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Lo scrittore Mario Biondi
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OMAGGIO!

I RACCONTI DELLO SCRITTORE
MARIO BIONDI

©
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

ESOTISMO ED EROTISMO

(New Journalism - 1990)




In una nuvola di sabbia, in una letale esplosione di gas tossici la gloriosa Peugeot 404 si è fermata alle gole di Arak. E lì è rimasta, in mezzo a quel mare di roccia d’oro e mica, coperta di polvere gialla, ad aspettare di essere riportata ad Algeri e al noleggiatore levantino che si è fatto pagare in anticipo. Oltre che in valuta pregiata, nonostante tutti i divieti del governo. Il giovane europeo ha proseguito su un camion, con un erculeo autista nigeriano taciturno, dalle grandi mani nere palmate di viola e dagli occhi iniettati di sangue. Il prezzo è stato equo. L’imbarazzo di scoprire se fossero auspicati altri servizi, per fortuna non si è mai materializzato. Aveva sentito favoleggiare che accadesse a tanti viaggiatori, in Africa.

Il viaggio per il momento si è concluso a Tamanrasset. Lui fermo lì, l’autista nigeriano già ripartito verso Agadez, il Niger, il sud, chissà dove. Ormai l’oro dei monti dell’Hoggar tende a un verde sempre più livido. Il blu del cielo si sta facendo grigio. Il filo di acqua della doccia, conteso a colpi di sandalo agli enormi insetti che si sono impadroniti dell’Hotel Mouflon d’Or in tutti i suoi interstizi, ha fatto un buon lavoro, rinvigorito da un kuskus insaporito con la carne di un ovinide misterioso e da due birre.

«Bonsoir monsieur!» Il giovane europeo è colto alla sprovvista. Nessun rumore di passi, non un solo fruscio, non un fremito aveva preannunciato questo soprassalto di cordialità. Una cordialità che suona stranamente ufficiale, solenne, fredda. Occhi neri e ardenti, capelli e baffi perfettamente curati, modesto ma buon abbigliamento di taglio europeo. Un algerino moderno. Un funzionario di una delle cento filiazioni del Fronte di Liberazione Nazionale. Un rappresentante di commercio arrivato anche lui da Algeri, da Costantina, da Bona, dal nord. Un ingegnere minerario.

«Buonasera», risponde il giovane europeo, incerto. Stava contando le stelle che a una a una avevano cominciato a comparire nel cielo, lasciandosi penetrare sotto la pelle il fresco della sera che negli interminabili giorni di viaggio dalla costa del Mediterraneo ha imparato a tesaurizzare. Seguiva proprie inarticolate illusioni di avventura esotica. Pensava alle letture, ai film che lo avevano portato lì.

«E come va che uno straniero giovane come voi arriva tutto solo nel cuore del Sahara e tutto solo si siede fuori dall’albergo, di notte, ai piedi di una palma, a meditare?» insiste l’algerino, che intanto gli si è accosciato davanti, senza sedersi, quasi non intendesse impolverarsi il fondo dei pantaloni.

Lui scrolla le spalle. Guardavo le stelle, gli spiega. Godevo il fresco. «Ah, certo», commenta l’altro. «Uno ne sente il bisogno, di sera, dopo tutto il caldo e la polvere del viaggio. Siete appena arrivato, vero?» Da dove?

Il giovane risponde, un po’ annoiato. L’Algeria dei primissimi anni dopo la liberazione non si è ancora riabituata a vedere volti stranieri. La conversazione si avvia. L’algerino insiste per offrire qualcosa in una gargotta del “centro”. Il giovane questo “centro” lo ha attraversato con il camion. Puntiglioso, scrupoloso, il nigeriano lo ha voluto accompagnare fino davanti alla porta dell’albergo. Ed è relativamente lontano, il suddetto “centro”, con le sue miserabili bottegucce, tra le quali non gli è sembrato di distinguere nessunissimo luogo di possibile socializzazione, al di là, forse, di una panetteria. Non è sicuro di avere voglia di camminare fino a là per poi tornare indietro nel buio, sull’asfalto che di notte rimane caldo.

