Scrive di: Isaac B. Singer

1. I cento anni di I. B. Singer (2004)
2. Profilo. Introduzione a “Zlateh la capra” (1981)
3. Recensioni (2): “Shosha” (1978)
4. Recensione: “Quando Shlemiel andò a Varsavia” (1979)
5. Recensione: “Schiuma” (1993)
6. Recensione: “Racconti” (Meridiani Mondadori) e “Ombre sull’Hudson” (1998)
7. Recensione: “Ombre sull’Hudson” (2000)
8. Recensione “Nuove storie dalla corte di mio padre” (2001)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

I cento anni di I. B. Singer (2004)

«Sono troppo vecchio per tutta questa baldoria», dice Matusalemme nell'apologo di Isaac B. Singer intitolato appunto “La morte di Matusalemme”. Nella sua lunghissima vita ha visto tutto, ha sofferto e ha goduto, ha rispettato la Legge e l'ha infranta. Ha ceduto alla lussuria, ha peccato, fino all'ultimo. Con mogli, con concubine, con schiave. Forse persino con una figlia degli ”angeli caduti“. Ma ora, nella sua estrema vecchiezza, il suo corpo e la sua mente sono stanchi. Non ha più paura della tomba. È pronto ad abbracciare l'Angelo della morte. Del resto: «Che cos'è la morte?» chiedono infinite volte, a se stessi o all'interlocutore, gli inquieti personaggi del mondo meraviglioso e magico, affascinante e tragico che si riflette nell'opera dell'ultimo grande raccontatore di storie della letteratura yiddish.

«La morte è il Messia. Ecco la verità.» Così risponde per tutti Hertz Yanovar nell'ultima riga di La famiglia Moskat: su Varsavia in fiamme sta per abbattersi la distruzione nazista. La morte. Quella morte che, in condizioni simili, non può essere altro che il Messia. Una morte vista come momento di catarsi definitiva, come conquista della pace per una folla di anime che su questa terra, tra noi mortali, la pace sembrano destinate a non trovarla mai. «Date agli ebrei una rivoluzione. Ne pretenderanno un'altra. Date loro un Messia. Ne chiederanno un altro», scrive lo stesso Singer (suscitando tra l'altro furie incomprensibili, facendolo addirittura definire ”antisemita“). Date loro, vien fatto cupamente di aggiungere, una morte. Nel loro perenne sradicamento, nella loro eterna inquietudine, ne chiederanno un'altra.

In questi tredici anni trascorsi dalla sua morte, Isaac Bashevis Singer ne avrà certamente già chiesto chissà quante altre. Avrà chiesto di continuare a rimanere fra noi, tramutato in dybbuk, sotto le spoglie di folletto, di spiritello, di lantuch, di poltergeist, di capra parlante, di cavallo saggio, di carpa irriverente. E di sicuro rimarrà sempre tra noi nelle infinite trasfigurazioni che di se stesso ci ha dato nella sua opera. Nelle vesti di Asa Heshel Katzenellenbogen, protagonista della citata Famiglia Moskat. Oppure in quelle di Aaron Greidinger, protagonista di Shosha. Magari in quelle di Herman Broder, protagonista di Nemici. Una storia d'amore, o del suo omologo Hertz Grein, protagonista dell'impareggiabile Ombre sull'Hudson, sommo capolavoro. E naturalmente in quelle del protagonista — bambino, fanciullo, giovane uomo e poi uomo maturo — delle storie contenute in Alla corte di mio padre (le prime e le Nuove) e in Un giorno di felicità, oltre che nella sua autobiografia, Ricerca e perdizione: la ricerca di Dio e dell'amore, ma soprattutto di se stesso, e la perdizione in questo mondo contemporaneo, uno dei tanti mondi possibili.

Quanti saranno mai i mondi? si chiede ansiosamente, sfogliando proibitissimi libri di ”scienza“, prima della Grande Guerra, il piccolo figlio del rabbino di Via Krochmalna, a Varsavia — capelli rossi, occhi azzurri, gabbanello da chassid — che compare in decine di storie del Nostro. In ciascuno di questi mondi I. B. Singer ha sicuramente cercato o cercherà nel tempo il proprio posto. Qui nel nostro rimarrà a osservare con il suo sguardo carico di ironia — un po' velato dall'inguaribile febbre da fieno — lo stralunarsi degli ismi, lo scavalcarsi e svanire delle mode. Quelle mode che hanno sempre teso a trascurarlo, a chiuderlo in un angolo, a non lasciargli spazio. Persino a calunniarlo.

