RACCONTA
Ömer Kavur
(regista)
Intervista, Il giornale, 1987
(regista)
Intervista, Il giornale, 1987
© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)
Il produttore cinematografico Keskiner, di Istanbul, trovandosi con immensi uffici a quattro passi dalla celebre Taksim, in vetta alla collina di Galata, qualche anno fa pensò che tutto sommato forse sarebbe stato più redditizio ridurre gli spazi, convertendo il rimanente in un circolo, o locale pubblico. Detto fatto, riunito un gruppetto di uomini di cinema, fondò il “Sinema Sevenler Dernegi”, ovvero “Circolo degli Amatori del Cinema”. È l’attuale Bar Arif, in Siraselviler, dove di sera, per l’aperitivo e oltre, si incontra il fiore del mondo cinematografico turco, da Sherif Gören, regista materiale di Yol (seguendo le minuziose direttive impartite dal carcere dall’avventuroso e sfortunato Yilmaz Güney), a Tarik Akan, baffuto protagonista del medesimo film, grande frantumatore di cuori, a Sener Sen, prima star del film comico locale.
Oppure li si trova più tardi, disinvolti e cordiali, nel florilegio di localini che si stende praticamente senza soluzione di continuità sul Bosforo, tra Ortaköy e Rumeli Hisar, ovvero tra il “vecchio” immenso ponte Atatürk e il nuovo, ancora in costruzione, suggestivo doppio semicerchio baluginante di luci, sospeso nella dolce notte istanbulina e affettuosamente definito “il collier” dalla disponibilissima e gaia intellighentsia locale.
Non vi si trova mai, invece, Ömer Kavur, astro nascente della cinematografia turca, 42 anni, regista di nove film, tra i quali il penultimo, Anayurt Oteli, ovvero Hotel Madrepatria: privatamente visionato a Cannes da Guglielmo Biraghi, è stato immediatamente invitato in concorso al festival di Venezia.
Serissimo, professionale, intelligente, viso un po’ imbronciato da bambino precoce, lo si incontra in una traversa della Istiklal Cad., popolare arteria che sale quasi dal Corno d’Oro fino alla sopra citata Taksim. Siamo nel cuore delle case di produzione, e appunto al tavolino di comando della sua Alfa Film (oltre che regista è anche produttore) lo raggiungiamo dopo che ha appena finito di dare gli ultimi giri di manovella al suo ultimo film. Affabile, cortese, chic, di pochissime parole.
Viene dalla gavetta, oppure ha studiato cinema?
“Rispetto ai miei colleghi posso dire di essere stato fortunato. Infatti ho studiato per due anni a Parigi, appena finite le scuole superiori, presso quello che allora si chiamava Conservatoire Indipendent du Cinéma Français. Poi, a Nizza, ho lavorato come assistente di scena con Bryan Forbes, che stava girando La folle de Chaillot.”
E adesso, finalmente, la selezione per Venezia. Ci racconti la storia di questo Hotel Madrepatria.
“È un film psicologico, la storia del portiere di un albergo, in una città di provincia della Turchia. Un giorno in questo albergo arriva una bella donna, di cui lui si innamora e che, alla partenza, annuncia il proprio ritorno nel giro di una settimana. Il portiere l’aspetta e a poco a poco l’attesa provoca in lui una grossa serie di cambiamenti psicologici. La sua vita sembrava in qualche modo cambiata, invece la donna non torna mai più e il grigiore di sempre riprende il sopravvento, portandolo al suicidio. Una sorta di psicodramma, in un certo senso.”
Il film non è ancora stato distribuito, uscirà soltanto in ottobre, dopo Venezia. Pensa che la partecipazione al Festival avrà una sua risonanza, qui in Turchia? “Certamente. Il Festival di Venezia, oltre a essere importante in sé, qui da noi è molto conosciuto e quindi costituirà una grossa promozione per il mio film. Tutti i festival europei importanti, come appunto Venezia, o Cannes, o Berlino, sono molto seguiti da noi.”
