RACCONTA
Mickey Rourke
Un doppio ritratto (1991)
Un doppio ritratto (1991)
© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)
Screanzato, prepotente, arrogante, cafone e via deplorando. E poi: attore da strapazzo, centauro da bar, succube di parrucchieri e calzolai, nichilista da fumetti, terrorista da fotoromanzo. Questo il senso complessivo degli epiteti riversati dalla stampa più battagliera su uno dei maggiori oggetti di culto (giovanile e femminile, ma non soltanto) del nostro tempo: Mickey Rourke. Che cosa si nasconde dietro a tutto ciò? Perché Mickey Rourke si applica con così pervicace impegno a suscitare tanto oltraggiato e pruriginoso scandalo? Davanti al baretto che gestisce con il fratello nel Gran Passage di Beverly Hills, il Mickey & Joey, un sofisticato miscuglio di edicola internazionale, emporio di giocattoli e candy store ovvero bottega di caramelle e bibite analcoliche, staziona in permanenza uno stuolo di Hell’s Angels e di altri preoccupanti ceffi. Una sarabanda di motociclette ferme con il motore acceso. Un bazar di catene, stivali, tatuaggi, borchie, orecchini, bende sull’occhio. Perché? Raccontano le cronache che chi si trova a passare di lì - di norma semplici ed emozionati adepti del culto di Mickey Rourke - viene sottoposto a un’autentica ordalia di lazzi e gestacci. Uno degli autorevoli frequentatori, Steve Jones, ex Sex Pistol, pare si diverta a voltare la schiena alle anime candide che si azzardano a scattare una foto ricordo, calandosi i pantaloni ed esibendo un paio di natiche velate da un succinto slip dal cui colore gli amici riuscirebbero a dedurre le previsioni del tempo. Intanto, all’interno del locale, il celebre proprietario si abbandonerebbe a dissertazioni di centimetrica pignoleria sulle dimensioni dell’onor dell’inguine dei clienti più assidui, lamentando l’assenza di questo o di quel compagnone, temporaneamente associato alle carceri e atteso a braccia aperte. Ancora una volta, perché? Come è veramente Mickey Rourke?
Lo psicologo farebbe subito ricorso alle affilate armi del mestiere, mettendosi a frugare alacremente con la sua metaforica paletta nel groviglio dei traumi di gioventù. Nato a Schenectady, stato di New York, alla fine del ’54, verso i sette anni Mickey Rourke è stato preso di peso dalla mamma, portato a Miami e, a tradimento, sottratto per sempre a una figura paterna per altro piuttosto evanescente e non aliena dall’alcol. Facendo onore alle rissose origini irlandesi, lo stesso figlio, scoperto il sopruso, avrebbe promesso al padre che non avrebbe mai studiato, né fatto il bravo ragazzo, né niente di buono. Sarebbe diventato perfido. Il più cattivo di tutti. Una peste. Detto fatto. A Liberty City, bassofondo di Miami, mamma Rourke si risposa con un poliziotto che tratta il figliastro più con il manganello che con le morbide armi della psicologia. L’adolescente Mickey si rifugia sulla strada, in un ambiente a dir poco non olezzante di fioretti e di buone intenzioni. Il suo stesso nomignolo lo denuncia spregiativamente come un irlandese. Per difendersi dalle carinerie dei propri simili, obbedendo una volta tanto alle ingiunzioni del patrigno, prende a frequentare i miasmi sudorali e morali di certe palestre di boxe, fa una decina di combattimenti, si becca un paio di commozioni cerebrali. Un giorno, a scuola, soffre un collasso psicofisico dal quale si deduce che rischia una lesione al cervello e che dunque non potrà boxare mai più. Ma l’arte di tirare pugni, fisici e metaforici, ha evidentemente fatto presa. A diciotto anni la sorella gli presta un po’ di soldi perché possa trasferirsi a New York, dove aspira a diventare attore e dove nel frattempo è costretto a fare di tutto, secondo la più diffusa iconografia dello show business. Posteggiatore, lavapiatti, massaggiatore, buttafuori, pulitore di piscine, gelataio, caldarrostaio, cantastorie in Central Park, aizzatore di cani da combattimento e chissà che cosa ancora. Alcuni giorni sopravvive soltanto a forza di patatine e cioccolatini sgraffignati. In certe topaie dove si rifugia a dormire difende la propria vita e forse anche la virile virtù brandendo una mazza da golf, simbolo fallico dei più spudorati. Chi, sottoposto a un simile martellamento di traumi, non reagirebbe con la voglia di mostrare il culo al mondo, di circondarsi di gente incazzata, di finanziare il terrorismo irlandese e di mettere in atto una ridda di altre consimili antisociali manifestazioni da camusiano uomo in rivolta?
È sicuramente così, ma si può azzardare l’ipotesi che non basti. La vera chiave di tutto potrebbe risiedere in qualcosa di più sottile: un ferreo per quanto stravolto concetto della professionalità, come proverebbe quanto di lui, con autentica ammirazione, ha scritto Charles Bukowski in Hollywood, Hollywood!, romanzo-cronaca della perigliosa realizzazione del film Barfly. Una strenua volontà di adeguare costantemente il proprio personaggio a ciò che gli adepti - cronisti e spettatori, devoti al culto e detrattori della persona - si aspettano da lui. Che fare, altrimenti? Discettare sull’idealismo filosofico tedesco? Travestirsi da esegeta di William Blake? Chi tra i suoi muscolari seguaci in cuoio e borchie gli darebbe più retta? Il parrucchiere Giuseppe? Il calzolaio Charly? I suoi amici più cari sono fatti così, e lui così li vuole. Lo ha dichiarato un’infinità di volte: per lui qualsiasi calzolaio è più interessante di un attore. E chissà che non sia vero. Cerchiamo in ogni caso di analizzare bene se per caso sotto il vestito non bolla qualcosa di nuovo. Sotto quello, per esempio, che Mickey Rourke indossa verso la metà di Ore disperate, uno scicchissimo smoking di Armani. Così tappezzato Mickey compare in cima a una scala, lampeggiando un sorriso ammazzafemmine e mitragliando battute sul concetto di uomo di mondo tali da far accapponare la pelle. La critica inorridisce. Una scena da calendario per parrucchieri Anni Cinquanta. Ma Mickey Rourke lo sapeva già. C’è da giurare che per lui la scena è magnifica. Che l’abbia pretesa lui stesso, imponendola a Michael Cimino, non tanto per rifare Bogey (la versione originale, del ’55, ha sprezzantemente dichiarato di non averla mai vista) quanto per prodursi ancora una volta in un clamoroso gesto di rivolta. Lui stesso che, con un’esibizione da grande animale di spettacolo, prende in giro e demolisce un’immagine pubblica della propria persona che detesta, come per altro detesta quasi tutto tranne le sue sette Harley Davidson (più le otto del fratello Joey) e l’irredentismo irlandese. Uno dei primi tasselli del catartico rinnovamento che un giorno senza dubbio dovrà venire a fare di lui un essere completamente diverso. Le ragazzine hanno perso la testa vedendolo comportare (secondo lui e non soltanto lui) da fesso in Nove settimane e mezzo? Un film (sempre secondo lui e non soltanto lui) melenso e fasullo. Un brutto spot pubblicitario dopo il quale non è più riuscito a toccare una femmina per quattro anni o giù di lì. Se da cavalcare non ci fosse stata la 134 Springer con il suo manubrione, i suoi fanali e le sue cromature... Ecco invece che la catarsi prende avvio: adesso le medesime fanciulline saranno costrette a vederlo autosmitizzarsi in quel modo. Scendendo le scale come un modello di pettinatura scolpita con il rasoio. Ah! C’è da giurare che sotto il vestito in questo caso bolla Giuseppe Franco, il parrucchiere dei divi di Hollywood, grande amico se non addirittura - lascia intendere qualcuno - persuasore occulto del tenebroso Mickey, al quale farebbe di tutto per trasmettere il proprio livore nei confronti di un mondo che lo accetta con albagia, soltanto in qualità di subalterno. Di parrucchiere, appunto.