«Ho la mia Land», replica l’algerino. E indica con un cenno orgoglioso della mano una vecchia camionetta ammaccata, parcheggiata sul fianco del Mouflon d’Or. «E comunque», aggiunge, «a quest’ora non è molto consigliabile stare seduti per terra, sotto una palma. Circolano molti animali, di diverso tipo, a due gambe e più, che possono diventare molto pericolosi.»

Il giovane europeo si sente percorrere da un rapido brivido, che non sa esattamente a che cosa attribuire. In un grosso parcheggio di camion, sul bordo della pista, nell’interminabile altopiano dopo In Salah, una notte ha visto morire nella sabbia un autista punto da uno scorpione. Uno spettacolo angosciante, rivoltante, che i presenti hanno preso con un atteggiamento filosofico che sulle prime gli è apparso disgustoso. Cose che capitano a chi, viaggiando nel deserto, di sera si fa attirare dal fresco della sabbia, gli hanno spiegato. Così è il Sahara. È l’Africa.

Da allora, di sera, lui calza con la massima cura le desert boot e solleva bene i piedi da terra. Mai più gli era capitato di sedersi sulla sabbia. Forse il brivido è dipeso proprio dal fatto di essersi reso conto della distrazione. Di aver ceduto a un breve sogno a occhi aperti che avrebbe potuto risultare fatale. O forse è stato soltanto effetto del fresco che tende a rinforzare e che ormai i pantaloni di tela e il golf di shetland non bastano a parare. Vorrebbe andare a dormire. Su un letto più o meno vero, dopo tanto tempo, senza sabbia tra i capelli, tra i denti, negli interstizi delle dita.

«Oppure», insiste l’algerino ammiccando, «la maison des femmes. Eh, che cosa ne dite? È l’ora giusta.» E si alza dalla scomoda posizione accosciata.

«La maison des femmes?», ripete lui, incerto. Non ha capito. «Sì, sì, là, guardate», riprende l’algerino, animandosi di colpo. Quindi si raddrizza e indica con un dito affusolato, in fondo a un braccio lunghissimo, nella direzione del deserto. «Là», ripete. «Guardate. Dove c’è quella luce.»

Lui si alza a sua volta e guarda. Sotto lo sfolgorio della luna non vede nessuna luce. La Stella di Agadez in rame che ha comperato in quei giorni da un targui e che porta appesa al collo, a contatto con la pelle, sembra provocargli un lieve accesso di prurito. Il freddo, di nuovo. Cerca di trattenere un secondo brivido, più forte.

«Dove?» chiede.

«Là. Là», ripete l’algerino, sempre più animato, tirando fendenti nell’aria con il dito. Lui strizza gli occhi per guardare meglio. Un vago bagliore. Una specie di fortino in mezzo alla sabbia. Tetraggine sconsolante. «Il bordello», continua l’algerino con voce divenuta quasi sognante. «Le donne più belle di tutto il Sahara. Dove potete pensare di trovarne altre così interessanti? Così giovani? Autentiche rose del deserto. Siete mai stato in una maison des femmes, in questo paese?»

Il giovane europeo avverte un terzo brivido, ancora più forte. È tanto tempo che non sente il calore di una donna…

Potrebbe essere l’attacco scartato di uno degli splendidi racconti di Paul Bowles raccolti in La delicata preda e in Parole sgradite. L’inizio di un capitolo apocrifo dell’inquietante Il tè nel deserto.

All’inizio della vicenda, il giovane protagonista, Port, arrivato in Africa del Nord con la moglie, probabilmente per vincere le incertezze erotiche e sentimentali di un matrimonio quasi sicuramente sbagliato, viene appunto attirato in un bordello da un untuoso indigeno. Ne segue una vicenda che a poco a poco sprofonda in un vortice di ambiguità, di assurdo, di orrore, secondo canoni che sono tra i più tipici della narrativa visionaria di Paul Bowles.