Uno scrittore all'antica, prevedibile, capace al più di scrivere qualche romanzo tradizionale, qualche racconto folcloristico. Anche un po' osceno, non di rado. Così veniva generalmente considerato. In Italia, nel 1978, scoperto da quasi un quindicennio, non si trovava nemmeno più chi volesse tradurlo (o, meglio, si fingeva di non trovarlo). Lo fece imponendosi a forza chi scrive questo pezzo, in condizioni tremende di angustia, persino di ostilità. Dovette tra l'altro farlo non sul libro definitivo ma su bozze ”uncorrected“, piene di refusi fuorvianti. E poi, all'assegnazione del Premio Nobel nel novembre di quell'anno — evento del tutto imprevedibile —, i fogli vennero sfilati altrettanto a forza dal carrello della macchina per scrivere del traduttore, a uno a uno, per essere spediti pari pari in tipografia, senza un'ombra di revisione, pieni di tutto il cascame che per forza c'è nelle primissime versioni di qualsiasi testo. Il romanzo doveva uscire SUBITO, non c'era tempo di rivedere niente e ancora meno di aspettare il libro definitivo dall'America. Vita dura del traduttore, soprattutto se è stato lui a voler tradurre a tutti i costi. Colpa sua...

Persino davanti all'assegnazione del Nobel, comunque, dal coro dei presunti sapienti si levarono voci a discettare, a dubitare. Non sulla traduzione, no, no: sull'arte di Singer in sé e sul suo probabile non esser degno del premio. E lui, semplicità fatta monumento alla scrittura, replicò con disarmante modestia spiegando che si trattava di un Premio Nobel assegnato non già alla sua umile arte di raccontatore di storie ma a una comunità tristemente destinata a perdere la propria identità, la voce, la lingua. La comunità di lingua yiddish, dispersa come cenere.

Nel cuore di quella comunità, nel villaggio di Radzymin, in Polonia, da una ”casta figlia di ebrei“ di nome Betsabea e da un rabbino chassidico, nacque 100 anni fa, il 14 luglio 1904, Isaac Bashevis Singer, fratello minore di Israel Joshua, anch'egli grande scrittore, sempre guardato dal cadetto come insuperabile maestro. Abbeverato al pozzo senza fondo di storie popolari raccontate da indimenticabili narratori orali di ”cucina“, di ”cortile“ o di ”casa di studio“ — zia Yentl, Levi Yitzchock, Zalman il vetraio, Meyer l'eunuco —, depositari dell'immenso accumulo di invenzioni del folclore ebraico e yiddish, già a sedici anni il ragazzo Isaac, proclamatosi ”libero pensatore“, affronta l'arte dello scrivere nella lingua formale degli eruditi, l'ebraico. Ma la voce del suo popolo gli è irresistibile. Nel suo sangue canta il retaggio di un lungo albero genealogico di rabbini chassidici. Deve indagare il loro mondo mitico e meraviglioso, raccontare storie popolari. Dunque deve usare la lingua del popolo, il ”giudeo“, lo yiddish.

Trentunenne, nel 1935, in tale lingua pubblica a Varsavia il primo romanzo: Satana a Goray. Non lo vedrà mai in quella veste: è già riparato nel Nuovo Mondo, in America, in cerca di se stesso e della ”perdizione“. Per anni campa in maniera grama, collaborando al quotidiano di Manhattan in lingua yiddish — il Jewish Daily Forward —, redigendo rubriche di consigli pratici, tenendo conferenze, scrivendo per conto terzi. È una vicenda che descrive troppe volte nei propri racconti perché non sia vera: insomma, facendo il ghost writer per altri. Attività che i presunti sapienti dalla penna stitica non gli hanno mai perdonato, quasi che scrivere per guadagnarsi da vivere fosse un'offesa alla decenza. Ancora adesso, tanti anni dopo la sua morte e nel centenario della nascita, c'è chi non trova di meglio che spargere veleno su di lui. Gente, tra l'altro, mai sentita nominare.

Tutto questo e ben di più ci ricorda la bella biografia di Florence Noiville, studiosa che ama Singer e lo presenta per ciò che è stato, facendo fondamentalmente ricorso ai suoi testi autobiografici, che come è noto, a leggerli bene, rappresentano circa il cento per cento della sua opera.

Importante, tra l'altro, il documentato approfondimento della questione della doppia redazione dei testi di Singer, una vera e propria doppia identità: quella in yiddish e quella in americano. Due versioni ”originali“ a pieno titolo, insomma, come le definiva lui stesso, che curava di persona con estenuante puntiglio quella americana (anche se non di rado con l'ausilio di traduttori ameryiddish che sapevano l'americano meno di lui), e su quest'ultima esigeva che fossero basate le traduzioni nelle altre lingue, vietando addirittura che si usasse la versione yiddish, spesso del tutto diversa in quanto buttata giù per le esigenze della pubblicazione a puntate sul Forward o poi tagliuzzata o adeguata a tali esigenze.

Faticando in quel modo per campare, Singer accumulava ed elaborava il meraviglioso materiale dei suoi grandi romanzi: La fortezza, La famiglia Moskat, Il mago di Lublino, Ombre sull'Hudson. E per la straordinaria fioritura dei suoi circa (o oltre? quanti saranno?) duecento racconti, creando un mondo variopinto, «meraviglioso, terribile e splendido» — come ha scritto Henry Miller —, che quello reale e limitato degli uomini non potrà dimenticare mai, a dispetto delle inappellabili decisioni dell'Angelo della Morte.