Sembra infatti fuori di dubbio che Mickey Rourke ci tenga sempre meno a sembrare il bellone pasticciatamente raffinato e confusamente perverso in cui lo aveva trasformato certa rosea stampa dopo Nove settimane e mezzo. Ma con ogni probabilità non vuole più nemmeno apparire il pessimo ragazzaccio che è sempre stato. La peste più universalmente riconosciuta degli Stati Uniti e forse di tutto il mondo, Irlanda compresa. Quante volte glielo avrà cantato, mulinandogli il manganello sotto il naso, il poliziotto di Liberty City impostogli dalla madre come patrigno? "Sei una peste, Mickey." Quante volte glielo avranno ripetuto la stessa madre, gli insegnanti, gli allenatori di boxe, i compagni di scuola e di palestra, che pure non erano certamente degli stinchi di santo? "Sei tremendo". E lui lì, costretto a comportarsi in quel modo per onorare l’antica promessa fatta al papà. Non combinerò mai niente di buono. Finirò male. Così imparano.
Invece niente. Per quanto abbia continuato a fare il superduro, il villanzone, il metallaro, il motociclista, il teppista, il terrorista, Mickey Rourke a finire male non ce l’ha fatta. Per niente. Lo sgridano, ma poi lo coprono con palate di soldi. Lo censurano, ma poi vengono dai quattro capi del mondo per intervistarlo e fotografarlo. Vestiti di Versace e di Armani. Le Harley Davidson più belle. Le chick più figose. Mentre lui ha quasi sicuramente fame e sete di una cosa sola: arde di espiare, di ricevere la giusta remunerazione. Da bravo irlandese, infatti, Mickey è un buon cattolico che, pur essendo uno spregevole peccatore, crede nei miracoli. Non sono forse state le sue preghiere a salvare il fratello Joey dal cancro? Perciò si è fatto irridere e vilipendere negli stracci di San Francesco, mettendosi addirittura a correre nudo sulla neve. Ma è servito a poco. E ancora a meno è servito farsi rompere le costole da ragazzotti messicani e portoricani per riprendere a boxare in Homeboy. E farsi combinare con una maschera da mostro per recitare la parte di Johnny il bello. No. Ci vuole ben altro. E questo "ben altro" lui si è messo a cercarlo con impegno. Forse ha cominciato a trovarlo.
Se per Mickey la vita è azzardo, si proceda azzardando. Torniamo al rifacimento di Ore disperate. La prima del film deve essere stata un trionfo. Non di critica, naturalmente. Lui non se lo sarebbe mai aspettato e comunque se ne sarebbe ufficialmente seccato, insieme agli amici parrucchieri e calzolai. No. Un trionfo tutto suo. Personale. Privatissimo. Ficcato negli abissi più profondi dell’intimo, ma di una forza tale da fargli rizzare i capelli sulla nuca nonostante la gommina, da fargli tremolare il tatuaggio con il simbolo dell’IRA, da fargli lacrimare sotto le lenti nere gli occhi malati di congiuntivite. Quando, in mezzo al tremebondo pigolare e dibattersi della famiglia sequestrata dallo psicopatico aspirante scrittore, ha rivisto sullo schermo la ragazzina sghignazzargli in faccia invece di cadergli ai piedi terrorizzata oppure in deliquio erotico, c’è da giurare che Mickey abbia sentito un soprassalto di emozione. Una ragazzina che finalmente gli rideva in faccia. Il climax stava arrivando. Quando poi, nelle ultime scene, si è rivisto disprezzato, trattato come un cencio, sforacchiato, ridotto a una padella per caldarroste dal fuoco incrociato della polizia, c’è da pensare che non abbia retto più. Ecco, finalmente, la catarsi, la vendetta nei confronti di chi, nonostante il polverone dei rimproveri e delle censure, non è mai riuscito a rimunerarlo con giusta severità per le sue colpe di ragazzaccio pestifero. Eccolo lì, lui, Mickey Rourke, l’oltraggioso sex guy, il peccatore inveterato che le esigenze di copione hanno appena costretto a fornicare sveltamente in piedi davanti agli occhi di un innocente, ridotto a un colabrodo dalle armi di un’intera squadra di poliziotti, tutti identici al padrigno di Liberty City, uno per uno. Duri, violenti, cattivi, vendicatori. E comandati da una donna più cattiva ancora. Sì, c’è proprio da credere che al solo pensiero Mickey Rourke si sia abbandonato sulla poltroncina della sala da proiezione in un parossismo di pacificazione. Una donna. Che invece di cadere ai suoi piedi gemendo e dibattendosi in preda a turpi calori lo puniva con la più inflessibile delle severità, lo faceva mitragliare, frantumare, spiaccicare, distruggere, annientare. Che trionfo. Che pace. Dalle ceneri del massacro avrebbe finalmente preso avvio il rinnovamento totale. Le vie del Signore, poi, sono infinite. Avrebbero potuto portare chissà dove. A un taglio di capelli con shampoo e frizione, a una dentiera candida, a farsi stiracchiare la pelle della faccia in un lifting. A quel punto ogni cosa era possibile. E soprattutto, come aveva ricordato il vecchio "compagno di sbronze" Bukowski, c’era sempre la professionalità. Che ancora una volta avrebbe consentito al "perfido" Mickey di presentarsi in una veste del tutto nuova, sorprendente, incazzata.
(Myster, primavera 1991)
2
Un finale disperato. I colpi del formidabile boxeur di colore si abbattono come martellate sulla testa del bianco suonato, che potrebbe tranquillamente lasciarsi andare, rinunciare, cedere. Le forze in campo sono chiaramente troppo impari. E comunque è tutto previsto, combinato. Invece no. In un incomprensibile sforzo sovrumano, il povero disgraziato resiste. Finge di non sentire le botte, sembra persino che rida, che irrida l’avversario con la bocca contorta da troppi anni di percosse fisiche e morali. La realtà è che, mentre mulina a sua volta i pugni alla cieca, davanti agli occhi sanguinanti gli balena indelebile l’immagine di una giovane che gira su una merry-go-round, una giostra da luna park per bambini. La donna che ama. Un viso puro, simbolo di quella vita innocente, pulita, da casa, che si è lasciato sfuggire tra le dita insieme alla gioventù. La pioggia sferza impietosamente il ring allestito all’aperto sulla spiaggia di Coney Island. Il pubblico lancia grida beluine. Esige il pollice verso, il sacrificio. Un’ultima serie di colpi furibondi, il vecchio brocco si abbatte sul ring invaso dall’acqua. Non si alzerà mai più. Il medico lo aveva avvertito: con il suo cranio lesionato non avrebbe dovuto continuare a combattere. Muore così, irriso dal pubblico, infradiciato dalla pioggia, portandosi via negli occhi l’immagine della merry-go-round che gira, gira, gira, interminabilmente. La giostra della vita. Il film è Homeboy, il protagonista dell’amara vicenda è Mickey Rourke. E in tutto ciò vi è qualcosa di simbolico, di autobiografico. Come un giro di giostra, il cerchio si chiude.
