’altro. Dalla Commedia umana di Balzac giù giù fino a esempi molto meno nobili ma di grande fortuna del romanzo popolare. Quanti Sean Courteney e compagni, quanto, persino, Harry Potter... Avendo in mente questa considerazione generale (e questa pretesa), io ho sempre voluto fare il romanzo, anche in anni in cui (diciamo dai Sessanta ad almeno metà dei Novanta) in Italia sembrava vietato. La parola d’ordine della critica era: “Il romanzo è morto”. Chi lo avesse ucciso, di quale malattia fosse morto, non era dato sapere. Era morto e amen: la realtà storica richiedeva l’esercizio di stile. Con solide argomentazioni tipo: “È troppo lungo per essere un esercizio di stile”. La lunghezza come parametro di qualità… Gettando così spericolatamente alle ortiche non soltanto I promessi sposi e I Malavoglia ma anche Don Chisciotte, Guerra e pace, I Buddenbrook, Ulisse, quasi tutto Balzac, Maupassant, e l’elenco continuatelo voi. Per di più io lavoravo in editoria, quindi vedevo passare davanti ai miei occhi decine di romanzi provenienti da altre lingue, che — pur essendo “troppo lunghi” — mietevano grande successo e di conseguenza rapinavano risorse (diritti d’autore, mezzi di pura sopravvivenza) ai narratori di casa nostra, depressi, condannati all’indigenza e costretti obtorto collo all’esercizio di stile, breve ma comunque letto al più da qualche sottile critico (fino a pagina 10) e rigorosamente trascurato dal largo pubblico, che preferiva divertirsi e appassionarsi (pagandole) alle vicende dei romanzi tradotti da altre lingue. Per fortuna quel singolare (e suicida) atteggiamento critico sembra a poco a poco essere stato sommerso dalla famosa risata oceanica, e per doppia fortuna ci si è messi a praticare con vigore il rinato romanzo anche in Italia. I cosiddetti “narratori di genere” sono finalmente diventati “narratori” e basta. Ma quanta fatica. Quando pubblicai (1985) quello che sarebbe rimasto il mio romanzo di maggiore successo, Gli occhi di una donna, Giancarlo Vigorelli, personaggio bizzarro e stentoreo ma per molti versi straordinario, mi sfondò praticamente un timpano urlandomi attraverso il telefono: “Hai osato l’inosabile”. Già. E ho continuato a farlo. Mi deliziava semplicemente l’idea di costruire il romanzo come se fosse una struttura architettonica, una casa, con le sue stanze, l’arredamento, le tende, i tappeti, e gli abitanti che non soltanto abitavano in quella casa ma si spostavano anche in altre (altri romanzi), andando a trovare i personaggi che le/li abitavano. Pretendevo, ostinatamente, di scrivere il Romanzo Globale, di creare un autentico Universo Parallelo. Così, per esempio, Emma Olgiati Drezzo e i suoi figli (e le loro abitazioni) cominciarono a uscire da Gli occhi di una donna per trasferirsi in una serie di romanzi successivi. Mi piaceva sentirmeli vivere attorno, mi facevano compagnia. A un certo punto ricomparve persino Pierre, l’enigmatico francese del mio secondo romanzino, La sera del giorno. E così via. Tracciare un elenco completo dei miei personaggi e dei libri in cui essi (ri)compaiono è impresa complicata, che esula da questo breve testo. Ma a un certo punto non mi bastò più che i personaggi ricomparissero qua o là. All’orizzonte delle altre lingue si profilavano sterminate opere narrative, sintetizzabili nelle 1600 pagine del Ragazzo giusto di Vikram Seth (1993 in inglese). Se poteva farlo un indiano, perché non potevamo farlo noi italiani? Volevo anch’io vedere i miei personaggi agire, interagire, amare e darsele di santa ragione in uno sconfinato arazzo narrativo. Pretesi di progettare quello che chiamai il “romanzo di 1000 pagine” e ne parlai con il mio editore di allora, che manifestò interesse. Quindi mi misi all’opera, ma quando presentai i primi due terzi del romanzo, con il progetto per l’ultimo terzo, l’editore aveva cambiato idea. Ne aveva parlato con i “commerciali”, che avevano manifestato forte perplessità: i miei romanzi — secondo loro — andavano bene com’erano, sulle 350 pagine; i miei lettori (non erano pochissimi) se li aspettavano così. Perché, lasciando perdere l’ultimo terzo ancora in fase di progetto, non dividere i primi due terzi in due parti? Sarebbero venuti appunto due romanzi di circa 350 pagine. Bastava inventare un buon finale intermedio, tra la prima parte e la seconda. Lo feci. Egoisticamente parlando, ci guadagnavo il doppio (anche gli scrittori purtroppo devono pagare il pane e le bollette), ma, soprattutto, combattere con i “commerciali” è sempre stato a dir poco aleatorio, se non addirittura esiziale. Se il famoso “romanzo di 1000 pagine” si fosse rivelato un insuccesso, la colpa sarebbe stata tutta e soltanto del testardo autore. Così, quello che era nato come Destino divenne Il destino di un uomo (1992), seguito da Due bellissime signore (1993). Dai romanzi precedenti vi rifecero la loro ricomparsa la famosa Emma Lucini e qualcun altro (o altre cose). Da La civetta sul comò riapparvero trionfalmente Benedetta Cailler e Salvatore Di Terlizzi (ringiovaniti di una quindicina di anni). Ma l’autore Mario Biondi è notoriamente testardo. Quindi Destino è rinato quattordici anni più tardi in quella che doveva essere la sua vera forma, con qualche taglietto di cose aggiunte per forza all’atto della divisione in due e divenute ridondanti. D’altra parte, anche il linguaggio del 2006 credo richieda una maggiore concisione e “presa diretta” rispetto a quello di allora. Lasciato in sospeso il famoso “terzo terzo delle 1000 pagine”, personaggi e ambienti sono lì ad aspettare di trasferirsi in visita in altre “case narrative”. Per adesso, salvo falli di memoria, Moiso Segre e la sua Valgrande (con tanto di Dimora dei Cavalieri) sono ricomparsi in Una porta di luce. Gli altri, si vedrà...
Mario Biondi