I RACCONTI DELLO SCRITTORE
MARIO BIONDI
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Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)
LA VEDOVA NERA
(1991, rifatto 1998)
Che schifo di giornata. Non si sarebbe potuto definirla altrimenti. Però il servizio era al sicuro al giornale, spedito con un fulmineo fuorisacco americano e regolarmente arrivato in redazione per essere impaginato "a razzo". Foto su cui le lettrici — e non soltanto loro — si sarebbero letteralmente gettate. Commosse, eccitate, le avrebbero divorate con gli occhi. Qualcuna avrebbe pianto. L’unico, da anni, a riuscire a stanare il venerando e schivo astro del cinema americano, chiuso in un accigliato riserbo nella sua villa californiana, era stato lui. Professione: Reporter. Età: Quaranta. Nome di battaglia: Marcello.
Poco meno di vent’anni di professione, i primi in salita ma gli altri tutti in discesa. E dieci giorni di appostamenti estenuanti, ma ancora una volta non aveva fallito. Un successo straordinario, come sempre. Ancora una volta una storia tutta in discesa, almeno fino a due giorni prima, venerdì. Poi il viaggio da Los Angeles. Poi la giornata infame. Domenica. Prima lo sciopero degli addetti agli aeroporti del Nord Italia, con dirottamento del jumbo su Roma, poi il guasto al Pendolino. Trasferirsi a Milano da Roma a un certo punto era sembrato impossibile. Ma lui doveva tornarci a ogni costo.
Trovato finalmente un treno, il viaggio era stato agitato. Non si era fatto altro che parlare del misterioso caso del grande finanziere Norman Mandel, trovato enigmaticamente assassinato in una zona equivoca di Manhattan, sull’East River, tra la Nona e la Decima, il cuore squarciato da uno stiletto. Chi lo aveva ucciso? Perché? Quali oscuri motivi potevano avere portato in quel posto di pessime frequentazioni un uomo della sua classe sociale? Che cosa c’era dietro?
Una bruttissima storia. Ne parlavano tutti i giornali con titoli sparati in prima pagina. Da dare i brividi. Marcello aveva fotografato Norman e Sharon Mandel in infinite occasioni mondane. Ancora giovanissimo era addirittura stato uno dei fotografi ufficialmente accreditati alle nozze — uno dei grandi matrimoni del secolo, sensazionale —, ma non aveva alcuna intenzione di vendere nessunissima di quelle sue foto, per quanto potessero offrirgli. Ci sono regole di correttezza e rispetto umano che vanno al di là del successo professionale e personale. E dei soldi. Che cos’avrebbe detto, l’affascinante e potentissima Sharon, che lo onorava della sua amicizia e ai cui ricevimenti, al 980 della Fifth Avenue, era regolarmente invitato quando si trovava a New York? Veramente una brutta storia. Meglio non pensarci.
Sì, Marcello aveva ben altro a cui pensare. Cose molto più piacevoli. Per esempio, doveva riscuotere il suo premio. Lo aspettava la più dolce delle caramelle all’Ecstasy, il più delizioso dei sorbetti al kif di Marrakesh. Per raggiungere in tempo la donna più divina del mondo, con le sue spalle larghe, la vita stretta, i muscoli sempre allenati, si era fatto largo con i gomiti tra la folla in attesa di una qualsiasi tradotta in partenza da Roma per Milano.
Di viaggiare in prima, neanche parlarne. Aveva trovato posto in uno scompartimento di seconda pieno fino all’inverosimile. Tuttavia Milano non era più stata un miraggio. Nove ore di viaggio, ma alla fine sotto i suoi occhi erano scorse, lente, esasperanti, le stazioncine della periferia. Il treno procedeva a starnuti, il suo corpo si conteneva a stento nei comodi abiti da viaggio.
Quella sera si sarebbe incontrato con Kharma. Top model di età indefinita ma comunque giovanissima: chi diceva venti, chi diciannove, chi addirittura diciotto. E non "bella". "Sublime. Raggio di luce emerso dalle tenebre del Caos", aveva scritto un intervistatore perdutamente gay, in vena di immagini orfiche. E con lei Marcello aveva appuntamento. Tête a tête. A casa di Kharma. Il primo che era riuscito a ottenere.
Aveva fatto bene a rimandare. A tenere duro. Marcello è un single di lungo corso, ha una solida esperienza alle spalle, non si concede con facilità. Pugno di ferro e guanto di velluto.