In un certo senso, infatti, per Mickey Rourke le cose sono andate davvero così, tanto tempo fa. Un’infanzia e un’adolescenza poco felici. Dopo la separazione dall’evanescente figura del padre, la madre lo aveva portato a vivere a Liberty City, un quartiere periferico di Miami, Florida. Ambiente a rischio. Il patrigno, un poliziotto irascibile e manesco, pronto all’uso del manganello piuttosto che delle melliflue arti della persuasione, aveva voluto che imparasse a difendere l’adolescente virtù e la pelle in quelle mean street, che si iscrivesse a una sudicia palestra di boxe. Il ragazzo era ribelle, ingovernabile. Il suo sangue irlandese faceva da ribollente sottofondo ai traumi dell’infanzia. Menare le mani gli piaceva. Una lunga serie di incontri, una brillante prospettiva. Poi il crack. Come gli piaceva darle, così di fronte ai pugni degli avversari non aveva l’abitudine di ritirarsi. Colpi da dilettanti, giovani bisonti pieni di energia o vecchi caproni carichi soltanto di risentimento. Pugni menati per fare male. Un giorno, a scuola, il rissoso ragazzaccio irlandese precipita in delirio. Il medico a cui viene portato diagnostica una lesione al cranio. Non deve combattere mai più. Fu così che Mickey Rourke appese al gancio i guantoni, salvandosi la vita e regalando al larghissimo pubblico qualche interpretazione discutibile ma anche più di un film memorabile. In ogni caso, divenendone un beniamino, che è ciò che conta.
I guantoni tornò a indossarli appunto per interpretare Homeboy, confuso film a cui teneva moltissimo. "Era in parte la storia della mia vita", ha dichiarato. "Johnny Walker, il protagonista che si fa uccidere sul ring, era un personaggio vero, un amico che mi manca molto." Per entrare nei suoi bisunti e laceri panni si preparò come sempre con meticoloso puntiglio realista da Actor’s Studio, rimettendosi a frequentare palestre e facendosi riempire di pugni da giovanissimi sparring partner chicanos. A rischio di farsi riaprire la ferita che porta nelle ossa della testa, di riportarne conseguenze fatali. Questione di carattere. Chiunque conosca l’ombroso Mickey Rourke sa perfettamente bene che per lui si possono usare moltissimi aggettivi, ma certamente mai l’espressione "accomodante". Caso mai sprezzante, arrogante, scostante, deviante, recalcitrante. In maniera programmatica, rigorosamente professionale, come richiedono i personaggi che interpreta sullo schermo e come esige quello privatissimo, reale, che gli morde nell’intimo. Finanziamenti ai terroristi dell’Ira, atteggiamenti oltraggiosi, motociclette ruggenti, sberleffi agli ammiratori, donne bellissime ma tutto sommato scarsamente considerate, ostentazioni di machismo nella cerchia dei fedeli amici uomini, tutti bardati di borchie metalliche e raccolti a fare chiasso con le loro spetezzanti motociclette attorno al "Mickey & Joey", il baretto analcolico che Rourke gestisce nel Grand Passage di Beverly Hills insieme al fratello che è convinto di avere salvato dal cancro con le sue preghiere. Non attori. Non certamente intellettuali. Parrucchieri e calzolai, caso mai, i suoi inseparabili Giuseppe e Charly, artigiani di successo ma tenuti alla larga dal bel mondo hollywoodiano, e persone senza arte né parte. La gente che gli piace frequentare è fatta così. Personaggi incazzati, risentiti, rabbiosi.
A questo sconcertante quadro generale ecco aggiungersi adesso il fulmine a ciel sereno della notizia rimbalzata in tutto il mondo dagli Stati Uniti. Non contento di avere già agitato le acque con l’annuncio che starebbe preparando una serie di libri fotografici, Mickey Rourke ha deciso di tornare alla boxe professionistica. Ha anche fissato la data. Il 23 maggio 1991, a Fort Lauderdale, Florida, non lontanissimo dalle sudate e ambigue palestre dove ha imparato a boxare da adolescente inquieto, incrocerà di nuovo i guantoni, rischiando ancora una volta di riaprire la lesione che porta in testa. Combatterà tra i supermedi (kg 76,203), una categoria in cui, secondo lui, al top ci sono almeno venti pugili che potrebbero tranquillamente prenderlo "a calci nel sedere". Tuttavia, in segreto, avrebbe già preso parte a un combattimento. Perché lo fa? Da quale tarlo esistenziale è morso? Che cosa gli impone di mescolare con tanta inquieta pervicacia professione e vita, arte e sport? Riconosce lui stesso che a 36 anni mirare a un qualsivoglia titolo rischia di apparire ridicolo, per non dire penoso. Che cosa vuole dimostrare a sé stesso e agli altri? Chissà.
Gli autentici moventi di un uomo sono imperscrutabili, come sa perfettamente chi esercita la professione di strizzacervelli. Mickey Rourke sarà dunque veramente diventato matto? La sua rabbia endemica si sarà definitivamente trasformata in una lucida follia? O c’è qualcos’altro? A parte i minacciosi tatuaggi che lo denunciano come "fuorilegge del Wyoming" e i chili di chincaglieria che indossa, molti dei suoi atteggiamenti esterni hanno subito un notevole cambiamento: abiti puliti, capelli in ordine, come un ragazzo innamorato. Persino lifting e dentiera, suggerisce qualche maligno. E si era capito che sotto questo suo rinnovamento bolliva qualcosa di nuovo. La sua rabbia funesta sembra quasi volersi rivolgere con intenti distruttivi contro lo stesso portatore. Ovvero contro Mickey Rourke in persona. Se non proprio quello della vita reale, almeno quello dello schermo. E prima di tutto contro la scadente epitome di yuppismo che l’implacabile industria dello spettacolo ha voluto fare di lui con l’esibizione di Nove settimane e mezzo. In quelle vesti da brava macchinetta suscitatrice di pulsioni erotiche per ragazzine pubescenti si è sempre detestato. Tutto il contrario di ciò che lui desidera essere e apparire: un duro, un villanzone, un metallaro, uno Hell’s Angel, un teppista, un terrorista. Dopo avere rivisto quel film, ha sprezzantemente dichiarato ripetute volte di non essere più riuscito a fare l’amore con una donna per quattro anni. E’ dunque forse attraverso questo trauma, continuando a utilizzare gli strumenti dello strizzacervelli, che si può spiegare la coazione a dedicarsi con tanta frenetica applicazione alle manopole e ai tubi di scappamento di ben sette Harley Davidson. Un florilegio di simboli fallici. Se Mickey Rourke lo psicoanalista lo avesse davvero, lo manderebbe in sollucchero. Ma lui non ce l’ha. Come terapia, ha dichiarato, preferisce appunto menare e prendere botte su un ring. E caso mai, cattolico rigido e pronto alla guerra di religione come tutti gli irlandesi, ricorrerebbe al confessore. Se non addirittura all’espiazione personale. Un rapporto diretto con l’Onnipotente, un paio di "calci nel sedere" celesti, così, sul ring dell’esame di coscienza, senza mediazioni terrene. Un po’ onnipotente, tutto sommato, si considera lui stesso. Mentre quel dannato showbiz ha rischiato di farlo diventare impotente.