Lo scrittore Yaşar Kemal, uno degli attuali grandi nomi della cultura turca, ci ha dichiarato che la cinematografia di questo paese praticamente non esiste. È d’accordo?
“Niente affatto. Il cinema turco ha senza dubbio grossi problemi, ma esiste eccome, e comunque in Occidente è molto più conosciuto della letteratura del nostro paese.”
E quali ne sarebbero i nomi più noti?
“Ovviamente Yilmaz Güney, i cui ultimi film, però, in Turchia vengono attribuiti ai loro registi materiali, ovvero a Sherif Gören (Angoscia, del ’74, e Yol, Palma d’oro a Cannes nell’82) e Zeki Ökten (Il gregge). Poi c’è Erdem Kiral, regista di Hakkâri, (presentato a Berlino qualche anno fa e brevissimamente distribuito anche in Italia) e di Lo specchio (Venezia, 1985). Poi, ancora, Ali Özgentürk, anche lui presente a Venezia, l’anno scorso, con il film Il guardiano. Quindi il già citato Zeki Ökten, che è stato a Berlino nell’84 con il film Il lottatore. E Sherif Gören, anche lui già citato. Apparteniamo tutti alla stessa generazione, attorno ai quarant’anni.”
Dunque nei festival internazionali vi è una costante presenza del cinema turco. Ömer Kavur vi arriva per la prima volta? “No, sono già stato una volta in Italia, nell’80, a Milano, dove ho vinto il primo premio a un festival del cinema per bambini intitolato The Child in our time.”
Quali sono i problemi di questa cinematografia, che da quanto detto apparirebbe vivissima?
“Problemi di natura essenzialmente economica. Prima di tutto perché può contare unicamente sul mercato interno, e i budget dei film vengono stabiliti di conseguenza.”
Per una media?
“Dai cinquanta ai centocinquanta milioni di lire italiane. Budget irrisori. Inoltre non abbiamo veri produttori. I nostri sono soltanto intermediari, i quali non rischiano, non investono denaro loro, ma soltanto gli anticipi che ricevono dal nostro macchinoso sistema di distribuzione, diviso in cinque regioni: Istanbul, Ankara, il Sud-est, il Mar Nero e l’Egeo. Perciò il cinema turco non diventa un’industria, ma rimane a livello artigianale. Di conseguenza manchiamo di un’infrastruttura, non disponiamo di attrezzature tecniche adeguate né di buoni laboratori. Inoltre non abbiamo circuiti alternativi, sale d’essai, cineteche, con una loro distribuzione parallela. E anche le sale normali si sono ridotte in dodici anni da 1800 a 400/500. Per la somma di tutti questi motivi almeno il novanta per cento dei nostri film è di livello culturalmente molto basso. Comunque riusciamo a sopravvivere e, pur non essendo particolarmente ottimista per il futuro, credo che rispetto al passato siamo riusciti a produrre un numero maggiore di film di qualità, anche se purtroppo destinati a un pubblico marginale.”
Ma quanti film produce annualmente la vostra cinematografia?
“Da due o tre anni abbiamo cominciato a fare film per i videotape, girati elettronicamente e non su pellicola. Perciò il livello quantitativo della nostra produzione si è molto alzato. Accanto a centocinquanta film su pellicola, per il circuito normale, ne vengono realizzati altri duecentocinquanta esclusivamente per il videotape, che costituisce un grossissimo mercato, molto ricco, e che attualmente finanzia dal sessanta al settanta per cento di ogni film.”
E la televisione nazionale, con i suoi due canali?
“Per ora produce soltanto serial. Ma nel giro di un paio di anni dovrà cominciare a finanziare anche qualche film normale.”
