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Lo scrittore Mario Biondi visto da Mannelli
Lo scrittore Mario Biondi
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Lo scrittore Mario Biondi

RACCONTA

Mel Gibson
Mel Gibson

Ritratto (1991)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Elisir di luna? Perle di eufrasia? Infuso di malva? Concentrato di camomilla? Distillato di fiordaliso? Oppure un più corrivo eyeliner? Un comune collirio da drugstore? Di che cosa si servirà mai questo signore per esaltare il proprio sguardo, per conferigli la lunarità traslucida e opalescente con cui ammalia dallo schermo il pubblico sospeso e attonito? Uno sguardo da proteggere a tutti i costi, per il bene dell’universo dei cinefili come per la pace finanziaria di un attore ormai abituato a pretendere ingaggi intorno ai dieci-dodici miliardi per film, beato lui. Signori: Mel Gibson. Al tempo stesso "l’uomo più sexy del mondo", come lo ha definito in una celebre cover-story del 1984 la rivista People, (sempre meglio, ha commentato filosoficamente lui, che essere chiamato il peggiore bastardo del mondo) e il caro ragazzo che tutte-tutti i componenti del pubblico bramerebbero avere come fidanzato-confidente-amico. "Il più tenero degli uomini adulti e insieme il più maturo tra i bambini", come lo ha definito il famoso talent scout cinematografico McKussen. "Un uomo bellissimo", come lo ha civettuolamente apostrofato Franco Zeffirelli in una pubblica circostanza, facendolo arrossire - hanno puntigliosamente riferito i cronisti - fino alla radice dei capelli.

Quanto accattivante pudore per un incallito personaggio dello show biz il cui fondoschiena risulta essere persino più celebre di quello del Richard Gere di American gigolo. Tanto celebre (secondo accurati calcoli fatti da una fonte insospettabile: la sua cara amica e partner Goldie Hawn) da essere citato almeno trenta volta nel film Due nel mirino, dove peraltro Mel subisce ben quaranta tentativi di omicidio. Un sedere che secondo qualche brillante statistico sarebbe appena appena un po’ meno dinoccolato di quello di Gary Cooper (del quale Mel Gibson avrebbe tuttavia la stessa carica di simpatia). Altri paragoni: bravo come Cary Grant (anche se non sa incedere "aleggiando" sul terreno come faceva lui); il Marlon Brando degli Anni ’90. E via comparando. A pretendere di più ci sarebbe veramente da essere considerati ingordi. Ma a onor del vero il simpatico e bravo Mel non pretende niente. Baciato dal successo multimiliardario, intasca, ringrazia e corre a rifugiarsi in casa - nella grande fattoria che ha in Australia -, tra le braccia della riservatissima (e, pare, un po’ ossuta, o per lo meno mascelluta) moglie Robyn, oltre che circondato dai sei bimbetti che con la sua pia assistenza ha saputo produrre a raffica in poco più di dieci anni di matrimonio: evidentemente non si è Arma letale per niente. E’ per lei e per i bambini che il suo spirito puritano gli vieta di indulgere nelle scene scabrose. Se lo ha fatto con Michelle Pfeiffer in Tequila Sunrise e con Patsy Kensitt in Arma letale 2, è stato perché così c’era scritto nel copione e nel contratto, e lui è una persona corretta. Altrimenti, se può, le sequenze sexy le fa cancellare. E in ogni caso, assicura Patsy, anche se sugli schermi la scena è apparsa discretamente verosimile, mentre la giravano lei e lui non hanno fatto altro che ridere. Beati loro.

Riparato in Australia, per disintossicarsi dalle indigestioni di veleni hollywoodiani Mel imperversa per spazi sconfinati con una moto da cross, facendo il cowboy e allevando vitelli nonché tori da monta. E su questo specifico punto Freud non può che essere in agguato. Per fortuna Zeffirelli, dopo averlo fatto arrossire e prima di affidargli la parte dell’enigmatico analista di teschi denominato Amleto, lo ha anche costretto a imparare ad andare a cavallo. Così adesso negli spazi sconfinati è più in ordine. Bisogna dire la verità: in groppa a una moto da cross un cowboy rischia di risultare per lo meno poco credibile. Si torni all’Australia. Mel Gibson, nato nel 1956 a Peekskill, stato di New York, Usa, ci arriva alle soglie della pubertà, dodicenne, portatovi da un papà piuttosto irritabile e indubitabilmente deciso, che intende sottrarre i figli maggiori al Vietnam e tutta quanta la famiglia (sue dichiarazioni) alla violenza della società nordamericana. Di origini irlandesi, papà Gibson era ed è tuttora un cattolico implacabile. Un coltissimo ex ferroviere autodidatta, arrivato a scrivere testi di diritto canonico che lo pongono in fiera polemica con la chiesa di Roma, da lui considerata la sentina di ogni corrutela. Severamente contrario a qualsiasi controllo delle nascite e a tutte le forme di aborto (come del resto il celebre figlio attore), dove non è andato a trovare i mezzi per tirare grandi gli undici (leggasi undici) rampolli? C’è da trasecolare: li ha trovati scrivendo racconti e sceneggiati per la tv, che già non è male per un ex ferroviere. Ma soprattutto li ha messi in cascina vincendo quiz televisivi, forse in pervicace applicazione del motto "aiutati che Dio t’aiuta". Cresciuto a una simile scuola e spedito ogni domenica in chiesa a fare il chierichetto, il ragazzino Mel era sicuro che ad aspettarlo ci fosse l’inferno. Timore per fortuna largamente smentito dai fatti.