Sono ormai diversi anni (e film) che Mickey Rourke si dedica con tenacia all’impresa di distruggere l’immagine di se stesso creata dai mass media, che lui considera artificiale. Si è fatto irridere e insultare nei panni di San Francesco. Si è fatto combinare con una maschera da mostro per recitare Johnny il bello. Ha ostentato una mascella storta in tutto Homeboy, facendosi pestare a morte. Nel recente rifacimento di Ore disperate, poi, si è fatto ridurre come una padella da caldarroste dal tiro incrociato di una schiera di poliziotti (tante proiezioni dell’odiata immagine del patrigno, insinuerebbe il nostro strizzacervelli) comandati da una donna malvagia come il fiele e determinata a distruggerlo (quella cattiva della mamma? un’altra delle tante perfide donne che la vita gli ha fatto incontrare?). Tutto ciò lo ha certamente mandato in estasi, gli ha fatto sentire sempre più a portata di mano la fatidica ora dell’espiazione definitiva, ma non è bastato. Ci vuole altro.
Sottopostosi a un simile trattamento di purificazione personale, comunque, al sesso con le donne se non altro ha finito con il tornare. L’ultima testimonianza, con scarsi margini di dubbio, viene dalle famose immagini "osée" che hanno scatenato le sue furie, facendogli querelare il mensile americano Playboy. Lui, nudo, che rotola, suda e ansima su un tappeto insieme (addosso, sopra, dietro, mani dappertutto, il resto apparentemente anche) alla bellissima Carrè Otis, attuale compagna della sua vita, ugualmente nuda. La splendida top model e brava attrice che, nata a San Francisco 22 anni fa da una famiglia della buona borghesia professionistica, secondo la stampa francese sarebbe nientemeno che "la donna più bella del mondo". L’abbiamo vista tutti, vestita e nuda: occhi di smeraldo, gambe vertiginose, bocca grande e sensuale, splendidi capelli ramati e, in aggiunta, un inquietante tatuaggio al polso sinistro. Com’è noto, Mickey Rourke del tatuaggio ha un autentico culto: non sa resistergli. Inoltre Carrè è accigliata come lui, in dura polemica con il bel mondo hollywoodiano a cui preferisce la "gente normale". Ama la solitudine. Sogna di chiudersi in un monastero tibetano a perfezionare la conoscenza di una religione che studia da qualche anno. Alle automobili preferisce le motociclette. Insomma, esattamente quello che ci voleva per lo scontroso gestore del "Mickey & Joe Bar": il grande amore che lo ha rigenerato.
La conoscenza, avvenuta e perfezionata sul set di Orchidea selvaggia - prima, convincente esibizione cinematografica di Carrè -, si è trasformata in vita comune, in dichiarati propositi di matrimonio. E sul medesimo set sarebbero state carpite con l’inganno dal regista Zalman King le immagini incriminate. Sarà senz’altro vero, però la sfrenata coppia sembra provarci autentico gusto. Che cosa ci sia tanto da arrabbiarsi, poi, non si capisce, considerato che nel finale del film si vedeva ben altro, e non solamente in statiche immagini fotografiche, ma in movimentatissimi fotogrammi con tanto di sonoro. Viene il grosso sospetto che sia tutta una finta, un’astuta menzogna sopraffinamente organizzata al fine di menare per il naso stampa e pubblico, critici e fan, tutti in blocco, ma soprattutto "lui". Come dice la saggezza popolare, can che abbaia non morde. Che, sotto sotto, nonostante l’amore per la bellissima Carrè Otis e nonostante la tenacia autodistruttiva ed espiatrice dei film precedenti, Mickey Rourke, nonché l’onnipotenza, non abbia ritrovato nemmeno la "potenza"? A volte, in date condizioni di difficoltà, "guardarsi" all’opera può essere d’aiuto. Nella tessitura di Orchidea selvaggia, la difficoltà del rapporto fisico a due e il voyeurismo come cura (persino con specchi) avevano un peso fondamentale. "E’ difficile toccarmi", dice anodinamente Wheeler - come lo spettatore certamente ricorda - scostandosi bruscamente dopo che lei ha cercato di mettergli una mano non si sa dove, essendo di spalle, sulle scalcinate scale dell’Old Hotel. E: "Non ce la fai proprio, eh?" esplode Emily più avanti, obbligandolo praticamente a lanciarsi nella pirotecnica catarsi finale di sesso a go-go e dimostrando che la cura del voyeurismo fa benissimo.
Quindi i due potrebbero avere riprovato la terapia con le foto del supposto scandalo. E forse anche con altre, visto che Mickey si è sottoposto a un ennesimo avatar, facendosi fotografo, fotografando personalmente la sua compagna e diffondendo il servizio alla stampa. Immagini di una sensualità conturbante oppure sottilmente erotiche, che non aspirano allo scandalo ("Parlano da sole", ha modestamente dichiarato lui), ma da cui discende inevitabile il corollario che nel rapporto di coppia Rourke/Otis la contemplazione dell’immagine (delle loro stesse persone) deve avere una valenza fondamentale. (E arrivati a questo punto lo strizzacervelli di turno sarebbe costretto a svolgere un’approfondita analisi sull’importanza, nel buddismo tibetano, della contemplazione di se stessi in rapporto con l’universo. Vestiti e/o spogliati, naturalmente.)
In ogni caso si tratta di un caso ingarbugliato. Voyeuristica fornicazione o smaccata menzogna che sia, tutto questo nudismo fotografico di coppia rappresenta un grosso passo indietro rispetto all’agognata espiazione cui aspira Mickey Rourke. Di qui, forse (insisterebbe lo strizzacervelli), la pulsione che lo spinge a cercare la punizione facendosi ridurre a una bistecca umana su un ring. Subito, prima che sia troppo tardi. Ad aspettare il Giudizio Eterno può infatti capitare di cambiare idea. Come del resto l’accigliato Mickey ha già fatto (e senza tanti ripensamenti) dopo aver annunciato qualche mese fa che si sarebbe esibito sul ring a contorno dell’incontro Tyson - Stewart. In realtà non si è mai fatto vedere. La sospirata espiazione sembra però finalmente prevista per la prossima puntata del tormentone. Anche se viene fortissimo il sospetto che ancora una volta il bravo Mickey non ce la racconti giusta. Che sul ring a farsi rompere la testa non avremo mai il piacere o l’angoscia di vederlo. Eh, diamine. Come ovunque e più che mai, anche negli Stati Uniti la pubblicità è l’anima del commercio. Parlate, parlate, qualcosa resterà. E, guarda caso, la MGM-Pathé ha annunciato proprio in questi giorni l’uscita di Harley Davidson and the Marlboro Man, film umoristico d’azione ambientato in una California dell’immediato futuro, dove Rourke comparirà nelle vesti di un vagabondo filosofeggiante al fianco di un ex cowboy da rodeo, impersonato da Don Johnson. Collante dell’azione è il toccante e svagato legame maschile tra i due, che si alleano per rapinare una banca intenzionata a far chiudere per debiti l’amatissimo "Rock ’n Roll Bar & Grill" dove passano il tempo a contarsela soave. Niente vera e propria boxe, però si annunciano grandi pestaggi, sparatorie, scene d’azione da mozzare il fiato ambientate nel famoso Cimitero di Aeroplani di Tucson, Arizona, un’immensa spianata dove le autorità militari americane hanno ammassato migliaia di velivoli da combattimento usati dalla Seconda guerra mondiale fino al Vietnam. Poi: una rapina con tanto di autoblindo, uno spericolato inseguimento motociclistico, armi montate su elicotteri per sparare dentro un grattacielo, una caduta libera di una sessantina di metri compiuta dai due protagonisti per scappare da un albergo saltando a precipizio in una piscina. E chi più ne ha più ne metta. Il tutto, naturalmente, eseguito per prudenza da una schiera di stunt men di alta specializzazione. Perché, diciamo la verità, rilasciare annunci e dichiarazioni è una cosa, ma rischiare sul serio di rompersi o di farsi rompere la testa non è mai piaciuto a nessuno. Sia come sia, il 23 maggio 1991, giorno della verità oltre che della nuova ascesa di Mickey Rourke al ring, è qui.