Il giovane europeo, protagonista dell’attacco di racconto “pseudo-Bowles” che — ammiratore senza riserve del narratore americano, suo traduttore appassionato — mi sono permesso di scrivere in apertura di questo pezzo, sono io. Ero io. Arrivato in quel modo a Tamanrasset da Algeri agli inizi degli anni Settanta. Invitato da un misterioso ed elegante signore algerino — subito, la prima sera, poche ore dopo lo scomodo arrivo — a visitare una maison des femmes. Un bordello sahariano.

Davanti agli occhi, nel buio del deserto, mi si spalancarono ubertose visioni di carni appena celate da preziose sete e finissimi broccati. Un quadro di uno dei tanti orientalisti del Settecento e dell’Ottocento che si sono perduti a immaginare, a costruire una scena di uno di quegli harem da Mille e una notte in cui mai avrebbero potuto mettere piede. In un bordello — marocchino, algerino, egiziano o turco —, in un kerhane, erano tutt’al più riusciti ad andare. Esattamente come mi veniva proposto dall’insistente signore nordafricano.

Vidi un Chassériau, un Liotard, un Fernand Cormon, un Benjamin-Constant. Il Tè alla menta di Elie Pavil. La Donna araba con narghilé di Jules Migonney. La Suonatrice di Amzad di Paul-Elie Dubois. L’Incantatore di serpenti di Francesco Coleman. Forse, più di tutto, data l’ora, la Danza notturna di Myrto Debard. E tanti altri.

Mi balenò davanti agli occhi il lampeggiare dei lustrini d’oro che impreziosivano l’ombelico dell’osannata artista (come altrimenti definirla?) circassa che a ora tardissima avevo visto per notti di seguito eseguire la danza del ventre nel più sfarzoso locale di Beyoğlu, Costantinopoli, facendoci raffinato regalo, all’ultimissimo istante, tra i vapori e gli umori del rakı e delle sostanze ufficialmente vietate che aleggiavano tutto attorno, della fugace visione delle sue mammelle. Piccole, sode, rette alte dalle braccia sollevate ad anelare all’estasi in un tormento di vibrazioni.

Donna di inquietanti abitudini sessuali, si erano affrettati a spiegarmi la prima sera i miei accompagnatori turchi, fin troppo solleciti. Pedanti. Lo spettacolo era sublime. Tale da cancellarmi dalla mente il ricordo della visita, fatta qualche pomeriggio prima, alle altrettanto inquietanti ma certamente ben più tormentose scalette del Vicolo della Giraffa, appena dall’altra parte della Gran Via di Pera, a capofitto sull’imbocco del Corno d’Oro, regno del kerhane, del postribolo miserabile, del sesso a pochissima moneta sudata, zona dove è raro che si avventuri il turista che non sia un vero viaggiatore.

Il Vicolo della Giraffa me l’ero dimenticato. Paul Bowles e i suoi agghiaccianti racconti di agguati nel deserto non li conoscevo ancora. Avevo poco più di trent’anni. Ero giovane e forte. Ricordavo, caso mai, Pierre Loti, Le Donne turche al bagno di Delacroix e la danzatrice di Beyoğlu. Seguii l’algerino, montai sulla sgangherata Land Rover con il suo tendalino, andai alla maison des femmes.

Che cos’è la forza tanto indefinibile quanto irresistibile che ha spinto nei secoli e continua ancora oggi a spingere l’uomo bianco, l’occidentale-nordico inquieto verso le agognate braccia, il mitizzato calore del ventre di una femmina esotica? La stessa forza, con ogni probabilità, che ha sempre spinto l’uomo nero, ovvero il diverso da noi, l’orientale-meridionale, verso l’altrettanto mitizzata donna bianca.

Fiumi di inchiostro ha fatto versare il personaggio della leggendaria e feroce Roxelana, bellissima russa, circassa o forse persino italiana che, portata nell’harem del più favoloso e potente dei sultani ottomani, Solimano il Magnifico, arrivò a piegarne la volontà, diventando arbitra — per il vero niente affatto nel bene — delle sorti della Sublime Porta di Costantinopoli. Altrettanto, se non di più, anche per la relativa vicinanza nel tempo, ne ha fatto versare la mirabile creola martinicana Aimée Dubuc de Rivery, cugina di Giuseppina Beauharnais, imperatrice di Francia.