Introduzione a “Zlateh la capra” (Bompiani, 1981)

Isaac Bashevis Singer è uno dei massimi scrittori viventi: nel 1978 ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Fino a quel momento, in Italia, era poco noto, anche se già quattordici dei suoi libri erano stati pubblicati nella nostra lingua, e il romanzo La famiglia Moskat nel 1968 aveva ricevuto il Premio Bancarella. Singer è nato il 14 luglio 1904 a Radzymin, in Polonia, figlio di un rabbino chassidico. I rabbini sono i sacerdoti della religione ebraica, ma a essi spettano anche compiti che potremmo definire da "giudice conciliatore": a loro, infatti, ricorrono gli ebrei in caso di controversie, oltre che per avere chiarimenti circa il modo di comportarsi per non infrangere la Legge ebraica (la Torah). Il chassidismo, in particolare, è un movimento mistico popolare sorto tra gli ebrei dell’Europa orientale nel corso del 1700: un movimento che tendeva a riportare la religione ebraica alle sue origini semplici e spirituali, in contrapposizione al formalismo e all’ipocrisia delle gerarchie. I rabbini chassidici, quindi, erano capi spirituali ai quali facevano riferimento i credenti più semplici e fervidi, che li chiamavano anche "rabbini miracolosi". Di tutto quanto detto sopra si trova ampissima traccia nell’opera di Singer, che è impregnata di elementi autobiografici (si vedano in particolare, per quanto concerne l’attività del padre rabbino — sacerdote e giudice —, i volumi Alla corte di mio padre e Un giorno di felicità ).

Isaac Singer (che successivamente aggiungerà al proprio nome anche Bashevis, dalla madre Betsabea), viene avviato regolarmente a frequentare le scuole ortodosse ebraiche, ma manifesta precocemente il suo spirito laico e, ancora giovanissimo, si dichiara "libero pensatore", sotto l’influsso degli ambienti intellettuali ebraici di Varsavia (dove la sua famiglia si era stabilita nel 1908, andando ad abitare in quella Via Krochmalna che compare in moltissimi suoi romanzi e racconti), e in particolare del fratello maggiore, Israel Joshua, anche lui successivamente diventato grandissimo scrittore e sempre indicato da Singer come suo maestro. Anche di tutto ciò si trova ampia traccia nell’opera singeriana: a puro titolo esemplificativo indichiamo ancora i romanzi La famiglia Moskat e Shosha. A sedici anni già Singer affronta la letteratura, scrivendo in ebraico, la lingua "colta" degli ebrei letterati e studiosi, che tuttavia non era più usata comunemente (e ormai anche molto poco conosciuta) dagli ebrei dell’Europa orientale, i quali parlavano e scrivevano (come avviene ancora oggi) in yiddish (ovvero: giudeo), un dialetto medio-alto tedesco scritto con i caratteri ebraici, che queste popolazioni avevano portato con sé dalla Germania, da cui erano state scacciate nel medioevo trovando rifugio in Polonia, Lituania, Ungheria, Romania e Russia. Il desiderio (certamente di origine chassidica) del giovane Singer di essere vicino al suo popolo, e quindi di scrivere romanzi e racconti popolari, che potessero essere letti e capiti da tutti gli ebrei dell’Europa orientale, gli fa prendere la fondamentale decisione di scrivere le sue opere appunto in yiddish. Comincia quindi a scrivere racconti per i giornali yiddish di Varsavia, e un romanzo, Satana a Goray, che appare però nel 1935, dopo che l’autore come moltissimi ebrei polacchi terrorizzati dall’imminente invasione nazista — ha trovato rifugio negli Stati Uniti, salvandosi così quasi certamente dalla morte in un campo di sterminio.

Quindi nel 1935 Singer è negli Stati Uniti, paese nel quale da allora vive, avendone assunto nel 1943 la cittadinanza. Per anni la sua vita è molto grama: si guadagna da vivere collaborando al “Jewish Daily Forward” (o Forvertz, ovvero “Avanti ebraico”), quotidiano degli ebrei di New York. È anche probabile che abbia scritto libri "su commissione", cioè commissionatigli a pagamento da ricchi personaggi del mondo ebraico newyorkese, che ritenevano di avere una storia da raccontare, ma non erano capaci di scriverla. Libri usciti naturalmente con il nome di queste persone, e di cui quindi è assai poco probabile che la storia della letteratura si debba occupare. La cosa non deve scandalizzare, poiché è pratica molto diffusa in America presso i giovani scrittori che devono "tirare a campare" in attesa del successo (e anche da noi non è del tutto assente): gli scrittori che operano così, in Italia vengono chiamati "negri" e in America "ghost writer", cioè "scrittori fantasma", in quanto il loro nome non compare sul libro stampato. Anche di questa attività si trova ampia traccia nella sua opera: si vedano per esempio i libri di racconti Passioni e Vecchio amore.