(Vanity Fair Itala, primavera 1991)
Lo psicologo farebbe subito ricorso alle affilate armi del mestiere, mettendosi a frugare alacremente con la sua metaforica paletta nel groviglio dei traumi di gioventù. Nato a Schenectady, stato di New York, alla fine del ’54, verso i sette anni Mickey Rourke è stato preso di peso dalla mamma, portato a Miami e, a tradimento, sottratto per sempre a una figura paterna per altro piuttosto evanescente e non aliena dall’alcol. Facendo onore alle rissose origini irlandesi, lo stesso figlio, scoperto il sopruso, avrebbe promesso al padre che non avrebbe mai studiato, né fatto il bravo ragazzo, né niente di buono. Sarebbe diventato perfido. Il più cattivo di tutti. Una peste. Detto fatto. A Liberty City, bassofondo di Miami, mamma Rourke si risposa con un poliziotto che tratta il figliastro più con il manganello che con le morbide armi della psicologia. L’adolescente Mickey si rifugia sulla strada, in un ambiente a dir poco non olezzante di fioretti e di buone intenzioni. Il suo stesso nomignolo lo denuncia spregiativamente come un irlandese. Per difendersi dalle carinerie dei propri simili, obbedendo una volta tanto alle ingiunzioni del patrigno, prende a frequentare i miasmi sudorali e morali di certe palestre di boxe, fa una decina di combattimenti, si becca un paio di commozioni cerebrali. Un giorno, a scuola, soffre un collasso psicofisico dal quale si deduce che rischia una lesione al cervello e che dunque non potrà boxare mai più. Ma l’arte di tirare pugni, fisici e metaforici, ha evidentemente fatto presa. A diciotto anni la sorella gli presta un po’ di soldi perché possa trasferirsi a New York, dove aspira a diventare attore e dove nel frattempo è costretto a fare di tutto, secondo la più diffusa iconografia dello show business. Posteggiatore, lavapiatti, massaggiatore, buttafuori, pulitore di piscine, gelataio, caldarrostaio, cantastorie in Central Park, aizzatore di cani da combattimento e chissà che cosa ancora. Alcuni giorni sopravvive soltanto a forza di patatine e cioccolatini sgraffignati. In certe topaie dove si rifugia a dormire difende la propria vita e forse anche la virile virtù brandendo una mazza da golf, simbolo fallico dei più spudorati. Chi, sottoposto a un simile martellamento di traumi, non reagirebbe con la voglia di mostrare il culo al mondo, di circondarsi di gente incazzata, di finanziare il terrorismo irlandese e di mettere in atto una ridda di altre consimili antisociali manifestazioni da camusiano uomo in rivolta?
È sicuramente così, ma si può azzardare l’ipotesi che non basti. La vera chiave di tutto potrebbe risiedere in qualcosa di più sottile: un ferreo per quanto stravolto concetto della professionalità, come proverebbe quanto di lui, con autentica ammirazione, ha scritto Charles Bukowski in Hollywood, Hollywood!, romanzo-cronaca della perigliosa realizzazione del film Barfly. Una strenua volontà di adeguare costantemente il proprio personaggio a ciò che gli adepti - cronisti e spettatori, devoti al culto e detrattori della persona - si aspettano da lui. Che fare, altrimenti? Discettare sull’idealismo filosofico tedesco? Travestirsi da esegeta di William Blake? Chi tra i suoi muscolari seguaci in cuoio e borchie gli darebbe più retta? Il parrucchiere Giuseppe? Il calzolaio Charly? I suoi amici più cari sono fatti così, e lui così li vuole. Lo ha dichiarato un’infinità di volte: per lui qualsiasi calzolaio è più interessante di un attore. E chissà che non sia vero. Cerchiamo in ogni caso di analizzare bene se per caso sotto il vestito non bolla qualcosa di nuovo. Sotto quello, per esempio, che Mickey Rourke indossa verso la metà di Ore disperate, uno scicchissimo smoking di Armani. Così tappezzato Mickey compare in cima a una scala, lampeggiando un sorriso ammazzafemmine e mitragliando battute sul concetto di uomo di mondo tali da far accapponare la pelle. La critica inorridisce. Una scena da calendario per parrucchieri Anni Cinquanta. Ma Mickey Rourke lo sapeva già. C’è da giurare che per lui la scena è magnifica. Che l’abbia pretesa lui stesso, imponendola a Michael Cimino, non tanto per rifare Bogey (la versione originale, del ’55, ha sprezzantemente dichiarato di non averla mai vista) quanto per prodursi ancora una volta in un clamoroso gesto di rivolta. Lui stesso che, con un’esibizione da grande animale di spettacolo, prende in giro e demolisce un’immagine pubblica della propria persona che detesta, come per altro detesta quasi tutto tranne le sue sette Harley Davidson (più le otto del fratello Joey) e l’irredentismo irlandese. Uno dei primi tasselli del catartico rinnovamento che un giorno senza dubbio dovrà venire a fare di lui un essere completamente diverso. Le ragazzine hanno perso la testa vedendolo comportare (secondo lui e non soltanto lui) da fesso in Nove settimane e mezzo? Un film (sempre secondo lui e non soltanto lui) melenso e fasullo. Un brutto spot pubblicitario dopo il quale non è più riuscito a toccare una femmina per quattro anni o giù di lì. Se da cavalcare non ci fosse stata la 134 Springer con il suo manubrione, i suoi fanali e le sue cromature... Ecco invece che la catarsi prende avvio: adesso le medesime fanciulline saranno costrette a vederlo autosmitizzarsi in quel modo. Scendendo le scale come un modello di pettinatura scolpita con il rasoio. Ah! C’è da giurare che sotto il vestito in questo caso bolla Giuseppe Franco, il parrucchiere dei divi di Hollywood, grande amico se non addirittura - lascia intendere qualcuno - persuasore occulto del tenebroso Mickey, al quale farebbe di tutto per trasmettere il proprio livore nei confronti di un mondo che lo accetta con albagia, soltanto in qualità di subalterno. Di parrucchiere, appunto.
