Scrive di: Freya Stark

Lettura editoriale: "The Gates of Southern Arabia" (1984)

Recensione: “Le Valli degli Assassini” (2003)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Discendente della grande stirpe di viaggiatori che ebbe in lei stessa (Friya) e in Lawrence d'Arabia (el-Oréns) due degli ultimi esponenti, Freya Stark negli anni Venti e Trenta del nostro secolo percorse — a piedi, a dorso di cavallo, cammello e asino, e comunque con tutti i mezzi localmente, possibili — i territori medio-orientali dell'Islam, raccogliendo notizie archeologiche, notazioni di folklore, indicazioni che — non si sa mai — un giorno sarebbero anche potute divenire di interesse strategico e politico: stabilendo, comunque, un legame di conoscenza e amicizia tra l'Impero britannico e le estreme periferie a cui il suo influsso tendeva.

In questo libro Freya Stark racconta il viaggio — autentica avventura — che la fece arrivare dal porto di Aden fin nel cuore dell'Hadramaut — l'Arabia felix degli antichi — sulle tracce delle scomparse “vie dell’incenso” e degli altrettanto scomparsi imperi — mineo, sabeo, imiarita — che di quelle terre, in tempi anteriori alla storia, avevano fatto un paradiso.

Viaggio, come sempre, affrontato da sola, in base al fondamentale principio che unicamente muovendosi da solo uno straniero può entrare in autentico contatto con un paese “diverso” e con la sua gente. Davanti ai suoi occhi si aprono gli wadi desertici e scoscesi che dalla costa fendono le montagne, consentendo le comunicazioni con l'interno dell’Arabia meridionale.

I beduini sono suoi solerti accompagnatori, le antiche cronache sono sue guide di viaggio, gli harem delle case di nobili e sultani sono suo ostello. Conosce un mondo affascinante, già noto a Plinio eppure quasi ignoto ai nostri contemporanei.

Sulla soglia dell'ultima conquista il destino decide tuttavia di voltarle le spalle. A letto, gravemente malata, apprende che un giovane tedesco è riuscito ad avviarsi prima di lei verso l'inviolata città di Shabwa: si consola leggendo l’Eneide e pensando, con fine filosofia anglosassone, che, in fondo, “questa mania di essere primi non è esattamente encomiabile”.

(Nota. Questo libro è stato poi tradotto da me per la Longanesi, che lo ha pubblicato nel 1986 con il corretto titolo "Le porte dell'Arabia Felice". Dove "Felice" è sinonimo di "Meridionale". La traduzione è stata successivamente ripresa dalla Guanda, che l'ha poco comprensibilmente riproposta con il titolo accorciato "Le porte dell'Arabia". Ma l'Arabia è dai tempi latini divisa in "Petraea" al nord, "Deserta" al centro e "Felix" al sud. Per noi nordici le "Porte dell'Arabia" tout court sono geograficamente quelle dell'Arabia Petrea (quelle, per dire, varcate dallo straordinario Charles Doughty, da Lawrence d'Arabia eccetera), non quelle dell'Arabia Felice raccontate da Freya Stark in questo libro. Ma pazienza. È proprio del traduttore dover sottostare ai ghiribizzi di certi editori.)

2

Erano gli inizi degli anni Ottanta del Novecento. Noi italiani non eravamo buoni viaggiatori. O eravamo formidabili o eravamo scadenti, un po' impacciati e impauriti, attaccati alle gonne delle guide da charter. Ma non "buoni", ovvero normalmente, mediamente capaci di partire e affrontare il mondo in solitudine, venga quel che venga. Quindi, per chi viaggiava, riferire ciò che aveva visto non era facile, anzi molto difficile. Secondo gli editori (ed era vero) i libri di viaggio "non vendevano". I direttori di giornale inalberavano espressioni a metà tra il nauseato e il terrorizzato. Tipo: «Giordania? A chi interessa? Sahara? Che senso ha andarci?» E così via.

Mi sembrava quindi un miracolo, quella sera, in un affabile ristorante del trevigiano dove si assegnava un piccolo premio letterario, essere seduto a tavola con Goffredo Parise. Ci aveva raccontato l'Estremo Oriente, ma perché gli fosse consentito spingersi fin laggiù ci era essenzialmente voluta la guerra del Vietnam… Di fronte a lui sedeva l'impavido Cino Boccazzi, uno dei pochi veri viaggiatori italiani "in proprio" di quei tempi: era andato, tra l'altro, a cercare dinosauri nel Tenerè.

