Intervista a cura di Emma Sassi. Pubblicata su "Como", Anno XXXVI, autunno 1992, n. 3 - Direttore Gianni Brera
Narratore, poeta, traduttore, critico letterario, Mario Biondi è nato a Milano nel 1939 ma è vissuto a Como dai quattro ai diciannove anni. Personaggio di fama nazionale, soprattutto da quando nel 1985 ha vinto il premio Campiello con Gli occhi di una donna, Biondi non ha dimenticato le sue origini che riaffiorano in ben sei dei suoi otto romanzi. Se la sua prima prova narrativa, Il lupo bambino (1975), è pertanto ambientata in una città nella quale si può facilmente riconoscere Como, Gli occhi di una donna (1985), storia intrecciata di due eminenti famiglie lombarde dalla prima guerra mondiale ai nostri giorni, ha come sfondo soprattutto Bellagio o, più precisamente, la montagna sopra Bellagio. Nel bellissimo Un amore innocente (1988) — che narra l’amore irrefrenabile, straziante e ricambiato, ma non consumato, fra uno scrittore di trentacinque anni e una ragazzina di quindici — il protagonista, in periodo fascista, fugge in Svizzera attraverso quei valichi di confine che i contrabbandieri comaschi conoscono molto bene e inoltre trascorre le estati a Lezzeno dove possiede una piccola casa. Lezzeno ritorna in Crudele amore (1990) che può dirsi senz’altro la continuazione del romanzo precedente, mentre nella terza parte del recente II destino di un uomo (1992) vediamo il protagonista che, immerso nei suoi pensieri, percorre il centro storico della nostra città, da via Volpi al Duomo a piazza Cavour. La vicenda dell’ultimo romanzo di Mario Biondi, che copre un arco di tempo che va dagli anni '20 agli anni '50, ha come protagonista un trovatello che, fuggito da un ospizio viene accolto da un vecchio eremita, impara a lavorare in una fabbrica di tessitura, combatte valorosamente nella guerra partigiana, diviene il braccio destro di un imprenditore tessile che non riesce a salvare dal fallimento, e ritorna alla fine nelle sue valli, richiamato da un passato che non riesce a cancellare, da un «destino» al quale non può sfuggire. Ed è proprio per parlare in modo più approfondito di quest’ultimo romanzo, e scoprire nello stesso tempo il lunghissimo lavoro di costruzione e di elaborazione che lo ha preceduto, che siamo andati a trovare lo scrittore nella sua abitazione milanese:
D. Il destino di un uomo è un romanzo che si può definire «avventuroso». Perché questa scelta dopo due libri (Un amore innocente e Crudele amore ) incentrati sull'amore come passione travolgente?
R. Perché proseguo il mio lavoro di strumentazione sulle forme, sulle strutture del romanzo. Ho scritto un romanzo di formazione (Il lupo bambino), uno di impegno civile (La sera del giorno), un romanzo storico (Il cielo della mezzaluna), uno di famiglia (Gli occhi di una donna), una spy story (La civetta sul comò) e due romanzi d’amore. Il destino di un uomo è un romanzo “avventuroso” ma non solo: è un romanzo molto composito (di formazione, di famiglia, in parte storico) in cui ho mescolato diverse forme di romanzo, non fermandomi su una specifica. Io ho fatto parte dello sperimentalismo italiano, della neoavanguardia: dopo aver fatto sperimentazione sui testi poetici, porto avanti la mia sperimentazione affrontando le diverse strutture possibili del romanzo.
D. Il romanzo, nella prima e nella seconda parte, è ambientato in un paese piemontese ai confini con la Francia, un paese — Frassineto — che in realtà non esiste ma che viene mirabilmente descritto nei particolari. A quali luoghi si è ispirato?
R. All’Alta Val di Susa nel Piemonte, zona che io frequento da un ventennio, in inverno e in estate. Qui è nato il primo spunto di questa storia. Gli unici due luoghi reali nel romanzo sono la cittadina di Oulx che è in Italia e la città di Briançon in Francia. In mezzo c’è l’Alta Valle di Susa che però non ha nulla a che vedere con ciò che io ho scritto che è completamente inventato. Io avevo in mente dei paesaggi, delle atmosfere, dei colori, delle piante, anche delle assonanze di nomi, ma poi nel romanzo è tutto completamente ricostruito, tutto assolutamente fantastico. Addirittura per me è giusto usare l’aggettivo “visionario” perché lo scrittore che fa queste operazioni deve essere capace di avere delle visioni di luoghi che non esistono.
