"El gira, el trüscia, el cur, el Biund de l'Intertur
" Cominciava così una scherzosa filastrocca apparsa nei primi anni Cinquanta sul Tivàn (un settimanale popolaresco di Como) sotto una vignetta in cui si vedeva un uomo correre all'impazzata, in tuta e berretto da meccanico, a bordo di uno scooter. "El Biund": Spero Latino Biondi, comproprietario e direttore tecnico dell'agenzia di viaggi Intertours, in via Garibaldi. Era nato nel gennaio del 1909 alla maternità di Como, ma sul Lario ci era rimasto pochissimo: lo avevano immediatamente infagottato nelle sue fasce e portato a Londra. Il suo papà, Antonio, pur comasco Doc (di Montano Lucino, per la precisione), viveva lì da anni, sposato con la londinese italiana Maria Movio, figlia del famoso argentiere Latino Movio, napoletano trasferito lì da anni. Faceva il maître in grandi alberghi londinesi, il nonno, la nonna aveva una sartoria destinata (dicono le ormai sbiadite cronache di famiglia) ad acquisire una sua discreta fama. Secondo le stesse cronache, sarebbe addirittura diventata fornitrice della regina d'Inghilterra. Ma in quel 1909 i due ancora giovani sposi erano in Italia: nel 1908 c'era stata l'Esposizione Mondiale a Milano, e l'Antonio aveva tentato la sorte, aprendo un ristorante, andato male. Giusto il tempo di far nascere lo Spero Latino, e poi di nuovo a Londra.
A Como, e precisamente a San Fermo, lo Spero sarebbe ricomparso soltanto nel '25, con il padre e i due fratelli. Lo chef Antonio Biondi, arrivato attorno ai cinquant'anni, aveva deciso di aver lavorato abbastanza e pagato sufficienti tasse al governo del Regno Unito, e quindi di tornare in Italia e costruirsi una casa vicino a tutti i suoi parenti. Lo Spero non sapeva una parola d'italiano, avrebbe continuato fino all'ultimo giorno a parlare in inglese con il fratello sopravvissuto (l'altro, Mario, morì giovanissimo), e a novant'anni aveva ancora un buffo accento inglese: diceva sùcuro invece di zucchero, mamalàta invece di marmellata
Perché soltanto a novant'anni, nel 1999, avrebbe deciso di andarsene in punta di piedi da quel paesino dov'era arrivato sedicenne e da dove aveva deciso di non spostarsi più. Era casa sua e, oltre a tutto, vicinissima a quel Lario che gli inglesi adorano e chiamano il Lago delle Regine. Doveva averne sentito parlare a profusione, negli infantili e adolescenziali anni delle public school londinesi. Era un suo grande motivo di orgoglio.
Nel '39, però, dovette andarsene ancora una volta. Aveva una moglie e un figlio appena nato, ma l'Italia, entrata in guerra, lo aveva chiamato a difendere i sacri confini. Lo avrebbe fatto fino al confuso 8 settembre del '43, con non poche vicissitudini e rischi. Un giorno, infagottato nella sua divisa e molto perplesso, fu portato di peso a Roma e sottoposto a un lunghissimo esame. Le Autorità avevano scoperto che parlava l'inglese meglio dell'italiano e di conseguenza deciso di paracadutarlo in Inghilterra a fare l'agente segreto. Lui, angustiatissimo, fece presente che in quel paese aveva ancora una madre (nel '25 nonna Maria aveva deciso di rimanere là), una sorella, una sorellastra, un manipolo di cugini e una schiera di ex compagni di scuola e amici: come agente avrebbe fatto una discreta fatica a rimanere segreto, un giorno o l'altro avrebbe fatalmente finito con l'imbattersi in qualcuno che lo conosceva. Le Autorità, molto seccate, lo bollarono di disfattista e lo rispedirono a difendere il patrio suolo.
Lui lo difese da un capo all'altro dell'Italia, con le pezze ai piedi, le fasce sui polpacci e l'antidiluviano moschetto 91, finché la conoscenza dell'inglese tornò a essergli, per così dire, utile. Fu spedito a fare l'interprete in un campo di prigionieri di lingua inglese, soprattutto sudafricani, in un paesino denominato Fossoli e destinato ad acquisire una fama terribile: un giorno quel campo di prigionieri di guerra sarebbe stato convertito in centro di raccolta per gli ebrei italiani destinati allo sterminio nei lager nazisti. Migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini partirono da lì per non ricomparire mai. Per fortuna lo Spero non era più lì: l'8 settembre del 43 avvenne il più celebre dei ribaltoni italiani, il nostro paese cambiò alleanza, abbandonando i tedeschi e schierandosi a fianco degli anglo-americani. In via teorica, quindi, i prigionieri inglesi di Fossoli sarebbero dovuti essere liberi. Però a controllare il campo non c'erano soltanto i militari italiani, ma anche i tedeschi. Detto fatto, questi ultimi si impadronirono del campo e gli italiani, da carcerieri, si trovarono in un baleno trasformati in carcerati al fianco degli "inglesi".
Lo Spero avrebbe benissimo potuto farla franca: si era fatto raggiungere dalla moglie e dal quattrenne figlio Mario e abitava in una casetta fuori dal campo: bastava eclissarsi. Ma aveva un profondissimo senso dell'onore e del dovere: aveva giurato fedeltà all'Italia, doveva andare a vedere che cosa ne fosse dei suoi commilitoni italiani. Arrivato al cancello, fu immediatamente disarmato e poi richiesto di aderire alla Repubblica di Salò: Lui declinò, così fu convertito da interprete in prigioniero. Era un uomo mitissimo, lo Spero, ma capace di gesti di imprevedibile coraggio: con un paio di sudafricani riuscì a tagliare la rete del campo e a battersela. I tedeschi gli spararono, ma a volte la sorte difende anche gli onesti: gli bucarono soltanto il grigioverde, lasciandolo illeso. Riuscito a mettersi in borghese e balzato in bicicletta con moglie in canna e bambino sul manubrio, raggiunse Modena e il primo treno in partenza per il Nord.