Aspettavamo l'ospite d'onore, che finalmente comparve, eterea eppure ferrea, angelica eppure maliziosa, retta con dolce delicatezza come una porcellana preziosa. Aveva novant'anni ed era sorda come una campana, ma ancora un paio di anni prima si era spinta fino nel Nepal. E si diceva che settantenne avesse disceso l'Eufrate su zattere fatte con vesciche di porco, secondo una moda dei luoghi già accertata dall'accigliato prussiano von Moltke, consulente militare di un sultano di Costantinopoli. Insomma, avevamo davanti a noi, con noi, tra noi, uno dei miti viventi (allora) del viaggio: Freya Stark. La "Nomade appassionata", come recita il titolo di uno dei suoi libri.

La premiata era lei, per le sue imprese e per i suoi testi di viaggio; a promuovere l'assegnazione del premio erano stati i suoi amici e compaesani viaggiatori veneti. Di famiglia ultra inglese, infatti, Freya Stark è quasi sempre vissuta ad Asolo, portatavi bambina dai genitori, che in quella splendida località producevano seta lavorata a mano con raffinata tecnica artigianale.

E proprio da quella seta dipendevano le civettuole cuffiette che, in pubblico, la grande viaggiatrice non si toglieva mai dalla testa. Ragazza, un telaio impazzito l'aveva afferrata per i capelli e quasi scotennata, rischiando di strozzarla. A parte questa menomazione, si diceva che da giovane fosse bruttina, e che proprio questa poco fortunata caratteristica fosse stata lo scudo che le aveva consentito di percorrere senza rischi i più pericolosi scenari vicino e medio orientali. In realtà le foto che la ritraggono da giovane ci presentano un bel viso, forse un po' duro ma luminoso e schietto.

Nata nel 1893 e crocerossina sul Carso durante la Grande guerra, Freya Stark sentì fin dal 1927 il fascino del Vicino e Medio Oriente, viaggiando in Egitto, Libano, Siria, Iraq, Persia e Arabia e rendendone conto in libri straordinari come Le valli degli assassini, che in questi giorni viene riproposto in nuova edizione (a dieci anni dalla morte dell'autrice).

Agli inizi degli anni Trenta del Novecento, una donna sola, con qualche guida locale spelacchiata e poco affidabile, parte a cavallo dai margini orientali dell'Iraq e attraversa impavida le montagne del Luristan iraniano diretta alle "Valli degli Assassini", ovvero ai rifugi medievali della setta del Grande Vecchio della Montagna, uomini sanguinari che secondo alcuni avrebbero derivato l'appellativo di "assassini" dall'uso sfrenato e coatto di "hashish".

Come dovevano essere allibiti i doganieri, i capi villaggio e persino i briganti nel vedersi comparire davanti in quegli aspri territori questa donna fragile ma dallo sguardo indomito e dal tono sferzante (nella loro lingua). Se non erano sgomenti, non credevano perlomeno di sicuro ai loro occhi e orecchi, e Le valli degli assassini ne è chiara testimonianza. Si facevano piccoli piccoli e si precipitavano al suo servizio, se non altro perché tacesse. Le donne, al contrario, erano incantate, e lei abilissima nel suscitarne e sfruttarne la solidarietà.

Freya Stark "era" il viaggio, lo determinava, lo creava con la sua stessa presenza e poi con la sua narrazione. Forse non tutto quello che ha raccontato è cristallinamente vero, e di sicuro ha avuto più di un aiuto peloso dagli amici del Foreign Office a cui riferiva le sue esperienze prima di affidarle agli editori (e a cui beneficio creò nel Vicino Oriente la rete di propaganda clandestina detta "Fratellanza"), ma quando si è in viaggio gli aiuti non sono mai abbastanza, e tutti i viaggiatori sanno che la realtà che si incontra un po' è vera e un po' è vista con occhi particolari, ricreata a propria immagine e somiglianza.

A un giornalista che le chiedeva se i viaggi l'avevano modificata, Freya Stark ha risposto con un secco "no". Infatti: era caso mai lei a plasmare il viaggio, a "modificarlo" a sua immagine e somiglianza, nelle Valli degli Assassini come nello Yemen meridionale (Le porte dell'Arabia) e in tutto il Vicino e Medio Oriente sulla soglia della Seconda guerra mondiale (Effendi).

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