D. La terza parte del romanzo è per lo più ambientata tra Milano e Como. Lei è vissuto a Como, precisamente a San Fermo, dai quattro ai diciannove anni: che cosa hanno lasciato in lei quegli anni?
R. Moltissimo. La mia formazione è avvenuta lì. La mia educazione, la mia cultura, la mia sensibilità di base si sono formate lì, in mezzo a quella gente, in mezzo ai modi di pensare e di agire di quella società. Non si impara nulla nella vita come dai primi anni ai venti. Io, ovviamente, ho imparato quasi tutto lì perché ho frequentato le Elementari a San Fermo, le Medie e il Liceo Classico a Como. I miei amici veri, quelli dell’adolescenza, erano comaschi. Di conseguenza è rimasto in me un grande affetto per questa città e anche una gran voglia di raccontarla, magari un pochino reinventandola.
D. A proposito di seta, ho visto che lei usa dei termini tessili con una grandissima proprietà. Dove li ha imparati?
R.Mi sono documentato. Ho letto libri di storia della lavorazione della seta nel comasco, come quelli curati dal professor Caizzi, ma anche altri più specifici, “bollettini” che sono andato a prendere in biblioteca a Milano.
D. Il «destino» di Donato Innocenti, dopo una vita vissuta intensamente, sembra essere quello di ritornare alle sue valli, richiamato da un passato che non riesce a cancellare. Anche lo scrittore Mario Biondi sente il richiamo dei luoghi della sua infanzia e della sua adolescenza? Non pensa mai di poter ritornare a Como, un giorno?
R. Provo un grandissimo affetto per Como, però quello che posso sentire io come uomo e quello che prova il mio personaggio sono due tipi di richiamo molto diversi. Lui ha bisogno di rompere con il passato — la sua è una sorta di cura psicoanalitica — d’altra parte ha bisogno di recuperarlo: è un trovatello, non sa chi è. Così, ogni volta che tenta di rompere con il passato e di proiettare la propria vita solo nel futuro, è invece costretto a tornare indietro per cercare le proprie radici. Anche se solo inconsciamente, è costretto a ritornare nell’unico posto che si ricorda veramente, che è l’Ospizio. Se io dovessi tornare a Como, non lo farei perché ho bisogno di ricostruire il passato, ma per un richiamo affettivo e anche perché è un bellissimo posto
D. Tra i vari personaggi del romanzo, tutti abilmente descritti, quello che rimane impresso maggiormente, quello a cui vanno le simpatie del lettore è Andrea Acquaseria: l’imprenditore tessile troppo onesto e idealista per avere successo, l’individuo portato alla contemplazione, alla riflessione, all’ascolto della musica piuttosto che all’azione, colui che conclude tragicamente la propria esistenza con un suicidio. Leggendo, mi sono venuti in niente gli uomini inquieti e tormentati, gli anti-eroi tipici di tanta letteratura del Novecento, da Svevo a Gadda a Joyce a Musil. Pensa di dovere qualcosa a questi autori?
R. Naturalmente. Fanno parte della mia formazione. Chiunque scrive deve qualcosa a questi giganti. Non però per il personaggio specifico di Andrea Acquaseria che è un personaggio di romanzo, non è affatto un anti-eroe. Quello che a me sta a cuore nei miei romanzi è la struttura romanzesca che è la vera protagonista, con tutto il coro dei personaggi che deve portare a una soluzione finale, a una conclusione. Nei miei romanzi non c’è “il protagonista”, quindi non c’è l’eroe e non c’è neanche l'anti-eroe. Ci sono dei personaggi positivi, degli altri negativi, dei personaggi fortunati, degli altri sfortunati. Io ho teorizzato le mie idee sul romanzo ne La sera del giorno in cui, mettendoli in bocca ad altri, esprimo esattamente questi concetti sul protagonista che non deve esserci. Allora non ero ancora arrivato a pensare che il protagonista è la storia che io racconto. Nelle mie opere il protagonista è solamente quello che tiene i fili della vicenda: se non ci fosse lui, tutta la storia raccontata non avrebbe senso, ma è la storia che a me interessa, non il personaggio.
