Scrive di: Jason Elliot

Recensione: “Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan” (2003)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Che territorio sensazionale, che miscuglio esplosivo di fascino e tragedia. Per le corrugatissime pieghe terrestri che bordano l'Indu Kush sembrano, nei secoli, essere passati tutti. Alessandro Magno, il primo che conti veramente, più di tre secoli prima di Cristo, in direzione Oriente, lasciandosi dietro un universo di "grecità" sotto forma di esseri umani, manufatti, monete e persino cure mediche alla "yunana", ovvero alla greca. Poi una sfilza di popolazioni bellicose, avanti e indietro, dagli unni bianchi agli arabi degli immediati discendenti di Maometto ai mongoli di Gengiz Khan/Temujin. Vedendo i resti lasciati da questi ultimi nelle loro capitali iraniane (Maraghé, Soltanye), viene da pensare che non fossero proprio così barbari come ci viene insegnato. Ma, certo, hanno distrutto il complesso sistema di canali che rendeva fertile e ricchissima la Mesopotamia, privandola dell'acqua. (Pare per altro che ne sia stata privata anche molto di recente…) Poi quel Timur lo Zoppo che noi chiamiamo Tamerlano. E i suoi discendenti mecenati del Rinascimento Timuride, e suo nipote Babur, capostipite dei Moghul d'India.

Poi, ancora, nell'Ottocento e primi Novecento, il famoso "Grande Gioco": gli zar russi miravano a espandersi verso l'India dall'Asia Centrale — di cui si stavano impadronendo a poco a poco — per quelle scoscese valli (il Khyber e il Bolan Pass); gli inglesi, oltre a essere profondamente infastiditi da simili mire, puntavano anch'essi a invadere con i loro prodotti i mercati dell'Asia Centrale. Ne scrive Rudyard Kipling in Kim, romanzo che in buona misura è diventato celebre proprio perché racconta un po' di Grande Gioco, anche se per il resto si può tranquillamente ritenerlo molto meno che sensazionale. E di Grande Gioco parlano tanti altri libri, ma soprattutto tanti dossier spionistici dell'Otto-Novecento.

Fino ai nuovi zar e alla loro invasione afgana della fine degli Anni Settanta del '900, risoltasi nel suicidio dell'Unione Sovietica. Non miravano più a far transitare per quelle valli manufatti (non ne avevano abbastanza nemmeno per loro), ma grosse tubazioni dentro cui sarebbero scorsi verso l'Oceano Indiano i variegati fiumi di petrolio e gas naturale che sgorgano nei territori desertici e steppici dell'Asia Centrale. Fiumi di energia che continuano, per altro, a non riuscire a passare da nessuna parte. Appena si abbozza un percorso di tubazioni, scoppia una guerra, una rivoluzione, una guerriglia — Cecenia, Daghestan… — e muoiono migliaia di innocenti.

Fino alla rischiosa mossa degli USA — nella loro febbrile ansia di "portare democrazia" ovunque possa appunto sgorgare o transitare un litro di petrolio o di gas — di servirsi in chiave antirussa dei talebani pakistani e arabi (salvo poi cercare di spacciarli per iracheni), armandoli fino ai denti con un arsenale che secondo certi calcoli ci vorranno secoli perché sia eliminato completamente. È storia di oggi.

Nelle pieghe di questa tragica storia senza fine si inserisce tra il 1984 e la metà degli anni Novanta la vicenda umana, non del tutto lineare ma non per questo meno affascinante (anzi), di un giovanotto di nome Jason Elliot. Nazionalità? Britannica. Un personaggio di una nuova versione del Grande Gioco? Difficile dirlo, ma in ogni caso il risultato in forma di libro — Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan — è un appassionante saggio sull'Afghanistan oggi e insieme uno sbalorditivo romanzo di avventura, ardimento e capacità di guardare cose e persone (e di amarle). Certe pagine su Mazar-i-Sharif, su Herat e sulla via dell'Hazarajat, certe scene di moschea e preghiera, o anche di poverissima ma fraterna ospitalità, sono di alta classe.

Chissà come e chissà perché, nel 1984, a diciannove anni, il giovanissimo Elliot decide di andare a combattere per qualche mese con i mujaheddin antirussi. Era così facile, senza qualche buon appoggio? E che cosa gli sarebbe capitato se fosse finito nelle mani dei sovietici? Possiamo soltanto immaginarlo, mentre sappiamo benissimo che cosa gli sarebbe capitato se qualche anno più tardi fosse andato a combattere al fianco dei talebani in cui si sono in larga misura convertiti i mujaheddin di un tempo: adesso sarebbe in gabbia a Guantanamo insieme agli altri cittadini britannici catturati negli eventi afgani seguiti all'11 settembre. Grande Gioco rinnovato? Con le ipotesi non si fa nessunissima storia, ma tutta questa gente che continua ad andare a combattere qua e là per le cause apparentemente più esotiche non può non far venire in mente gli ufficialetti dello zar e della regina inglese che partivano impavidi sotto mentitissime spoglie per spiare qua e là nei khanati dell'Asia Centrale portandosi dietro l'agghiacciante consapevolezza che, se fossero stati scoperti, il loro paese non sarebbe in alcun modo potuto intervenire e li avrebbe tranquillamente rinnegati.

Sta di fatto che, quando una decina di anni più tardi Elliot torna nell'Afghanistan di Massud e compagni-avversari per scrivere un libro, la domanda che si sente fare più di frequente dai locali è proprio: "Quanto ti paga il tuo governo per fare quello che fai?" Lui protesta con sdegno, ma quelli si sono sentiti raccontare per filo e per segno il Grande Gioco dai nonni e lo stanno ancora vivendo sulla loro sfortunata pelle. Del resto da qualche tempo a questa parte siamo addirittura subissati da indiscrezioni sui segreti spionistici di un intero esercito di scrittori britannici. Sia come sia, nella Herat già in mano dei talebani, Elliot si vede buttar fuori a rischio della vita da una struttura francese, dove non credono affatto ai suoi intenti puramente letterari e parlano apertamente di "organizzazione spionistica". E lui deve scappare nel coprifuoco notturno rischiando di farsi sparare dai posti di blocco. Per fortuna ce la fa e scrive per noi il suo magnifico libro.

Jason Elliot, “Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan”, Neri Pozza
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