Il problema fondamentale che in quegli anni Singer si trova ad affrontare è ancora una volta quello della lingua: a quel punto i lettori a cui si poteva rivolgere in yiddish erano una quantità estremamente limitata, lo leggevano soltanto gli ebrei emigrati in America dall’Europa centro-orientale, e anche loro lentamente lo stavano dimenticando. Risulta così comprensibile il silenzio ufficiale di Singer come scrittore dalla data del suo arrivo in America ( 1935) sino all’uscita di quello che probabilmente è il suo capolavoro, La famiglia Moskat ( 1950). Il grande scrittore ha aspettato in tutti quegli anni di diventare abbastanza padrone della lingua americana, in modo da poter fare uscire i suoi libri direttamente in americano, lingua dalla quale possono essere tradotti in tutte le altre. Il suo procedimento è il seguente: scrive le sue opere (o canovacci delle stesse) in yiddish e poi le traduce in americano facendosi aiutare da scrittori o traduttori che conoscono perfettamente l’americano e sono anche in grado di capire lo yiddish. È famoso il caso del racconto Gimpel l’idiota, che è stati tradotto in americano da Saul Bellow, scrittore destinato a sua volta a ricevere il Premio Nobel (prima ancora di Singer). Spesso (ma non sempre) i racconti o gli abbozzi di romanzi scritti in yiddish vengono pubblicati in quella lingua e grafia sul Jewish Daily Forward, per po apparire successivamente su altre riviste o direttamente in libro in lingua americana. Da questa lingua Singer viene poi tradotto nelle altre, e anche in italiano. Secondo alcuni critici, si tratterebbe di un procedimento discutibile, poiché le sue opere andrebbero tradotte direttamente dallo yiddish, ma la polemica appare poco fondata, prima di tutto perché Singer riconosce come "secondi originali" le opere pubblicate in americano sotto la sua supervisione, e soprattutto perché in molti casi l’originale yiddish non esiste, se non tutt’al più a livello di canovaccio o trama.

Dal momento dell’arrivo negli Stati Uniti fino a oggi*, Singer è sempre vissuto a New York, dove attualmente abita — con grande semplicità in un appartamento sulla parte occidentale del Central Park, il grandissimo parco nel cuore dell’isola di Manhattan. È da rimarcare anche il fatto che — nel suo grandissimo rispetto per la vita — Singer è vegetariano, come spesso dichiara nei suoi scritti.

Come già detto, nel 1978 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura, giustissimo riconoscimento che tuttavia è arrivato del tutto a sorpresa: "sorpresa felice", "lieta sorpresa", come è stato scritto da molti critici. A un giornalista italiano che lo intervistava dopo la notizia del premio, ha dichiarato: "Passano gli anni, vengono e vanno i giorni, noi siamo qui, meravigliati di essere vivi. Nemmeno un premio modifica la natura. E non ce la fa neanche un premio come il Nobel, specialmente se è del tutto immeritato come il mio."


"Che mondo meraviglioso, un mondo terribile e splendido, quello di Isaac Bashevis Singer, Dio lo benedica… Consentitemi di dire, di Singer, quello che egli ha detto di suo fratello: "Sto ancora imparando da lui e dalla sua opera". Così scriveva un altro grande scrittore ebreo americano: Henry Miller.

È d’obbligo parlare di "mondo" quando ci si riferisce all’opera del grande autore polacco-americano. È il mondo ebraico-yiddish, quello dell’Europa orientale e poi quello americano, che dal primo discende. Mondo meraviglioso, in quanto intessuto di miti, di leggende, di favole popolari e tradizionali. Mondo splendido, in quanto depositario di una cultura che ha più di duemila anni (ben di più) e si fonda sulla Bibbia e sul Talmùd, cultura rimasta per secoli fedele alla propria tradizione e al tempo stesso capace di rinnovarsi continuamente e rinascere fiorente nei vari angoli del mondo in cui gli ebrei sono stati via via scacciati, dopo la seconda distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta a opera dei romani dell’imperatore Tito nel 70 dopo Cristo. Mondo terribile, poiché carico di pena, di dolore, di fatica, di paura, di incertezza, di fughe, di stragi, fino all’ultima, quella perpetrata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale.

Dovere dello scrittore, secondo Singer, è quello di divertire il lettore, di "sollevare il suo spirito, fornirgli la gioia e l’evasione che sempre la vera arte garantisce", come si legge nel discorso da lui pronunciato durante la consegna del Premio Nobel. " Nondimeno", aggiunge, "è anche vero che uno scrittore serio del nostro tempo deve essere profondamente impegnato sui problemi della generazione alla quale appartiene." E dovere fondamentale che Isaac Bashevis Singer si è imposto, è quello di far sopravvivere nel ricordo dei suoi lettori una generazione sterminata: quella degli ebrei europeo-orientali, decimata dai nazisti. "Nella letteratura", dice ancora Singer, "come nei nostri sogni, la morte non esiste." Ecco dunque lo scrittore farsi forte dei suoi ricordi di un mondo che non c’è più per farlo rivivere, per sottrarlo al silenzio e all’oblio cui pareva averlo destinato la brutalità dell’uomo.