È il primo vero ricordo che ho della mia vita, a quattro anni e mezzo, quell'interminabile treno zeppo, con gente ammassata anche sui tetti e sui respingenti, sempre fermo per caricare nuove frotte di transfughi che si sbracciavano dai bordi dei campi. Come Dio volle, Spero e famigliola raggiunsero Como e, finalmente, San Fermo: una vera Terra Promessa. Questa volta non si sarebbe praticamente più mosso: rimase lì per cinquantacinque anni. Un altro ricordo, di pochi mesi più tardi: lo Spero e io scendiamo a piedi da San Fermo a Como per le scalette della Valfresca; arrivati al ponte di Santa Teresa troviamo uno spettacolo straordinario: un carro armato inglese è sprofondato nella massicciata ed è lì come un dinosauro storpiato ad aspettare di essere tirato fuori. I carristi inglesi cantano una loro canzonaccia. Senza pensarci due volte, lo Spero si unisce al canto a gola spiegata: quante volte aveva cantato quelle parole scollacciate con i compagni di scuola? Allibiti, gli inglesi lo abbracciano, riempiono lui di sigarette e il bambino di cioccolata: chi l'aveva mai vista?
Pochi giorni più tardi lo Spero è di nuovo interprete, presso il comando militare alleato stanziato a Como. Ha sempre adorato le motociclette, e adesso può averne a disposizione quante ne vuole, tutte quelle requisite ai tedeschi in fuga. Colossali Zundapp e consimili marche ostrogote, con almeno mille di cilindrata minima. Lui vi scorrazza beato tra San Fermo, Como e Argegno, dove si è istallato il comandante alleato. Quasi sempre sulle due ruote, non di rado sulla pancia o sul sedere. Una volta, arrivato a Santa Teresa, non valuta bene il peso della Zundapp e sbaglia curva: finisce lungo e tirato sul banco di un macellaio, attraverso la vetrina. Un'altra volta, superata la piazza di San Fermo la stessa dove il suo seienne figlioletto comincia a impegnarsi nelle prime furibonde partite a palla, usando i secolari ippocastani come pali delle porte , viene tradito dal ghiaccio e fa tutta la discesa verso Cavallasca e casa sua adagiato su schiena e sedere. Giacca e pantaloni spariscono, sua moglie passa giorni a togliergli vetrini e ghiaia dal posteriore.
Così lo Spero decide di venire a più miti consigli e a più ragionevoli cilindrate. Molto più ragionevoli. L'impagabile geniaccio italiano ha appena inventato Lambretta e Vespa, lui sceglie la prima. La usa all'impazzata, portandovi a spasso fino a Villa Carlotta, a Punta Balbianello, a Bellagio tutta la famiglia, arricchitasi nel frattempo del piccolo Paolo. Non c'è raduno di lambrettisti o corsa di regolarità o altra diavoleria su miniruote che non lo veda partecipe. Lui corre dappertutto, el gira, el trüscia
Di qui la scherzosa filastrocca e vignetta del vecchio Tivàn. Intanto ha aperto la sua agenzia di viaggi Intertours in Via Garibaldi. Costretto a viaggiare appena nato e poi a saltabeccare qua e là nei primi trentacinque anni della vita, il viaggio lo aveva nel sangue. Quante centinaia, forse migliaia di comaschi avrà portato in giro per il mondo in cinquant'anni e passa? Lo sanno loro. Prima con la sua Intertours (in seguito diventata Autostradale) e poi con l'Agenzia Ronchi del Lungolago, dove aveva per altro iniziato la sua esperienza a diciotto anni o giù di lì. America, Africa, Asia
Caraibi, Kenya, Iran
Una volta, in un albergo di New York, si vide arrivare in camera tutto il gruppo di imprenditori comensi che capitanava. C'era qualcosa che non andava: erano scalzi. Avevano lasciato le scarpe fuori della porta, ignari degli usi americani, e gli inservienti le avevano buttate via. Un po' in comasco e un po' in inglese vennero dotati di nuove calzature nella prima booteria raggiungibile in ciabatte. Qualche anno dopo gli capitò di atterrare a Saigon pochi giorni prima del putiferio del Vietnam. Un'altra volta, scoppiato uno dei conflitti tra Israele ed Egitto, la famiglia temette di averlo perso per sempre. Era andato a Mauritius a pescare enormi pesci (gli unici della sua vita: uno di essi, furente per la sua imperizia, lo morsicò, lasciandogli un segno imperituro su un pollice) e non riusciva a tornare indietro. L'aeroporto del Cairo era diventato inagibile e lui passò diversi giorni a rimbalzare come una pallina tra quello di Nairobi e quello di Lagos. Preoccupato? Neanche per idea. Viaggiare era il suo pane, il suo sangue, il suo spirito, anche in quelle condizioni. Si fece finalmente vivo da Francoforte, annunciando di essere ancora tra noi.
Adesso non lo è più. Anche lui, che detestava viaggiare da solo, e più grosso era il gruppo più si divertiva, ha dovuto affrontare quel viaggio che si può intraprendere soltanto in solitudine. Ma c'è da giurare che, là dov'è arrivato, ha già ritrovato i suoi vecchi compagni di avventura, quelli partiti alla chetichella prima di lui, e li sta organizzando in nuovi gruppi, con destinazione questa o quella zona dello Sconfinato Altrove.
© Mario Biondi