D. L’amore ha una parte marginale in questo romanzo; più che indulgere ai sentimenti, lei preferisce inserire qua e là qualche episodio di erotismo, consumato rapidamente. Il rapporto del protagonista con Juliette scivola presto nella routine e lui confessa di preferire la solitudine. «Chi impara a godere della solitudine» — si legge a pagina 209 — «diviene vittima di una sorta di vizio sottile e demente, cui diviene via via sempre meno possibile sfuggire. Soprattutto se un simile vizio è stato contratto in giovane età». Quanto c’è di autobiografico in questa affermazione?
R. Non c’è nulla di autobiografico. Io ci tengo che protagonista del romanzo sia la vicenda che racconto. Considero di una banalità assoluta coloro che scrivono cose autobiografiche, coloro che raccontano se stessi. Io non racconterò mai me stesso.
D. Ma io non intendevo che fosse autobiografico il personaggio, le chiedevo unicamente quanto di personale ci fosse in quel discorso sulla solitudine che, fra l’altro, è molto interessante e sicuramente condivisibile da molti.
R. Non c’è nulla di personale. Si tratta di “romanzo”. Sono riflessioni che ritengo obbligatorio attribuire a un personaggio simile. Donato Innocenti è nato e cresciuto solo, senza genitori: è “solo” per definizione. È un personaggio fatto in una maniera tale che deve per forza pensare così. È un uomo solo, è nato solo e presumibilmente rimarrà solo per tutta la vita. Che l’ amore non sia importante in questo romanzo, non sono d’accordo con lei. La scoperta dell’amore da parte del protagonista adolescente secondo me è una cosa importantissima.
D. Sì, ma più che di amore si tratta di iniziazione sessuale...
R. E amore anche quello. E il suo rapporto sentimentale con la francese Juliette secondo me è una cosa sottilissima, talmente forte che alla fine si ritrovano insieme tutti e due, dodici anni dopo, e sono rimasti soli entrambi pur avendo avuto delle esperienze (lui con delle donne a pagamento e lei non si sa con chi). Comunque, c’è un violentissimo desiderio d’amore in tutto il libro. Del resto, uno che ha un’infanzia e un’adolescenza così contorte e complicate, dubito che possa poi avere dei rapporti interpersonali semplici. Non avrei potuto fare di questo personaggio uno che si sposa, che ha una famiglia normale. E l’amore è poco importante per Andrea Acquaseria? E importantissimo. In realtà si uccide per amore. Un amore che non ha mai avuto perché è cresciuto da solo: è figlio di un padre che ha già commesso suicidio e di una madre che è morta giovanissima, è cresciuto nei collegi. E anche lui un uomo molto solo come il protagonista. Per entrambi l’amore è un fatto contorto, difficile, ma importantissimo
D. Il libro è ricco di notizie storiche precise oltre che di riferimenti colti ed è scritto in una prosa elegante. A che tipo di pubblico si rivolge?
R. A tutti i lettori di romanzi. Io ho dedicato la mia vita al libro. Ho lavorato sedici anni in case editrici, ho lasciato, giovanissimo, una carriera nell’industria che poteva essere una carriera di successo, comunque di assoluta tranquillità economica, per affrontarne una molto più avventurosa, prima nell’editoria e poi in veste di scrittore. Quindi ho un immenso, assoluto rispetto della gente che compera i libri e li legge. Per me i lettori sono tutti uguali, sanno quali sono i libri veramente difficili e quelli più facili: sono loro che lo stabiliscono e non certamente coloro che pontificano sui giornali dicendo questa è letteratura alta, questa è letteratura bassa, questa è telenovela, questo è romanzo. Generalmente ciò a cui si riferiscono con grande astio questi personaggi è soltanto il successo. C’è tutta una genìa di tristi figuri, biechi figuri, su diversi giornali, il cui compito è solamente quello di stroncare duramente i libri che a loro pare abbiano un po’ di successo. Secondo loro il fatto che un libro trovi dei lettori, che si venda, è altamente riprovevole. E naturalmente tutto ciò lo scrivono nel tentativo di far vendere qualche copia in più dei giornali sui quali fanno il loro malinconico lavoro di necrofori.
D. Alcuni momenti d’azione del romanzo sono risolti in sequenze di immediatezza visiva, quasi che lei stesse scrivendo la sceneggiatura per un film. Non le è mai stato proposto di trasporre in film un suo romanzo?