Meno fortunata della cugina, almeno nell’immediato, Aimée venne catturata dai pirati e, attraverso vicende in tutto e per tutto degne della celebre Angelica romanzesca, finì con il diventare la favorita del sultano Abdul Hamid e l’ispiratrice del giovane e impetuoso modernizzatore Mahmut II, sterminatore della reazionaria casta militare dei giannizzeri, arrivando a sua volta a determinare — e ancora una volta non del tutto nel senso più positivo — la politica ottomana.

Gioielli e veleni, broccati e pugnali, amori e odi, tradimenti e passioni, lascivie e pudori, freddezza del consiglio politico e ardore del ventre, parole in forma di poesia e altre in forma di trattato, dichiarazioni d’amore e di guerra. Un universo sensazionale: mai i sultani ottomani di cui ho ricordato il nome avrebbero mosso un dito senza prima consultarsi con le affascinanti “infedeli” chiuse nei loro harem a ordire intricatissimi damaschi d’amore e di politica.

Lo spirito dell’harem. Quello spirito che ancora oggi, scomparsi imperi e califfati, a Costantinopoli e in tutto il mondo medio-orientale continua a conferire alla donna occidentale uno statuto particolarissimo, non scritto ma perfettamente funzionante. Che incanto leggere le deliziose pagine che Freya Stark, intrepida viaggiatrice inglese, dedica alle sue peregrinazioni nel mondo musulmano (Yemen, Iraq, Kurdistan, Iran, Siria, Palestina, Egitto) negli anni Venti - Trenta. La curiosità, il rispetto e soprattutto il formidabile, non scalfibile spirito di solidarietà “tra donne” con cui viene accolta e onorata dalle sue ospiti musulmane, apparentemente recluse lassù, nell’inaccessibile gineceo, ma in realtà capaci con le loro sottili arti diplomatiche e amatorie di determinare tutto il mondo circostante.

Che cos’ha raccontato, del resto, in tempi assai più recenti, Vittoria Alliata nel suo fortunatissimo Harem? E non capita quasi ogni anno di leggere le vicende di una donna occidentale arrivata chissà come in un harem medio orientale e diventata la moglie dello sceicco, dello sceriffo, del reuccio locale? Non tanto reuccio, se non di statura, è Hussein di Giordania. E sua moglie è occidentale. E la famosissima Begum, regina delle cronache dei nostri anni di gioventù, moglie dell’Agha Kahn degli ismailiti?

L’elenco potrebbe dipanarsi a lungo. Ma era di uomini bianchi e donne nere che si doveva parlare. Le mete dei viaggiatori sono spesso, o tendono a diventare, più che località reali, luoghi della mente. Il viaggiatore vuole trovarvi esattamente ciò che andava cercando. Se non lo trova, lo inventa. In ciò consiste essenzialmente il senso dell’esotismo e del fascino da esso esercitato su tanti spiriti creatori. Poeti, scrittori, pittori, musicisti: da Goethe a Meyerbeer, da Bizet a Hesse, da Ingres a Conrad, da Delacroix a Celine, da Rimbaud a Matisse, da Baudelaire a Renoir, da Pierre Loti a Ennio Flaiano. L’elenco sarebbe interminabile.

Non è certamente un caso se l’inconscio collettivo dei popoli ha voluto che le espressioni esotismo ed erotismo non soltanto si bacino in rima ma differiscano di un’unica, minuscola lettera. Una sola delle oltre venti che compongono i diversi alfabeti. Un abbraccio fatale, che dalla più elevata e incorporea delle aspirazioni poetiche può calare fino alla più bassa, sanguigna e carnale delle pulsioni erotiche rappresentate in forma pittorica o letteraria.