Sembra infatti fuori di dubbio che Mickey Rourke ci tenga sempre meno a sembrare il bellone pasticciatamente raffinato e confusamente perverso in cui lo aveva trasformato certa rosea stampa dopo Nove settimane e mezzo. Ma con ogni probabilità non vuole più nemmeno apparire il pessimo ragazzaccio che è sempre stato. La peste più universalmente riconosciuta degli Stati Uniti e forse di tutto il mondo, Irlanda compresa. Quante volte glielo avrà cantato, mulinandogli il manganello sotto il naso, il poliziotto di Liberty City impostogli dalla madre come patrigno? "Sei una peste, Mickey." Quante volte glielo avranno ripetuto la stessa madre, gli insegnanti, gli allenatori di boxe, i compagni di scuola e di palestra, che pure non erano certamente degli stinchi di santo? "Sei tremendo". E lui lì, costretto a comportarsi in quel modo per onorare l’antica promessa fatta al papà. Non combinerò mai niente di buono. Finirò male. Così imparano.
Invece niente. Per quanto abbia continuato a fare il superduro, il villanzone, il metallaro, il motociclista, il teppista, il terrorista, Mickey Rourke a finire male non ce l’ha fatta. Per niente. Lo sgridano, ma poi lo coprono con palate di soldi. Lo censurano, ma poi vengono dai quattro capi del mondo per intervistarlo e fotografarlo. Vestiti di Versace e di Armani. Le Harley Davidson più belle. Le chick più figose. Mentre lui ha quasi sicuramente fame e sete di una cosa sola: arde di espiare, di ricevere la giusta remunerazione. Da bravo irlandese, infatti, Mickey è un buon cattolico che, pur essendo uno spregevole peccatore, crede nei miracoli. Non sono forse state le sue preghiere a salvare il fratello Joey dal cancro? Perciò si è fatto irridere e vilipendere negli stracci di San Francesco, mettendosi addirittura a correre nudo sulla neve. Ma è servito a poco. E ancora a meno è servito farsi rompere le costole da ragazzotti messicani e portoricani per riprendere a boxare in Homeboy. E farsi combinare con una maschera da mostro per recitare la parte di Johnny il bello. No. Ci vuole ben altro. E questo "ben altro" lui si è messo a cercarlo con impegno. Forse ha cominciato a trovarlo.
Se per Mickey la vita è azzardo, si proceda azzardando. Torniamo al rifacimento di Ore disperate. La prima del film deve essere stata un trionfo. Non di critica, naturalmente. Lui non se lo sarebbe mai aspettato e comunque se ne sarebbe ufficialmente seccato, insieme agli amici parrucchieri e calzolai. No. Un trionfo tutto suo. Personale. Privatissimo. Ficcato negli abissi più profondi dell’intimo, ma di una forza tale da fargli rizzare i capelli sulla nuca nonostante la gommina, da fargli tremolare il tatuaggio con il simbolo dell’IRA, da fargli lacrimare sotto le lenti nere gli occhi malati di congiuntivite. Quando, in mezzo al tremebondo pigolare e dibattersi della famiglia sequestrata dallo psicopatico aspirante scrittore, ha rivisto sullo schermo la ragazzina sghignazzargli in faccia invece di cadergli ai piedi terrorizzata oppure in deliquio erotico, c’è da giurare che Mickey abbia sentito un soprassalto di emozione. Una ragazzina che finalmente gli rideva in faccia. Il climax stava arrivando. Quando poi, nelle ultime scene, si è rivisto disprezzato, trattato come un cencio, sforacchiato, ridotto a una padella per caldarroste dal fuoco incrociato della polizia, c’è da pensare che non abbia retto più. Ecco, finalmente, la catarsi, la vendetta nei confronti di chi, nonostante il polverone dei rimproveri e delle censure, non è mai riuscito a rimunerarlo con giusta severità per le sue colpe di ragazzaccio pestifero. Eccolo lì, lui, Mickey Rourke, l’oltraggioso sex guy, il peccatore inveterato che le esigenze di copione hanno appena costretto a fornicare sveltamente in piedi davanti agli occhi di un innocente, ridotto a un colabrodo dalle armi di un’intera squadra di poliziotti, tutti identici al padrigno di Liberty City, uno per uno. Duri, violenti, cattivi, vendicatori. E comandati da una donna più cattiva ancora. Sì, c’è proprio da credere che al solo pensiero Mickey Rourke si sia abbandonato sulla poltroncina della sala da proiezione in un parossismo di pacificazione. Una donna. Che invece di cadere ai suoi piedi gemendo e dibattendosi in preda a turpi calori lo puniva con la più inflessibile delle severità, lo faceva mitragliare, frantumare, spiaccicare, distruggere, annientare. Che trionfo. Che pace. Dalle ceneri del massacro avrebbe finalmente preso avvio il rinnovamento totale. Le vie del Signore, poi, sono infinite. Avrebbero potuto portare chissà dove. A un taglio di capelli con shampoo e frizione, a una dentiera candida, a farsi stiracchiare la pelle della faccia in un lifting. A quel punto ogni cosa era possibile. E soprattutto, come aveva ricordato il vecchio "compagno di sbronze" Bukowski, c’era sempre la professionalità. Che ancora una volta avrebbe consentito al "perfido" Mickey di presentarsi in una veste del tutto nuova, sorprendente, incazzata.
(Myster, primavera 1991)
2
Un finale disperato. I colpi del formidabile boxeur di colore si abbattono come martellate sulla testa del bianco suonato, che potrebbe tranquillamente lasciarsi andare, rinunciare, cedere. Le forze in campo sono chiaramente troppo impari. E comunque è tutto previsto, combinato. Invece no. In un incomprensibile sforzo sovrumano, il povero disgraziato resiste. Finge di non sentire le botte, sembra persino che rida, che irrida l’avversario con la bocca contorta da troppi anni di percosse fisiche e morali. La realtà è che, mentre mulina a sua volta i pugni alla cieca, davanti agli occhi sanguinanti gli balena indelebile l’immagine di una giovane che gira su una merry-go-round, una giostra da luna park per bambini. La donna che ama. Un viso puro, simbolo di quella vita innocente, pulita, da casa, che si è lasciato sfuggire tra le dita insieme alla gioventù. La pioggia sferza impietosamente il ring allestito all’aperto sulla spiaggia di Coney Island. Il pubblico lancia grida beluine. Esige il pollice verso, il sacrificio. Un’ultima serie di colpi furibondi, il vecchio brocco si abbatte sul ring invaso dall’acqua. Non si alzerà mai più. Il medico lo aveva avvertito: con il suo cranio lesionato non avrebbe dovuto continuare a combattere. Muore così, irriso dal pubblico, infradiciato dalla pioggia, portandosi via negli occhi l’immagine della merry-go-round che gira, gira, gira, interminabilmente. La giostra della vita. Il film è Homeboy, il protagonista dell’amara vicenda è Mickey Rourke. E in tutto ciò vi è qualcosa di simbolico, di autobiografico. Come un giro di giostra, il cerchio si chiude.