Cene nei ristoranti del polverone yuppie, per concedersi un po’ ai media. Qualche film, quando i tumultuosi impegni di entrambi lo consentivano. Qualche serata in discoteca. Senza fare tardi. Ma "letto", niente. Eppure, che Kharma avesse un debole per lui lo sapevano ormai tutti. Però…
Succhiata forse una pasticca di troppo in un’allegra imbarcata di amici e pettegoli, una sera lui si era lasciato sfuggire un’espressione cretina. Goliardica. Senso complessivo: la carne ben frollata è più gustosa. Espressione idiota. Volgare. Imperdonabile.
Treno fermo. Ancora?
E adesso, frollata al limite estremo era la sua carne. Ma finalmente dal finestrino si vedeva la stazione di Lambrate.
Marcello diede di piglio alla valigetta leggera con cui viaggiava sempre — bagaglio a mano, preziosi minuti risparmiati, il tempo è denaro, business is business — e salutati frettolosamente i compagni di viaggio si precipitò nel corridoio e poi giù dallo sportello. Perché aspettare l’arrivo in Centrale? Da Lambrate a casa sua, con cambio a Loreto, c’erano pochi minuti di metropolitana.
Casa, dolce casa. La più meritata e ristoratrice delle docce. Barba fatta con cura spasmodica, in modo che sembrasse di un paio di giorni prima. Ancora cresciuta in America. Pura espressione stranita da jet lag. Camicia di lino sulla pelle nuda. Boxer Calvin Klein nuovi di zecca. Calze e pantaloni anch’essi di lino. Giacca misto lino e seta. Pochette di seta, follemente colorata. Fazzoletto di batista. Saxon ai piedi. Via!
L’ascensore sembrava non voler arrivare mai. E il taxi sembrava non voler arrivare mai a casa di Kharma. Ma finalmente Marcello si trovò davanti alla porta. Tese davanti a sé il mazzo di fiori comperato al volo durante la disperata corsa contro il tempo. Non un granché, doveva ammettere, ma a quell’ora la città non offriva altro.
Premette il pulsante del campanello. Sfoderò il più irresistibile dei sorrisi. Attese. Il sorriso gli si surgelò in faccia. Il mazzo di fiori si inclinò leggermente verso il basso. Continuò ad aspettare. Oh, donne! Sempre in ritardo. Non per fare il maschilista, ma, quando si arriva a casa loro, anche dall’America, sono ancora sotto la doccia. L’idea di essere ricevuto in accappatoio, però, con generose visioni di pelle sfavillante di goccioline…
Premette una seconda volta il campanello, con allegria, in una serie di rapidi squilli intervallati da brevissimi silenzi. Risfoderò fiori e sorriso.
Attese una risposta che non voleva arrivare e che non venne. Perplesso, completamente smontato di ogni velleità, con la carne che tendeva a superare il punto critico di qualsiasi tollerabile frollo, si sentì addosso tutto il peso degli scioperi, dei guasti di quella giornata infame. Abbassò lo sguardo. E finalmente vide. Infilata tra un battente e l’altro della porta. Una busta. Si chinò a prenderla. La sfilò. La guardò da vicino. Indirizzo: "Marcello". Era per lui. L’aprì. Un foglio di consistenza serica. Profumato. Aprì anche quello. Poche parole. «Sei sicuro che io sia "frollata" abbastanza? Aspetta e spera, mio caro. E intanto "frolla" tu. Ciao. Kh.»
Marcello si sentì sprofondare. Chi aveva fatto la spia? Chi aveva riferito al divino fiore la sua cretinissima espressione? Se lo avesse trovato, se se lo fosse trovato tra le mani… Ma, chiaro, una giornata iniziata in quel modo non poteva che finire così. E adesso?
Niente. A casa. A letto da solo, ad agitarsi come un ragazzino a cui sia stato strappato dalla mamma il primo giornaletto sporco. Brava Kharma. Una bella lezione. Posò la lettera sullo zerbino. Con, accanto, il mazzo di fiori. Tornò a casa.
Il palazzo era immerso nel buio. Guardò l’orologio. Mezzanotte passata. Entrò nell’androne. Si diresse verso l’ascensore. Dietro le spalle sentì un ticchettio di passi femminili. Si voltò.
Dio!