Abbandonandosi all’esotismo, è assai probabile che l’artista affronti e al tempo stesso cerchi di esorcizzare un lato oscuro del proprio erotismo. Forse inconfessabile, talvolta diverso, spesso inconscio. Non potendo non soltanto realizzare materialmente ma nemmeno cantare in termini pianamente comprensibili il proprio amore per la giovane Marianne Jung Willemer, il sommo e anziano Goethe ricorre alla poesia dei persiani, cela la figura dell’amata sotto i veli della bellissima Suleika e compone il mirabile, quasi indecifrabile monumento del Divan occidentale-orientale.

Erotismo estenuato, sottilissimo, eburneo. Non un solo accenno diretto agli aspetti carnali dell’amore. Ma, sotto, quanta ambiguità, che mare di possibilità per la pruriginosa curiosità degli esegeti. Quanti “coppieri”, quanta “ebbrezza”. I suoi ispiratori, i persiani Hafiz e Celaleddin Rumi, cantavano essenzialmente l’amore per il Sole, che era tutto tranne una donna. Ufficialmente Dio. Nella realtà un fanciullo.

Nessun mistero, invece, nel carnalissimo amore di Baudelaire per la bella mulatta Jeanne Duval. Quanto a Rimbaud, dopo le travagliate vicende che lo legarono a Verlaine, con sparatoria finale e fuga per il mondo, si favoleggia di un suo appassionato amore per un’abissina, concepito e consumato laggiù, nelle terre di Aden, Harar ed Etiopia dove, per sfuggire ai fantasmi del proprio io poetico, il più sensazionale fenomeno della poesia dell’Ottocento si era rifugiato a fare il commerciante di tessuti, il contrabbandiere di armi, l’avventuriero.

«Absurd dégoutant», definiva il proprio abbandonato lavoro poetico. Che spaventevole viaggio nell’abisso! Fu il cancro o la sifilide a ucciderlo? In ogni caso fu la dissoluzione. Fisica e morale. Sulle sue tracce, con uguale pessimismo nichilista seppure con diversa convinzione ideologica e con esiti non altrettanto rovinosi, si avventurerà Paul Nizan. Aden, Arabia, con il suo celeberrimo attacco: «Avevo vent’anni. Non consentirò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita...» E le indimenticabili considerazioni sull’impossibilità per i viaggiatori di amare davvero la donna esotica. «Le donne sono loro interdette... non le possiedono e non ne sono posseduti», scrive. Eppure subiscono un’irresistibile coazione a cercarle.

Non differente, anche se diversamente iconoclastica, la furia che spinge il dottor Bardamu, ovvero Louis-Ferdinand Destouches, ovvero ancora lo scrittore Céline, ad abbandonarsi a orge verbali e sperimentazioni erotiche nel Camerun letterariamente trasfigurato nel Bikomimbo del Viaggio al termine della notte. «La negreria puzza di miseria...» inveisce. Però poi, non sapendo che cosa meglio fare, con la medesima «negreria» pratica un po’ di «trasmigrazione tra i sessi».

Eh, sì, la “negritudine”, la “diversità”, l’“altro da noi” ha sempre esercitato sull’uomo bianco un’attrazione irresistibile. Un’attrazione, tuttavia, pronta a trasformarsi in terrore. All’esotico si può guardare con la malinconia con cui Pierre Loti osserva il lento sfarsi di Costantinopoli dalle alture di Eyüp, sopra le Acque Dolci d’Europa, tra le silenti tombe di un cimitero musulmano. Ma si può guardarvi anche con orrore. Il profumo di esotico può convertirsi, per le narici dell’inconscio, in tanfo insopportabile.

“Faccetta nera” cantavano, con gusto per lo meno discutibile, i fanti italiani inviati a costruire l’Impero. Ben diversa era la realtà che si trovarono a vivere, laggiù, in Abissinia, terra incantatrice ma assassina di Rimbaud e di un incalcolato numero di esploratori e viaggiatori. Oh certo, l’amore esotico lo trovarono: pare fosse facile e a buonissimo mercato. Ma soprattutto trovarono sopraffazione e morte.

«L’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza», arriva a inveire il protagonista di Tempo di uccidere, indimenticabile romanzo di Ennio Flaiano, testimone diretto di quegli odiosi eventi bellici. Eppure la narrazione aveva preso il là da una straordinaria vicenda d’amore con una bellissima abissina. Poi, via via, anche in questo romanzo, ecco progredire l’orrore. Che l’esotismo sia una delle tante idee che l’uomo coltiva del peccato?