Nei libri di Singer rivivono le persone morte e incenerite nei campi di sterminio, con le loro virtù e i loro difetti, le loro passioni e le loro malinconie, con il loro spirito e la loro carne. E con esse rivive un mondo di riti religiosi e civili, di usanze, di costumi, di tradizioni: che cosa facevano, che cosa mangiavano, come si divertivano, come scherzavano, come soffrivano, come celebravano le loro feste, cose grandi e anche cose minutissime. E rivive un patrimonio immenso di folklore, di racconti tradizionali, narrati di padre in figlio, o meglio sarebbe a dire di madre in figlia, o meglio ancora di zia in nipote. Quante volte i suoi racconti cominciano con le parole: "Raccontava nonna Temerl... Diceva zia Yentl... Narrava Zalman il vetraio…" Racconti favolosi e mitici che questi "narratori di famiglia" — nelle lunghe serate nebbiose della campagna polacca o nei giorni festivi ebraici — riversavano dal proprio patrimonio di memorie nella fantasia attenta e vivace del ragazzino Isaac, che in questo modo si preparava a diventare grande scrittore. Importantissimo, per questo aspetto della formazione di Singer, è sicuramente il periodo trascorso da adolescente (1917-1923) nel paese di Bilgoray, di cui era originaria sua madre.

Così, nei racconti e nei romanzi di Singer, accanto a personaggi che fanno le cose di tutti i giorni — nascono, parlano, mangiano, amano, soffrono, muoiono — troviamo uno stuolo di demoni, folletti, diavoletti, sogni, incantesimi, magie. Diavoli che scendono in città travestiti da uomini, uomini che credono di essere arrivati in paradiso da vivi. Straordinario è sempre — nella sua opera come nella sua vita — l’interesse per l’occulto e la magia: medium, astrologi, parapsicologi. Le sue pagine sono costellate di eventi straordinari, quasi miracolosi. Appunto: il "mondo meraviglioso" di I.B. Singer.

Il lettore che proceda ordinatamente nella lettura dei libri di Singer in ordine cronologico di pubblicazione, da Satana a Goray (il demonio sceso in città, subito!) fino all’ultimo, Vecchio amore*, si accorge che lentamente ma decisamente i personaggi, i luoghi e le situazioni cambiano: dalla Polonia della tradizione medievale o degli anni 1910-1930, si passa all’America dei nostri anni, a Israele, all’America del Sud, luoghi dove si sono trasferiti a vivere gli ebrei dell’Europa orientale sfuggiti o sopravvissuti al nazismo. Se grandi romanzi come La famiglia Moskat, La fortezza o Il mago di Lublino si svolgono totalmente nell’Europa orientale (e, si badi bene, nel mondo degli ebrei orientali: quasi sempre casuale è la presenza di un non-ebreo — un goy —, incidentale, poco significativa), un romanzo come Nemici si svolge tutto a New York (e naturalmente tra ebrei americani). Se i racconti di Gimpel l’idiota e I due bugiardi affondano le radici nel folklore ebraico dell’Europa orientale, quelli di Passioni e di Vecchio amore si aprono alla realtà e alle problematiche di oggi, alla condizione di vivere dell’uomo contemporaneo. Si può dunque affermare che l’opera di Singer costituisce un tutto unico in perenne divenire, un romanzo interminabile, una sterminata autobiografia, un’immensa collezione di memorie.

Un preziosissimo lavoro fatto per riportare in vita o rivitalizzare un mondo (quello ebraico-yiddish) che in gran parte ha rischiato di scomparire. A chi gli chiede perché scrive in yiddish, Singer risponde: "Io scrivo le storie di un popolo di morti, perciò devo usare una lingua morente… Tuttavia", insiste, "credo che nulla mai muoia veramente." Certo: se a perpetuarlo nel tempo c’è l’opera di un grande scrittore come Isaac Bashevis Singer.

A chi gli chiede come mai è diventato scrittore, risponde: "Perché ho sempre avuto una grande curiosità per le vicende della vita degli uomini." Ma che cosa lo spinge ancora a scrivere? "Vedo sempre davanti a me tipi curiosi e originali. Sono sempre stato affascinato dalla varietà delle individualità umane... È questa diversità che mi interessa." Che cosa apprezza di più della vita? "Vivere tutte le emozioni, anche le più minute e apparentemente più insignificanti, perché sono la vita, godere le gioie dell’Amore, raccontare l’infinita varietà di personaggi che i Poteri più Alti hanno messo su questa terra."