La più brutta delle sorellastre di Cenerentola. Un look che doveva essere stato studiato dalla più sadica delle sarte di Mary Poppins. Capelli che prima vedevano un parrucchiere meglio era. No, non un parrucchiere. Un falciatore. Un mietitore. E anche una banda di partecipanti a una campagna ecologica di pulizia dei parchi.
Occhiali spessi come due tripli fondi di bicchiere. Povera anima. Non abitava certamente nel palazzo, oppure era una nuova inquilina. Che orrore. Se l’avesse incontrata prima non se la sarebbe mai dimenticata. Dove andava, da dove veniva, a quell’ora della notte? Be’, certo, era l’ora delle streghe. Marcello si fece da parte per cederle il passo. L’impressionante visione gli rispose con un sorriso disarmante che lo imbarazzò.
Gli venne in mente un compagno delle superiori, che ostentava una passione sfrenata per le donne brutte. Più brutte erano più gli piacevano. «Sono fantastiche», dichiarava. «Prima di tutto non te le porta via nessuno. E poi non si lascerebbero mai scappare l’occasione. Provaci.»
Provarci? Ma neanche per sogno. Le donne, per meritarsi le attenzioni di Marcello, dovevano essere le migliori in assoluto. Le top. Come la top di quella sera. Ehm. Si sentì riaprire in petto la ferita. Sanguinò.
Mentre sanguinava, l’ascensore ebbe uno scossone e si fermò. La poco decorativa compagna di viaggio gli rivolse un secondo sorriso. Incerto. Timido. Spaventato. «Che cosa succede?» chiese.
Lui alzò le spalle. Chi poteva sapere? Allungò la mano a premere un pulsante. Un altro. Un altro ancora. Li premette tutti. Niente. L’ascensore rimase immobile. Il tasto rosso dell’allarme non sembrò evocare alcun suono dagli abissi.
«Ho paura», frignò la brutta anatroccola.
«Via, via, al massimo passiamo la notte qui. Non le piace la mia compagnia?» cercò di scherzare Marcello, la gola vagamente secca. E se le cose fossero andate veramente così? Be’, certo, quando una giornata comincia in maniera infame… Clac! Un rumore secco di interruttore, di valvola, di qualcosa. L’ascensore piombò nel buio.
L’anatroccola si lasciò sfuggire un grido strozzato. Marcello se la trovò tra le braccia. «Ho paura», si sentì mormorare in uno dei due orecchi, mai si sarebbe ricordato quale. Che fare?
«Ma no, ma no», cercò di tergiversare. «Non è niente.» Il corpo della giovane donna emanava un calore che non aveva mai sentito, bruciante. Gli fece rimescolare il sangue. Il suo corpo, in attesa da giorni della pelle di seta, delle labbra di pesca di Kharma, reagì di conseguenza. I seni della donna gli si premevano sul petto, sodi, eccitanti. L’inguine contro l’inguine. Gli sembrò di avere un vertiginoso giramento di testa. Che cosa succedeva? Era impazzito?
Una vecchia fantasia da momenti di solitudine adolescente: trovarsi solo con una donna in un ascensore bloccato… «Le brutte sono le più fantastiche», sentì dire in chissà quale abisso della mente. «Provaci.» Gli venne da ridere, ma l’eccitazione glielo impedì. Che strano profumo. Fortissimo. Pungente.
«Va bene», disse fra sé, magnanimo e al tempo stesso confuso. «Se proprio vuole. Avrà la più bella delle notti. Indimenticabile.» Già la mano destra della donna trafficava con la sua camicia, gli scopriva il torace, si infilava sotto la cintura. Dita roventi sul ventre. Marcello fu preso da un’eccitazione sconosciuta. Mai provata prima. Si sentì ustionare la pelle. Ebbe un mancamento. Un nuovo turbinante giramento di testa. Una vertigine. Non capì più niente. Precipitò nel nulla.
Il giorno seguente, come ogni lunedì, i giornali del mattino furono pieni unicamente di football. Soltanto quelli del pomeriggio, prima in forma di incerto trafiletto nelle pagine di cronaca e poi con titoli strillati in prima pagina, informarono che la "Vedova Nera dell’Ascensore" aveva colpito ancora.
Tre volte in dieci giorni. E sempre un personaggio del jet set.
Vittima ignara del suo veleno, inoculato come le altre due volte nel ventre, appena sotto l’ombelico, in un ascensore manomesso con estrema abilità per mezzo di un comune timer, il famoso fotografo Marcello, appena tornato da un viaggio di lavoro di due settimane negli Stati Uniti.
© Mario Biondi