R. Sandro Bolchi voleva trarre un lungo sceneggiato televisivo da Gli occhi di una donna ma non l’ha mai fatto, però dal libro è stato tratto uno sceneggiato radiofonico in quattordici puntate che è stato trasmesso due volte. Per La civetta sul comò è stata fatta la sceneggiatura (a cui ho partecipato anch’io) per un film televisivo in tre puntate: la Rai-Tv ha comperato i diritti ma il film non è stato ancora realizzato.
D. In un’intervista lei ha affermato di non concepire l’arte come rapimento, estasi, follia ma di credere all’arte come «artigianato». Qual è dunque il suo metodo di lavoro? Come nasce un suo romanzo?
R. E un lunghissimo lavoro di costruzione, di elaborazione. A una prima idea di romanzo segue la stesura di una scaletta, punto per punto. La scaletta a poco a poco si sviluppa: io ci penso, intervengo, modifico. Su fogli che cambiano nel tempo indico tutti gli spunti possibili, tutte le ricerche necessarie, i libri da esaminare. Quando decido dove ambientare il romanzo, comincio a fare il disegno dello scenario. Faccio parecchi disegni prima di arrivare all’ambientazione definitiva. A un certo punto ho ben chiara, non solo in mente ma anche sulla carta la struttura complessiva del romanzo: come inizia, cosa succede, come finisce. Solo allora comincio la stesura. Mentre scrivo tengo davanti a me il disegno dello scenario perché ho bisogno di “vedere” i luoghi in cui si svolge la vicenda, dal momento che sono completamente inventati. La storia si viene via via variegando e aprendo: per questo poi i miei romanzi sono così compositi, con rami laterali che partono e rientrano. Della prima idea, stesa su una paginetta alla fine non è rimasto quasi più nulla.
D. Quanto tempo impiega per scrivere un romanzone di 373 pagine come questo?
R. L’idea è nata il 14 giugno del 1990, ho consegnato il romanzo alla Rizzoli a fine agosto dell’anno scorso, quindi ci ho lavorato un anno e due mesi. Nel frattempo, però faccio tante altre cose. Di solito lavoro dalle nove e mezza del mattino fino all’una al romanzo; poi il pomeriggio vado in biblioteca a cercare libri da consultare o da portare a casa per documentarmi. Altri pomeriggi li dedico alle traduzioni o a scrivere articoli per i giornali.
D. Oltre che scrittore, lei è anche traduttore, esperto soprattutto di romanzi americani. Queste due attività si influenzano reciprocamente?
R. Certo. Io mi lusingo di essere un buon traduttore perché, essendo uno scrittore, è per me connaturato l’obbligo di cercare di scrivere meglio che posso in tutte le occasioni. Traducendo libri, invece, entro proprio nel vivo del testo di un altro autore, me ne impadronisco e imparo meccanismi e strutture. Non è un lavoro di ingegneria, non ci sono formule esatte però, a livello più o meno conscio, mi accorgo che ci sono dei meccanismi che funzionano, che mi rimangono in testa e che poi io uso sicuramente nei miei libri. Quindi le due attività si influenzano a vicenda: il fatto di scrivere dà buone traduzioni, il fatto di tradurre mi consente di imparare sempre meglio le strutture del romanzo e di applicarle..
D. Con Gli occhi di una donna, nel 1985, lei ha vinto l’ambitissimo Premio Campiello. Come mai, in seguito, non ha partecipato ad altri premi letterari? E forse d’accordo con chi sostiene che sono soltanto scontri tra super editori?
R. Se fosse così facile per gli editori imporre i propri libri — come crede chi non ha mai partecipato a un premio o chi si affanna a partecipare a tutti senza mai vincerne neanche uno — essendo io uno scrittore abbastanza ben considerato di uno dei due super editori, verrei premiato per ogni libro. Invece io non ho l’abitudine di autocandidarmi ai premi. Nei sedici anni in cui ho fatto il capo-ufficio stampa (prima della Sansoni e poi della Longanesi), mi sono occupato dei premi letterari per gli altri e ne ho avuto abbastanza. Siccome io non mi interesso dei premi, l’editore non si scalmana e quindi i miei libri non vengono premiati. Non sono certamente io, comunque, a chiedere di escludere i miei libri dai premi: semplicemente non mi agito troppo e rimango fuori. Non ho nulla contro i premi: distribuiscono dei soldi agli scrittori e servono a dare un po’ di ossigeno al mondo della scrittura. Ci sono però coloro che prendono come una professione il fatto di partecipare ai premi. Questi scrittori sarebbero contenti solamente se vincessero loro tutti i premi che ci sono in Italia: allora sarebbero d’accordo con il sistema dei premi. Basta che gliene scappi uno e cominciano a urlare come delle bestie che ci sono intrighi e corruzioni