Chi ha visto Anayurt Oteli parla di una grande interpretazione di Macit Köper, che tuttavia è un uomo di teatro, alla sua prima prova come protagonista di un film. Usate spesso attori di teatro? E come sono in genere gli attori turchi?
“Come norma usiamo attori specificamente cinematografici, il cui livello tuttavia non è un granché. Il nostro sistema chiuso impone loro di fare anche dieci film all’anno. Come ci si può aspettare delle grandi prestazioni? E lo stesso vale per noi registi.”
La dolce sera istanbulina incalza, come anche i gentili ed efficienti collaboratori di Ömer Kavur. Arrivederci a Venezia e buona fortuna.
Oppure li si trova più tardi, disinvolti e cordiali, nel florilegio di localini che si stende praticamente senza soluzione di continuità sul Bosforo, tra Ortaköy e Rumeli Hisar, ovvero tra il “vecchio” immenso ponte Atatürk e il nuovo, ancora in costruzione, suggestivo doppio semicerchio baluginante di luci, sospeso nella dolce notte istanbulina e affettuosamente definito “il collier” dalla disponibilissima e gaia intellighentsia locale.
Non vi si trova mai, invece, Ömer Kavur, astro nascente della cinematografia turca, 42 anni, regista di nove film, tra i quali il penultimo, Anayurt Oteli, ovvero Hotel Madrepatria: privatamente visionato a Cannes da Guglielmo Biraghi, è stato immediatamente invitato in concorso al festival di Venezia.
Serissimo, professionale, intelligente, viso un po’ imbronciato da bambino precoce, lo si incontra in una traversa della Istiklal Cad., popolare arteria che sale quasi dal Corno d’Oro fino alla sopra citata Taksim. Siamo nel cuore delle case di produzione, e appunto al tavolino di comando della sua Alfa Film (oltre che regista è anche produttore) lo raggiungiamo dopo che ha appena finito di dare gli ultimi giri di manovella al suo ultimo film. Affabile, cortese, chic, di pochissime parole.
Viene dalla gavetta, oppure ha studiato cinema?
“Rispetto ai miei colleghi posso dire di essere stato fortunato. Infatti ho studiato per due anni a Parigi, appena finite le scuole superiori, presso quello che allora si chiamava Conservatoire Indipendent du Cinéma Français. Poi, a Nizza, ho lavorato come assistente di scena con Bryan Forbes, che stava girando La folle de Chaillot.”
E adesso, finalmente, la selezione per Venezia. Ci racconti la storia di questo Hotel Madrepatria.
“È un film psicologico, la storia del portiere di un albergo, in una città di provincia della Turchia. Un giorno in questo albergo arriva una bella donna, di cui lui si innamora e che, alla partenza, annuncia il proprio ritorno nel giro di una settimana. Il portiere l’aspetta e a poco a poco l’attesa provoca in lui una grossa serie di cambiamenti psicologici. La sua vita sembrava in qualche modo cambiata, invece la donna non torna mai più e il grigiore di sempre riprende il sopravvento, portandolo al suicidio. Una sorta di psicodramma, in un certo senso.”
Il film non è ancora stato distribuito, uscirà soltanto in ottobre, dopo Venezia. Pensa che la partecipazione al Festival avrà una sua risonanza, qui in Turchia? “Certamente. Il Festival di Venezia, oltre a essere importante in sé, qui da noi è molto conosciuto e quindi costituirà una grossa promozione per il mio film. Tutti i festival europei importanti, come appunto Venezia, o Cannes, o Berlino, sono molto seguiti da noi.”
Lo scrittore Yaşar Kemal, uno degli attuali grandi nomi della cultura turca, ci ha dichiarato che la cinematografia di questo paese praticamente non esiste. È d’accordo?
“Niente affatto. Il cinema turco ha senza dubbio grossi problemi, ma esiste eccome, e comunque in Occidente è molto più conosciuto della letteratura del nostro paese.”
E quali ne sarebbero i nomi più noti?