Notevole importanza, nella poetica singeriana, ha il tema dello sciocco-saggio (grande tema della letteratura yiddish, da Tevye il lattaio di Shalom Aleichem — le cui avventure hanno ispirato il musical e film Il violinista sul tetto — fino agli "eroi" svaporati di Woody Allen): basti pensare a personaggi come Gimpel o Shlemiel. La parola yiddish per "sciocco" è “chochem”, che deriva dall’ebraico “chachem”, che invece è il "saggio". Gimpel e Shlemiel sono "saggi" proprio in quanto "sciocchi", e la loro visione della realtà è totalmente ingenua, pura, abbandonata alla fede nella religione e nella tradizione dei padri. Tali sono, anche se con minore sottigliezza, i Saggi Anziani di Chelm di Zlateh la capra e di Naftali il narratore e il suo cavallo Sus, racconti scritti nel più classico stile singeriano e indirizzati ai bambini per precisa volontà dell’autore, il quale, tuttavia, in un’occasione ha dichiarato che — quando si scrivono novelle di fantasia — non esistono opere destinate soltanto ai bambini.

Già nella "Premessa" alla raccolta "per bambini" Zlateh, infatti, il lettore trova una delle fondamentali dichiarazioni di poetica di Singer: "La letteratura ci aiuta a ricordare il passato nelle sue varie forme". In questo caso, il passato della tradizione favolistica ebraico-orientale: la capra Zlateh, che agisce e quasi parla come un uomo, i Saggi Anziani di Chelm, che sono saggi proprio in quanto sciocchi, il diavolo che scende in terra, la nonna che racconta una favola… Favole che sono state quasi certamente raccontate anche a lui da una nonna, da una vecchia zia o da qualche altro bizzarro personaggio che frequentava la casa di Bilgoray, o la "corte" del suo padre rabbino. Impegno della memoria del ragazzino Singer è stato quello di conservarle dalla distruzione; impegno dell’arte dello scrittore Singer, quello di trasformare la parola "raccontata" in parola finalmente "scritta" e "stampata", dunque a disposizione di molti. Le cose che servono a pochi, infatti, sono di ben limitata utilità.
    
* Questo testo è del 1980 [M. B.]

Due recensioni: “Shosha” (1978)


Dovrò cominciare questo pezzo con un brandello di autobiografia, e il lettore mi perdonerà, ma non sarebbe possibile fare altrimenti. Tutto comincia - o meglio trova il suo culmine - nel telefono di casa, che suona mentre sto infilando la chiave nella toppa alle 13.10 di giovedì 5 ottobre 1978. Continua a suonare, riesco a far girare serrature e chiavistelli e a piombare sulla cornetta. Dall'altra parte del filo c'è la voce di un'amica giornalista che dice soltanto: "Il tuo Singer ha preso il Nobel". Poi ride. Poi ridiamo assieme. Io sono felice.

Quel "tuo Singer" voleva dire due cose. Primo: ricordare con quanta cocciutaggine e determinazione, ogni volta che conversando (o discutendo) si arrivava a parlare di narrativa e più specificamente di Romanzo (mio grande amore, cosi poco condiviso nel mondo delle nostre lettere), sostenendo sempre io a spada tratta o penna alzata che il Romanzo si può fare benissimo anche oggi e anzi lo si deve fare, a chi mi chiedeva chi ci fosse ancora oggi a praticare questo genere che si sostiene sepolto nelle ceneri dell'Ottocento, a praticarlo sul serio, in maniera militante, io rispondevo sempre: tanti. E giù i nomi. Soprattutto: Isaac B. Singer.

Succedeva spesso (quanto spesso!) che mi rispondesse un sorriso imbarazzato. Singer? E chi è? Dove vive? In che lingua scrive? Sì, a dispetto degli undici libri pubblicati in Italia dalla Longanesi (tra cui monumenti al romanzo come La famiglia Moskat, La fortezza, La proprietà, Il mago di Lublino), questo che è certamente il massimo romanziere vivente, in Italia era conosciuto solo dalla strettissima schiera degli speleologi della letteratura, gli amanti del Romanzo. Spiegavo in fretta che Singer è uno scrittore ebreo polacco, di ascendenza rigidamente rabbinica, che vive da quarant'anni negli USA e scrive in yiddish, la lingua degli ebrei ashkenaziti (o "tedeschi", da Ashkenaz, nome biblico della Germania), divenuti poi la grande comunità ostjudisch delle pianure polacche, galiziane, lituane, russe, dopo la loro espulsione dalle terre tedesche avvenuta tra il XIII e il XV secolo.

Invitavo gli amici ad andare in libreria a cercare i suoi libri, e quelli che lo facevano (pochi) tornavano quasi inevitabilmente con le braccia larghe: non c'è. Sì, di Isaac Bashevis Singer, massimo romanziere vivente, nelle nostre librerie (salvo lodevoli eccezioni) non c'era quasi traccia. Se una società letteraria, pensavo, non conosce nemmeno Singer (e tanto meno suo fratello Israel Joshua, autore de I fratelli Ashkenazi), c'è poco da porsi domande sul perché nella nostra lingua il romanzo sia quello che è. E i miei colleghi scrittori possono seccarsi finché vogliono.