Non diverso, seppure mediato da un’ispirazione letteraria al tempo stesso da gelido entomologo dei sentimenti e da livido visionario della realtà, è l’orrore nordafricano in cui a poco a poco nel romanzo di Paul Bowles — e con ogni probabilità anche nel film di Bertolucci —, precipitano Port e Kit, i mal-congiunti protagonisti di Il tè nel deserto. Un orrore che è riscontrabile in tanta parte della narrativa di questo grande scrittore americano, troppo tardi scoperto non soltanto dai lettori ma anche da una critica che in ogni angolo del mondo non perde mai occasione per dimostrarsi miope. Penso a La delicata preda, racconto che dà il titolo alla più grossa delle due raccolte recentissimamente pubblicate in Italia.

Un ragazzo nordafricano è in viaggio nel Sahara con due zii. Gode beato e incosciente i piaceri elargiti dalle «ragazze di pelle nera di stanza nel piccolo quartier réservé di un’oasi. Ma il viaggio riprende, nel mare dorato di sabbia, a dorso di cammello, di duna in duna, di rischio in rischio. La piccola carovana è vittima di un odioso tradimento, gli zii sono uccisi, il ragazzo viene fatto prigioniero da un predone, violentato, castrato, ucciso.

«È l’Africa», sembra voler dire Paul Bowles con il suo linguaggio ricchissimo e al tempo stesso gelidamente oggettivo, da speleologo del gusto occidentale per l’esotico, per il “diverso”. Lui, omosessuale dichiarato, sposato a una donna a sua volta omosessuale dichiarata, rifugiatosi nei recessi più decentrati del mondo (America latina, Asia), nelle esperienze più stranianti, e infine — complice anche la droga nordafricana, il khif, — approdato al Nord Africa, a quella Tangeri dove vive in una casa disadorna e dove ora accorrono in fila indiana critici ed editori di tutto il mondo, lasciandosi dietro un’ipocrita scia di lacrime di coccodrillo. Grandissimo vecchio. Ottant’anni totalmente dedicati all’inattualità dell’esistere, alla assoluta “normalità dell’essere diverso”.

Penso ad altre sue storie di amore e/o orrore, sempre ambientate in quel mondo nordafricano dal quale Bowles non potrà certamente staccarsi mai più. Ancora l’amore è il movente di Un episodio remoto, seppure un amore di tipo del tutto particolare. Amore dei “luoghi” e delle “lingue” che in tali luoghi si parlano. Un linguista occidentale si avventura nel deserto alla ricerca di certi oggetti tradizionali che gli stanno particolarmente a cuore. Attirato ancora una volta in un agguato, viene trasformato nello zimbello di una tribù, privato della favella e della ragione, eppure mantenuto vivo in quanto individuo per continuare in quelle condizioni la più straniante e straziante delle avventure umane.

Ancora amore in Le ore dopo mezzogiorno. E ancora una volta un amore a suo modo “diverso”. Un occidentale che ama fanciulle giovanissime suscita scandalo nella pigra assenza di eventi di una pensione marocchina gestita da altri occidentali. Un ennesimo agguato. Un’ennesima morte atroce. Oh, fantasmi dell’inconscio!

E se non è la morte, è la solitudine, come nello splendido Il tempo dell’amicizia, ambientato in un’oasi del deserto algerino. Un’anziana insegnante svizzera, abituata a passarvi le vacanze, fa amicizia con un ragazzetto del posto, cerca di educarlo, di insegnargli che cos’è il Natale cristiano, qual è il significato del presepe. Ma sottesa a una vicenda in apparenza tanto banale scorre una fervida fame inespressa e inappagata di amore. La conclusione è la più grigia delle solitudini.