In un certo senso, infatti, per Mickey Rourke le cose sono andate davvero così, tanto tempo fa. Un’infanzia e un’adolescenza poco felici. Dopo la separazione dall’evanescente figura del padre, la madre lo aveva portato a vivere a Liberty City, un quartiere periferico di Miami, Florida. Ambiente a rischio. Il patrigno, un poliziotto irascibile e manesco, pronto all’uso del manganello piuttosto che delle melliflue arti della persuasione, aveva voluto che imparasse a difendere l’adolescente virtù e la pelle in quelle mean street, che si iscrivesse a una sudicia palestra di boxe. Il ragazzo era ribelle, ingovernabile. Il suo sangue irlandese faceva da ribollente sottofondo ai traumi dell’infanzia. Menare le mani gli piaceva. Una lunga serie di incontri, una brillante prospettiva. Poi il crack. Come gli piaceva darle, così di fronte ai pugni degli avversari non aveva l’abitudine di ritirarsi. Colpi da dilettanti, giovani bisonti pieni di energia o vecchi caproni carichi soltanto di risentimento. Pugni menati per fare male. Un giorno, a scuola, il rissoso ragazzaccio irlandese precipita in delirio. Il medico a cui viene portato diagnostica una lesione al cranio. Non deve combattere mai più. Fu così che Mickey Rourke appese al gancio i guantoni, salvandosi la vita e regalando al larghissimo pubblico qualche interpretazione discutibile ma anche più di un film memorabile. In ogni caso, divenendone un beniamino, che è ciò che conta.
I guantoni tornò a indossarli appunto per interpretare Homeboy, confuso film a cui teneva moltissimo. "Era in parte la storia della mia vita", ha dichiarato. "Johnny Walker, il protagonista che si fa uccidere sul ring, era un personaggio vero, un amico che mi manca molto." Per entrare nei suoi bisunti e laceri panni si preparò come sempre con meticoloso puntiglio realista da Actor’s Studio, rimettendosi a frequentare palestre e facendosi riempire di pugni da giovanissimi sparring partner chicanos. A rischio di farsi riaprire la ferita che porta nelle ossa della testa, di riportarne conseguenze fatali. Questione di carattere. Chiunque conosca l’ombroso Mickey Rourke sa perfettamente bene che per lui si possono usare moltissimi aggettivi, ma certamente mai l’espressione "accomodante". Caso mai sprezzante, arrogante, scostante, deviante, recalcitrante. In maniera programmatica, rigorosamente professionale, come richiedono i personaggi che interpreta sullo schermo e come esige quello privatissimo, reale, che gli morde nell’intimo. Finanziamenti ai terroristi dell’Ira, atteggiamenti oltraggiosi, motociclette ruggenti, sberleffi agli ammiratori, donne bellissime ma tutto sommato scarsamente considerate, ostentazioni di machismo nella cerchia dei fedeli amici uomini, tutti bardati di borchie metalliche e raccolti a fare chiasso con le loro spetezzanti motociclette attorno al "Mickey & Joey", il baretto analcolico che Rourke gestisce nel Grand Passage di Beverly Hills insieme al fratello che è convinto di avere salvato dal cancro con le sue preghiere. Non attori. Non certamente intellettuali. Parrucchieri e calzolai, caso mai, i suoi inseparabili Giuseppe e Charly, artigiani di successo ma tenuti alla larga dal bel mondo hollywoodiano, e persone senza arte né parte. La gente che gli piace frequentare è fatta così. Personaggi incazzati, risentiti, rabbiosi.
A questo sconcertante quadro generale ecco aggiungersi adesso il fulmine a ciel sereno della notizia rimbalzata in tutto il mondo dagli Stati Uniti. Non contento di avere già agitato le acque con l’annuncio che starebbe preparando una serie di libri fotografici, Mickey Rourke ha deciso di tornare alla boxe professionistica. Ha anche fissato la data. Il 23 maggio 1991, a Fort Lauderdale, Florida, non lontanissimo dalle sudate e ambigue palestre dove ha imparato a boxare da adolescente inquieto, incrocerà di nuovo i guantoni, rischiando ancora una volta di riaprire la lesione che porta in testa. Combatterà tra i supermedi (kg 76,203), una categoria in cui, secondo lui, al top ci sono almeno venti pugili che potrebbero tranquillamente prenderlo "a calci nel sedere". Tuttavia, in segreto, avrebbe già preso parte a un combattimento. Perché lo fa? Da quale tarlo esistenziale è morso? Che cosa gli impone di mescolare con tanta inquieta pervicacia professione e vita, arte e sport? Riconosce lui stesso che a 36 anni mirare a un qualsivoglia titolo rischia di apparire ridicolo, per non dire penoso. Che cosa vuole dimostrare a sé stesso e agli altri? Chissà.
Gli autentici moventi di un uomo sono imperscrutabili, come sa perfettamente chi esercita la professione di strizzacervelli. Mickey Rourke sarà dunque veramente diventato matto? La sua rabbia endemica si sarà definitivamente trasformata in una lucida follia? O c’è qualcos’altro? A parte i minacciosi tatuaggi che lo denunciano come "fuorilegge del Wyoming" e i chili di chincaglieria che indossa, molti dei suoi atteggiamenti esterni hanno subito un notevole cambiamento: abiti puliti, capelli in ordine, come un ragazzo innamorato. Persino lifting e dentiera, suggerisce qualche maligno. E si era capito che sotto questo suo rinnovamento bolliva qualcosa di nuovo. La sua rabbia funesta sembra quasi volersi rivolgere con intenti distruttivi contro lo stesso portatore. Ovvero contro Mickey Rourke in persona. Se non proprio quello della vita reale, almeno quello dello schermo. E prima di tutto contro la scadente epitome di yuppismo che l’implacabile industria dello spettacolo ha voluto fare di lui con l’esibizione di Nove settimane e mezzo. In quelle vesti da brava macchinetta suscitatrice di pulsioni erotiche per ragazzine pubescenti si è sempre detestato. Tutto il contrario di ciò che lui desidera essere e apparire: un duro, un villanzone, un metallaro, uno Hell’s Angel, un teppista, un terrorista. Dopo avere rivisto quel film, ha sprezzantemente dichiarato ripetute volte di non essere più riuscito a fare l’amore con una donna per quattro anni. E’ dunque forse attraverso questo trauma, continuando a utilizzare gli strumenti dello strizzacervelli, che si può spiegare la coazione a dedicarsi con tanta frenetica applicazione alle manopole e ai tubi di scappamento di ben sette Harley Davidson. Un florilegio di simboli fallici. Se Mickey Rourke lo psicoanalista lo avesse davvero, lo manderebbe in sollucchero. Ma lui non ce l’ha. Come terapia, ha dichiarato, preferisce appunto menare e prendere botte su un ring. E caso mai, cattolico rigido e pronto alla guerra di religione come tutti gli irlandesi, ricorrerebbe al confessore. Se non addirittura all’espiazione personale. Un rapporto diretto con l’Onnipotente, un paio di "calci nel sedere" celesti, così, sul ring dell’esame di coscienza, senza mediazioni terrene. Un po’ onnipotente, tutto sommato, si considera lui stesso. Mentre quel dannato showbiz ha rischiato di farlo diventare impotente.
Sono ormai diversi anni (e film) che Mickey Rourke si dedica con tenacia all’impresa di distruggere l’immagine di se stesso creata dai mass media, che lui considera artificiale. Si è fatto irridere e insultare nei panni di San Francesco. Si è fatto combinare con una maschera da mostro per recitare Johnny il bello. Ha ostentato una mascella storta in tutto Homeboy, facendosi pestare a morte. Nel recente rifacimento di Ore disperate, poi, si è fatto ridurre come una padella da caldarroste dal tiro incrociato di una schiera di poliziotti (tante proiezioni dell’odiata immagine del patrigno, insinuerebbe il nostro strizzacervelli) comandati da una donna malvagia come il fiele e determinata a distruggerlo (quella cattiva della mamma? un’altra delle tante perfide donne che la vita gli ha fatto incontrare?). Tutto ciò lo ha certamente mandato in estasi, gli ha fatto sentire sempre più a portata di mano la fatidica ora dell’espiazione definitiva, ma non è bastato. Ci vuole altro.