Secondo: bisogna tornare indietro di qualche tempo, cioè al giorno in cui Mario Monti, allora proprietario e presidente della Longanesi & C., per una complicata serie di motivi mi mise sulla scrivania l'ultimo romanzo di Singer, Shosha, e mi disse: "Questo lo traduci tu". Va bene, l'avrei fatto io, di giorno e di notte, visti i margini di tempo che mi si concedevano, tenendo il testo su un lato della macchina per scrivere, sull'altro "Il Grande Dizionario Sansoni di Inglese", e sul tavolo una catasta di libri e libroni, à savoir: il Talmùd, la Bibbia, una letteratura ebraica, tutti i libri di Singer e quelli di suo fratello (con luminosa, imprescindibile prefazione di Claudio Magris), un dizionario storico politico, un dizionario enciclopedico universale, l'Enciclopedia Filosofica del Centro di Gallarate, e altri libri che andavo pescando qua e là nella mia e in altre biblioteche. Persino un dizionario yiddish-inglese, che naturalmente non mi serviva a niente. Lo yiddish è fondamentalmente "un dialetto medioaltotedesco, di impronta prevalentemente, seppure non esclusivamente, francona e alemanna, ma scritto nell'alfabeto ebraico, nelle lettere della Sacra Scrittura" (come spiega Claudio Magris). Lo yiddish, naturalmente, non lo so leggere.

A questo punto sarà anche necessario chiarire che I. B. Singer scrive tutte le sue opere in yiddish, destinandole anzitutto alla grande comunità ebraica mondiale, e poi le traduce in americano (divenuto la sua seconda lingua) facendosi aiutare da qualcuno, fondamentalmente da suo nipote Joseph, figlio di Israel Joshua. Quindi le traduzioni in italiano (e credo anche nelle altre lingue) vengono effettuate sul testo americano, che è tuttavia infarcito di espressioni yiddish ed ebraiche.

Il mondo dei romanzi di Singer (e dei suoi racconti) è quello della comunità e cultura ostjudisch, affascinante miscuglio di dotto rabbinismo e pio, sensuale chassidismo, di rigida interpretazione della Legge e della Tradizione e di arrovellato speculare sul misteri della Cabbala. Storie di uomini legatissimi a questo mondo con la ragione e con i sensi (ha scritto Henry Miller, altro suo profondo estimatore, che Singer non ha paura di nulla, nemmeno del mestruo: no, appartiene a questo mondo, appartiene agli uomini, e Singer non ha paura di metterlo nel suoi romanzi, con la carne, il sesso, le passioni), ma intimamente frammischiate e mescolate con storie di demoni e folletti, di miti e magie. La complessa atmosfera della Varsavia ebraica di questo secolo (o anche della New York ebraica, più tardi), e insieme il mitologico colore e calore dello shtetl, il villaggetto delle pianure est-europee dove si sono installate nel secoli le piccole comunità degli ostjuden con il loro incredibile patrimonio, al tempo stesso umanissimo e mistico, di miti e leggende.

Shosha si svolge nella Varsavia degli anni '30, dove la comunità ebraica attende trepidante e terrorizzata l'arrivo del nuovo Haman, il mostro nazista che delle vie ebraiche farà un ghetto e un'anticamera dei campi di sterminio. È la storia arrovellata, eppure semplicissima, pianissima, di un giovane scrittore yiddish di scarsa fortuna (quanto Singer c'è dietro!), dei suoi turbamenti intellettuali e sensuali, in definitiva della sua volontà di vivere nel mondo, nella società, con la sua cultura e i suoi conflitti, continuando tuttavia ad appartenere, alla famiglia ebraica. Alla sua condizione e cultura di ebreo, alle sue radici, a cui lo richiama e riporta l'incontro e l'amore con un'amica dell'infanzia, la semplice, umile, handicappata, buona Shosha.


Stavo per iniziare queste righe con le parole: "Dire Isaac Bashevis Singer significa dire letteratura". E stavo per scrivere "letteratura" tra virgolette. Doppio grave errore, errore imperdonabile. Quanti significati dà ognuno di noi – scrittori e lettori, tecnici del linguaggio e cultori della trama, letterati della critica e critici delle lettere – al termine, appunto, letteratura! Tanti, troppi, spesso anche contraddicendo noi stessi nell'impiegarlo. No, Isaac B. Singer non significa letteratura, né con né senza virgolette. Bisogna essere più precisi.

Mi soccorre allora subito con forza ma solo per un attimo l'acume di Roberto Calasso, che con Walter Benjamin ricorda come Singer rappresenti la sopravvivenza, nonostante tutto, di una "figura di un irrecuperabile passato: il Narratore". Ma ancora devo fare un passo più in là, o in qua. Dire Isaac B. Singer – fresco Nobel per la letteratura – significa dire Romanzo, o altro termine, altro fenomeno, altro "mostro" che da noi poteri non oscuri, ma stranamente neanche chiari, si sono votati a esorcizzare e denunciare come "figura di un irrecuperabile passato", impraticabile nel nostro tempo.