«È l’Africa», «C’est l’Afrique», conclude una ameno-tragica storiella africana, in cui scorpione e ippopotamo, dopo avere stretto un improbabile patto di alleanza, dello stesso patto finiscono per morire entrambi, e in maniera atroce. «C’est l’Afrique», pensa l’amatore dell’esotico che decide di affrontare il continente nero, aspirando in molti casi a finire tra le braccia di seta di una donna nera, con le sue natiche piccole, le sue cosce nervose, il suo ardore intimo, succeda quello che succeda.

Al giovane europeo dell’attacco, per la verità non capitò nulla di sensazionale. Niente agguati, nessuna violenza, ma neanche sete né broccati. Niente natiche snelle, cosce forti, ventri ardenti. In cerchio lungo le mura dello squallido pseudo-fortino, all’aperto, nel freddo della sera fattosi ormai pungente, si intravedevano diverse povere anime in pena, di sesso femminile, pelle bruna e squallidi capelli che molto male reggevano l’ingiallimento artificiale, ciascuna accoccolata con aria esausta su una stuoia logora, davanti alla soglia della sua miserabile casupola di canne. Tenevano un braciere tra i piedi incrociati davanti al corpo, in una posizione sguaiata, a riscaldare più che a illuminare ambiguamente quel basso ventre che con ogni probabilità non era mai stato ardente.

Niente Delacroix e nemmeno Pierre Loti. Moltissimo Rimbaud e Celine, piuttosto. Molto Paul Bowles. Tantissimo Vicolo della Giraffa di Costantinopoli, con i suoi miserabili kerhane. Come allora, e come per il protagonista di Il tè nel deserto, il sesso risultò del tutto impraticabile. Impensabile.

L’algerino accompagnatore parve più seccato che dispiaciuto. Apparentemente esaurita ogni cortesia, riportò il giovane europeo fino al “centro” di Tamanrasset, non un metro più in là. Parve improvvisamente avere una gran fretta di andarsene. Tornato all’Hotel Mouflon D’Or a piedi, il giovane venne affrontato dal direttore, che brandiva una scopa accompagnata da un’aria tra il bellicoso e il preoccupato.

«È venuta la polizia», gli comunicò. «Ha aperto la porta della vostra camera e ha buttato per aria tutto.» Il giovane europeo scrollò le spalle. Non era la prima volta che succedeva. Un uomo in viaggio da solo, nell’Algeria dell’immediata post-liberazione suscitava con ogni evidenza molti sospetti.

«Pazienza», replicò. Nel bagaglio non c’era niente di prezioso. Soldi e documenti li portava chiusi in un tascapane militare francese di cuoio, comperato chissà quando e chissà dove, che portava agganciato alla cintura. D’altra parte aveva avuto modo di imparare che la polizia algerina era di terribile puntigliosità ma di estrema correttezza. Almeno per quanto riguardava personalmente lui.

«Strano», concluse il direttore, appoggiando la scopa in un angolo e spegnendo l’antidiluviano ventilatore a pale appeso al soffitto. «Credevo che foste amico del capo della polizia.»

«Io?» chiese il giovane, stupefatto. Amico del capo della polizia? Perché mai?

«Mah», concluse il direttore, spegnendo anche la lucetta sopra il banco, «vi ho visto andare via insieme, con la sua camionetta.»

Qualche tempo più tardi, nel più gelido degli inverni, il giovane europeo, ormai inguaribilmente malato di mal di Sahara, arrivò a Ghardaia. Visitò le cose profane e soprattutto le cose sacre dello M’zab, ma con una certa fretta. Non appena si fece sera uscì dall’alberghetto e si unì a un piccolo corteo di uomini che procedevano alla spicciolata, tutti nella stessa direzione. Ancora una volta il portone della maison des femmes si chiuse alle sue spalle. Ancora una volta, all’aperto, compì il giro dei minuscoli tuguri, delle donne accoccolate davanti alla soglia con il braciere tra le cosce. I più inutili dei bracieri per i meno ardenti tra i ventri.

Ancora una volta non poté accadere nulla. Però lui era lì, vittima del suo mal di esotismo. «C’est l’Afrique», Uomo Bianco.


© Mario Biondi

Per Vanity Fair Italia (mensile poi chiuso), agosto 1990
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