Sottopostosi a un simile trattamento di purificazione personale, comunque, al sesso con le donne se non altro ha finito con il tornare. L’ultima testimonianza, con scarsi margini di dubbio, viene dalle famose immagini "osée" che hanno scatenato le sue furie, facendogli querelare il mensile americano Playboy. Lui, nudo, che rotola, suda e ansima su un tappeto insieme (addosso, sopra, dietro, mani dappertutto, il resto apparentemente anche) alla bellissima Carrè Otis, attuale compagna della sua vita, ugualmente nuda. La splendida top model e brava attrice che, nata a San Francisco 22 anni fa da una famiglia della buona borghesia professionistica, secondo la stampa francese sarebbe nientemeno che "la donna più bella del mondo". L’abbiamo vista tutti, vestita e nuda: occhi di smeraldo, gambe vertiginose, bocca grande e sensuale, splendidi capelli ramati e, in aggiunta, un inquietante tatuaggio al polso sinistro. Com’è noto, Mickey Rourke del tatuaggio ha un autentico culto: non sa resistergli. Inoltre Carrè è accigliata come lui, in dura polemica con il bel mondo hollywoodiano a cui preferisce la "gente normale". Ama la solitudine. Sogna di chiudersi in un monastero tibetano a perfezionare la conoscenza di una religione che studia da qualche anno. Alle automobili preferisce le motociclette. Insomma, esattamente quello che ci voleva per lo scontroso gestore del "Mickey & Joe Bar": il grande amore che lo ha rigenerato.
La conoscenza, avvenuta e perfezionata sul set di Orchidea selvaggia - prima, convincente esibizione cinematografica di Carrè -, si è trasformata in vita comune, in dichiarati propositi di matrimonio. E sul medesimo set sarebbero state carpite con l’inganno dal regista Zalman King le immagini incriminate. Sarà senz’altro vero, però la sfrenata coppia sembra provarci autentico gusto. Che cosa ci sia tanto da arrabbiarsi, poi, non si capisce, considerato che nel finale del film si vedeva ben altro, e non solamente in statiche immagini fotografiche, ma in movimentatissimi fotogrammi con tanto di sonoro. Viene il grosso sospetto che sia tutta una finta, un’astuta menzogna sopraffinamente organizzata al fine di menare per il naso stampa e pubblico, critici e fan, tutti in blocco, ma soprattutto "lui". Come dice la saggezza popolare, can che abbaia non morde. Che, sotto sotto, nonostante l’amore per la bellissima Carrè Otis e nonostante la tenacia autodistruttiva ed espiatrice dei film precedenti, Mickey Rourke, nonché l’onnipotenza, non abbia ritrovato nemmeno la "potenza"? A volte, in date condizioni di difficoltà, "guardarsi" all’opera può essere d’aiuto. Nella tessitura di Orchidea selvaggia, la difficoltà del rapporto fisico a due e il voyeurismo come cura (persino con specchi) avevano un peso fondamentale. "E’ difficile toccarmi", dice anodinamente Wheeler - come lo spettatore certamente ricorda - scostandosi bruscamente dopo che lei ha cercato di mettergli una mano non si sa dove, essendo di spalle, sulle scalcinate scale dell’Old Hotel. E: "Non ce la fai proprio, eh?" esplode Emily più avanti, obbligandolo praticamente a lanciarsi nella pirotecnica catarsi finale di sesso a go-go e dimostrando che la cura del voyeurismo fa benissimo.
Quindi i due potrebbero avere riprovato la terapia con le foto del supposto scandalo. E forse anche con altre, visto che Mickey si è sottoposto a un ennesimo avatar, facendosi fotografo, fotografando personalmente la sua compagna e diffondendo il servizio alla stampa. Immagini di una sensualità conturbante oppure sottilmente erotiche, che non aspirano allo scandalo ("Parlano da sole", ha modestamente dichiarato lui), ma da cui discende inevitabile il corollario che nel rapporto di coppia Rourke/Otis la contemplazione dell’immagine (delle loro stesse persone) deve avere una valenza fondamentale. (E arrivati a questo punto lo strizzacervelli di turno sarebbe costretto a svolgere un’approfondita analisi sull’importanza, nel buddismo tibetano, della contemplazione di se stessi in rapporto con l’universo. Vestiti e/o spogliati, naturalmente.)
In ogni caso si tratta di un caso ingarbugliato. Voyeuristica fornicazione o smaccata menzogna che sia, tutto questo nudismo fotografico di coppia rappresenta un grosso passo indietro rispetto all’agognata espiazione cui aspira Mickey Rourke. Di qui, forse (insisterebbe lo strizzacervelli), la pulsione che lo spinge a cercare la punizione facendosi ridurre a una bistecca umana su un ring. Subito, prima che sia troppo tardi. Ad aspettare il Giudizio Eterno può infatti capitare di cambiare idea. Come del resto l’accigliato Mickey ha già fatto (e senza tanti ripensamenti) dopo aver annunciato qualche mese fa che si sarebbe esibito sul ring a contorno dell’incontro Tyson - Stewart. In realtà non si è mai fatto vedere. La sospirata espiazione sembra però finalmente prevista per la prossima puntata del tormentone. Anche se viene fortissimo il sospetto che ancora una volta il bravo Mickey non ce la racconti giusta. Che sul ring a farsi rompere la testa non avremo mai il piacere o l’angoscia di vederlo. Eh, diamine. Come ovunque e più che mai, anche negli Stati Uniti la pubblicità è l’anima del commercio. Parlate, parlate, qualcosa resterà. E, guarda caso, la MGM-Pathé ha annunciato proprio in questi giorni l’uscita di Harley Davidson and the Marlboro Man, film umoristico d’azione ambientato in una California dell’immediato futuro, dove Rourke comparirà nelle vesti di un vagabondo filosofeggiante al fianco di un ex cowboy da rodeo, impersonato da Don Johnson. Collante dell’azione è il toccante e svagato legame maschile tra i due, che si alleano per rapinare una banca intenzionata a far chiudere per debiti l’amatissimo "Rock ’n Roll Bar & Grill" dove passano il tempo a contarsela soave. Niente vera e propria boxe, però si annunciano grandi pestaggi, sparatorie, scene d’azione da mozzare il fiato ambientate nel famoso Cimitero di Aeroplani di Tucson, Arizona, un’immensa spianata dove le autorità militari americane hanno ammassato migliaia di velivoli da combattimento usati dalla Seconda guerra mondiale fino al Vietnam. Poi: una rapina con tanto di autoblindo, uno spericolato inseguimento motociclistico, armi montate su elicotteri per sparare dentro un grattacielo, una caduta libera di una sessantina di metri compiuta dai due protagonisti per scappare da un albergo saltando a precipizio in una piscina. E chi più ne ha più ne metta. Il tutto, naturalmente, eseguito per prudenza da una schiera di stunt men di alta specializzazione. Perché, diciamo la verità, rilasciare annunci e dichiarazioni è una cosa, ma rischiare sul serio di rompersi o di farsi rompere la testa non è mai piaciuto a nessuno. Sia come sia, il 23 maggio 1991, giorno della verità oltre che della nuova ascesa di Mickey Rourke al ring, è qui.
(Vanity Fair Itala, primavera 1991)