“Ovviamente Yilmaz Güney, i cui ultimi film, però, in Turchia vengono attribuiti ai loro registi materiali, ovvero a Sherif Gören (Angoscia, del ’74, e Yol, Palma d’oro a Cannes nell’82) e Zeki Ökten (Il gregge). Poi c’è Erdem Kiral, regista di Hakkâri, (presentato a Berlino qualche anno fa e brevissimamente distribuito anche in Italia) e di Lo specchio (Venezia, 1985). Poi, ancora, Ali Özgentürk, anche lui presente a Venezia, l’anno scorso, con il film Il guardiano. Quindi il già citato Zeki Ökten, che è stato a Berlino nell’84 con il film Il lottatore. E Sherif Gören, anche lui già citato. Apparteniamo tutti alla stessa generazione, attorno ai quarant’anni.”
Dunque nei festival internazionali vi è una costante presenza del cinema turco. Ömer Kavur vi arriva per la prima volta? “No, sono già stato una volta in Italia, nell’80, a Milano, dove ho vinto il primo premio a un festival del cinema per bambini intitolato The Child in our time.”
Quali sono i problemi di questa cinematografia, che da quanto detto apparirebbe vivissima?
“Problemi di natura essenzialmente economica. Prima di tutto perché può contare unicamente sul mercato interno, e i budget dei film vengono stabiliti di conseguenza.”
Per una media?
“Dai cinquanta ai centocinquanta milioni di lire italiane. Budget irrisori. Inoltre non abbiamo veri produttori. I nostri sono soltanto intermediari, i quali non rischiano, non investono denaro loro, ma soltanto gli anticipi che ricevono dal nostro macchinoso sistema di distribuzione, diviso in cinque regioni: Istanbul, Ankara, il Sud-est, il Mar Nero e l’Egeo. Perciò il cinema turco non diventa un’industria, ma rimane a livello artigianale. Di conseguenza manchiamo di un’infrastruttura, non disponiamo di attrezzature tecniche adeguate né di buoni laboratori. Inoltre non abbiamo circuiti alternativi, sale d’essai, cineteche, con una loro distribuzione parallela. E anche le sale normali si sono ridotte in dodici anni da 1800 a 400/500. Per la somma di tutti questi motivi almeno il novanta per cento dei nostri film è di livello culturalmente molto basso. Comunque riusciamo a sopravvivere e, pur non essendo particolarmente ottimista per il futuro, credo che rispetto al passato siamo riusciti a produrre un numero maggiore di film di qualità, anche se purtroppo destinati a un pubblico marginale.”
Ma quanti film produce annualmente la vostra cinematografia?
“Da due o tre anni abbiamo cominciato a fare film per i videotape, girati elettronicamente e non su pellicola. Perciò il livello quantitativo della nostra produzione si è molto alzato. Accanto a centocinquanta film su pellicola, per il circuito normale, ne vengono realizzati altri duecentocinquanta esclusivamente per il videotape, che costituisce un grossissimo mercato, molto ricco, e che attualmente finanzia dal sessanta al settanta per cento di ogni film.”
E la televisione nazionale, con i suoi due canali?
“Per ora produce soltanto serial. Ma nel giro di un paio di anni dovrà cominciare a finanziare anche qualche film normale.”
Chi ha visto Anayurt Oteli parla di una grande interpretazione di Macit Köper, che tuttavia è un uomo di teatro, alla sua prima prova come protagonista di un film. Usate spesso attori di teatro? E come sono in genere gli attori turchi?
“Come norma usiamo attori specificamente cinematografici, il cui livello tuttavia non è un granché. Il nostro sistema chiuso impone loro di fare anche dieci film all’anno. Come ci si può aspettare delle grandi prestazioni? E lo stesso vale per noi registi.”
La dolce sera istanbulina incalza, come anche i gentili ed efficienti collaboratori di Ömer Kavur. Arrivederci a Venezia e buona fortuna.