A Sydney il ragazzo, schernito con il nomignolo di Yank in quanto americano, segue la normale trafila del divo annunciato. Studiacchia (però nel migliore liceo cattolico del luogo), leggiucchia il suo canonico Shakespeare - compreso Amleto -, è indeciso se fare il cuoco o il giornalista, guadagna qualche dollaro australiano lavorando come imbottigliatore di succhi di frutta, esce con gli amici e impara a bere la birra. Se per caso va al cinema, non pensa neanche lontanamente che il suo futuro possa risiedere lì. Macché. Finché un giorno, uscendo da scuola, rischia di essere investito da un’automobile. Al che, appoggiata una mano sul cofano, compie un’acrobatica ed elegante capriola, che non soltanto gli salva la vita ma gli guadagna anche un caloroso applauso da parte degli astanti. Ironizzando su stesso, il giovane Mel comincia a vedersi vagamente nella parte dello stuntman. E adesso il lettore consideri come sono singolari i casi della vita di una star predestinata. Una sorella (non lo aveva già fatto anche quella di Mickey Rourke?) lo iscrive di soppiatto a una scuola di recitazione, e specificamente al National Institute of Dramatic Art di Sydney. È fatta. La sfolgorante carriera di Mel Gibson, da Mad Max ad Amleto e American Air attraverso Arma letale è troppo nota perché sia il caso di dedicarle ulteriore inchiostro.

È comunque proprio stato vedendolo strabuzzare due occhi da spiritato nei panni di Max il Matto e battersi leoninamente a karate in Arma letale che Franco Zeffirelli ha deciso che lui e soltanto lui, così bello, così virile e al tempo stesso così forsennato poteva essere il suo Amleto. Voleva un’interpretazione dell’irresoluto principe di Danimarca talmente nuova da poter valere per tutti gli anni ’90 e oltre, un personaggio di fronte al quale il pubblico adulto non venisse preso da brividi di raccapriccio nel ricordo di Lawrence Olivier, ma in cui al tempo stesso i giovani potessero in qualche modo proiettare se stessi e le proprie incertezze. Per uno spettacolo che, senza tradire l’augusto testo shakespeariano, ne fornisse tuttavia una lettura totalmente rinnovata, radicata nella cupa leggenda precristiana di quelle terre nordiche e negli antichi testi anonimi a cui aveva fatto ricorso lo stesso Shakespeare. All’annuncio il mondo della critica cinematografica è stato pervaso da uno sconcertato subbuglio. "Come farà?" si sono chiesti in molti. "Non ce la farà e basta", è stato sentenziato da diversi soloni.

Parole, parole, parole. A chi gli chiedeva da che cosa fosse composto il genio, Thomas Alva Edison, inventore della lampadina, rispondeva senza scomporsi: "Dal 99 per cento di traspirazione e dall’1 per cento di ispirazione". Considerazione che chi scrive qui si è sentito fare da Premi Nobel della letteratura e da grandi autori di superbestseller. E con la stessa icastica frase, indizio sicuro di incontestabile serietà, è solito rispondere Mel Gibson a chi gli chiede di che cosa sia fatta la sua recitazione. Dunque, conclusa l’impresa e visto lo spettacolo, che cosa si può dire? Ce l’ha fatta o no? L’ardua sentenza va lasciata ai posteri. E soprattutto a quei giovani cui è stata destinata la sua interpretazione del principe dark. Quello che si deve senz’altro dire è però che, ricordando educatamente al mondo che di ruoli impegnativi o comunque vastamente differenziati ne aveva già affrontati diversi - da Gli anni spezzati giù giù fino a Il fiume dell’ira -, Mel ha tirato fuori tutta la grinta di cui dispone, affrontando il ruolo con la consueta caparbia professionalità.

Ha tralasciato di fumare per curare la voce. Si è messo a studiare dizione per eliminare la benché minima ombra di accento australiano o yankee (anche se di tanta abnegazione il pubblico italiano, per altro incantato dallo splendido doppiaggio di Giancarlo Giannini, non avrà modo di godere). Si è lasciato crescere barba e baffi, venendo preso da convulsi attacchi di Tricotitillomania, ovvero di irrefrenabile coazione a strapazzarsi i peli (quelli appunto del viso). Si è ritrovato con una tintura di capelli (immediatamente modificata) che lo faceva apparire più simile a un caco che a un truce cavaliere medievale rimuginante complessi di Edipo e foschi umori di vendetta. E ha fornito la sua prestazione, mettendosi a sguazzare nel marcio che William Shakespeare asseriva esserci nel regno di Danimarca. Finché, in un lampo finale di illuminazione, si è ricordato della propria personalissima arma letale, caricata con raggi di luna e con frammenti di opale: gli occhi. Mentre sta duellando con quel mezzo metallaro di Laerte (che per altro ci ha già rimesso il padre Polonio e la sorella Ofelia), mettendo a profitto tutta l’esperienza fatta nei panni di Martin Briggs e conseguentemente trasformando un rustico duello da Carmi norreni in una ginnica rissa da era postatomica, eccolo preso da un raptus irresistibile. Mentre mulina lo spadone e caprioleggia sulla pedana appositamente allestita nel castello di Elsinore, ecco che di punto in bianco si rivolge alla fedifraga mamma Gertrude (una bravissima Glenn Close), fulminandola dal sotto in su con un occhiolino degno del più spiritato Mad Max, come un qualsiasi ragazzaccio metropolitano. I giovani, è garantito, ne saranno entusiasti. Subito dopo, a norma di testo, la discutibile madre non può in alcun modo esimersi dall’esalare l’ultimo respiro in un subisso di gasp e sob, seguita dalla vera e propria ecatombe che consente al saggio Orazio di concludere: "Il resto è silenzio". E con ciò, gente, l’opera è completa.

(Myster, primavera 1991)
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