D. Come trascorre il suo tempo libero uno scrittore affermato come lei?
R. Trascorro il mio tempo libero come qualsiasi altro essere umano appartenente alla classe media in Italia. Conduco una vita del tutto normale: d’inverno faccio dei week-end di sci, d’estate trascorro le mie lunghe vacanze in Turchia, paese che amo moltissimo. Ho una nutrita serie di amici che vedo molto volentieri e che mi invitano a cena a casa loro o che invito a cena qui da me.
D. Non frequenta il mondo dei letterati?
R. No. A Milano la società dei letterati si è completamente frantumata, non esiste più dalla fine degli anni '70. Il grande cemento della società letteraria erano i poeti: la poesia, purtroppo, sta scomparendo non per colpa dei poeti, forse per colpa dei tempi. I poeti sono coraggiosi ma sono sempre meno e sempre meno ascoltati. A Milano, negli anni ‘60, frequentavo regolarmente Antonio Porta, Giuseppe Pontiggia, Enrico Filippini e altri scrittori d’avanguardia: eravamo molto amici e ci vedevamo almeno un paio di volte alla settimana. Forse una volta il letterato aveva la vita più semplice, oggi è veramente difficile. Siamo diventati funzionari editoriali quasi tutti perché bisogna lavorare. Io faccio lo scrittore, però in realtà vivo soprattutto con le traduzioni e con gli articoli giornalistici. Abbiamo tantissimo da fare e, anche se ci vedessimo, non potremmo certamente farlo con l’intensità di una volta.
D. Non fa vita mondana? Non frequenta i «salotti» milanesi?
R. Per quanto riguarda la vita mondana io sono la negazione. Mi piace incontrarmi con i miei amici e tra questi ci sono anche persone molto eminenti che hanno i cosiddetti “salotti” e possono permettersi ogni tanto di fare dei party allargati a molte persone, a persone di chiara fama. Però la mondanità di Milano è fatta essenzialmente di moda e di pubblicità. Per quel tipo di mondanità gli scrittori non servono a niente.
D. Emma Lucini, protagonista de Gli occhi di una donna ricompare, tra i personaggi secondari, magari solo per poche pagine, in tutti i suoi romanzi successivi (tranne che ne La civetta sul comò) da Un amore innocente a Crudele amore fino a II destino di un uomo. Perché questo personaggio le è tanto caro?
R. Perché le sono molto affezionato, è un personaggio a cui voglio molto bene. Io ho due mondi, ho una sorta di schizofrenia: c’è la realtà e poi c’è questo mondo parallelo che ho creato con i miei romanzi. Emma Lucini ne Gli occhi di una donna muore nel 1982, quindi è viva negli anni in cui sono ambientati i tre romanzi da lei citati e io mi diverto a farla comparire tutte le volte che si parla del lago di Como e a farle incontrare nuovi personaggi.
D. Quale sarà la sua prossima pubblicazione: un romanzo o una traduzione?
R. Sicuramente una traduzione anche perché ce ne sono in giro diverse non edite. Non pubblicherò un altro romanzo prima di due anni e, nel frattempo, usciranno diverse mie traduzioni. Se c’è una cosa che mi amareggia un po’, a proposito di premi, è che, pur avendo tradotto quarantaquattro libri — e alcuni sono davvero straordinari e molto ben tradotti — non ho mai ricevuto un premio per la traduzione. Un tempo c’era una società letteraria che si accorgeva di quello che succedeva, adesso ci sono dei gran chiacchieroni che non si accorgono di nulla e tendono a premiare il traduttore che fa soltanto il traduttore, oppure riportano come un evento sensazionale il fatto che uno scrittore abbia preso in mano un libro e lo stia traducendo. Io ne ho tradotti quarantaquattro e nessuno ci fa caso nel modo più assoluto.