Prendo il dattiloscritto della traduzione di Shosha (come tutti gli altri scritto originariamente in yiddish e poi tradotto in americano con l'aiuto di qualcuno: questa volta il nipote Joseph Singer), lo scorro fino a cartella 25 e trovo la prima citazione che mi occorre. Aaron Greidinger, il protagonista, giovane scrittore yiddish di scarsa fortuna nella sua Varsavia anni Trenta – ovvero tra le due guerre, periodo in cui la Polonia passò convulsamente dall'occupazione russa a quella tedesca e poi divenne finalmente repubblica, – personaggio dietro cui sta (neanche tanto) nascosto moltissimo Singer, medita amaramente andandosene sotto la neve al Circolo degli Scrittori: "Su che argomento potevo scrivere, che non fosse già noto? Uno stile nuovo? Qualsiasi esperimento con le parole si trasformava rapidamente in una collezione di manierismi".

Poi vado avanti, arrivo a cartella 34 e trovo il dottor Feitelzohn – grosso personaggio di filosofo-dandy dello stesso mondo ebraico varsaviese – che dice al protagonista, a proposito di un dramma che a quest'ultimo è stato commissionato: "La cosa fondamentale è non risparmiare lo schmaltz". Schmaltz è espressione yiddish che significa letteralmente "grasso" (sostantivo, non aggettivo), ma figuratamente indica tutto ciò che è di tinta forte, sentimentale, colorato (diciamo pure anche "consolatorio") in letteratura, teatro, musica. E poi torno indietro di due cartelle e trovo il milionario ebreo americano Sam Dreiman, che ha commissionato il dramma e dice al protagonista: "La cosa fondamentale è che la gente sia curiosa di sapere cosa succede dopo"

Cose già sentite? Concetti vecchi? Già. Però il problema è che alcuni li sanno applicare e altri no. Sono, comunque – dichiarata in termini conviviali – la poetica di Isaac B. Singer, insieme con una nozione precisa della propria condizione umana, nonché una precisa ideologia – anche se Singer lo nega decisamente – e cioè proprio quella di essere contro tutti gli "ismi", come si preoccupa anche troppo, di dichiarare l'Aaron di Shosha. Una poetica che ha prodotto romanzi come La famiglia Moskat, La fortezza, Il mago di Lublino. Più quest'ultimo Shosha. Per non parlare degli undici libri per bambini e delle otto raccolte di racconti e memorie.

È vero, i racconti di Singer – non proprio tutti – sono autentiche perle. Ma come non riconoscervi le microstrutture sperimentali di quelle immense, saldissime costruzioni che sono i suoi romanzi? Per rimanere solo a Shosha, come non riconoscere nel filosofo Feitelzohn almeno un fratello gemello dell'attore Jacques Kohn di Un amico di Kafka? E come non riconoscere nella via Krochmalna la stessa via Krochmalna di Alla corte di mio padre, con addirittura lo stesso Asher il lattaio e persino il ricordo della stessa nonna Temerl? E quanti dybbuk, demoni, folletti, poltergeist, ragazzi e fanciulli stregati, villaggi messi sottosopra, racconti nei racconti nei racconti…

Tuttavia, ancora una volta, è vero: il mondo della tradizione e del mito ebraici, la cultura della società ostjudisch, miscuglio talvolta indecifrabile e quindi magico di dotto rabbinismo e pio, trepidante, sensuale chassidismo, di razionalismo rigido e misticismo arrovellato, emerge forse più profondamente dal tessuto leggero e tuttavia fittissimo dei racconti, ma come dimenticare quanto ce n'è per esempio nel Mago di Lublino?

Romanzo, dunque, romanzo e ancora romanzo. Romanzo come prodotto di una cultura profondissima, più che bimillenariamente fondata su una propria Legge e una propria Tradizione, e quindi su una società. Una società che così stranamente la storia (cioè gli uomini, quelli cattivi e quelli buoni – e lo ricorda Singer in Shosha – quelli grandi e quelli piccini) ha cercato di sradicare dalle rughe del nostro mondo, prima dalla Palestina a Babilonia, poi ancora dalla Palestina versò Sefarad (la Spagna) e Ashkenaz (la Germania), e poi da questi due luoghi di nuovo verso il mondo ottomano o verso le pianure polacche, galiziane, lituane, russe e anche più lontano, fino all'ultima tragedia alla quale molti di noi, hanno ancora potuto assistere; ma una società che ha saputo resistere profondamente unita nella sua Legge e nella sua Tradizione, sopravvivere agli Haman e agli Hitler e persino trarre nuova forza e nuovo spirito dai propri interni anti-Messia, in quanto anche sempre curiosissimamente aperta, nell'intrico fittissimo delle sue componenti, a cedere il vecchio per il nuovo e lo stesso nuovo a metterlo immediatamente in discussione. "Date agli ebrei una rivoluzione,", dice ancora Aaron Greidinger, "e ne chiederanno un'altra. Date loro un Messia e ne chiederanno un altro".
Sì, quando si appartiene a una società così strutturata, anche se si rischia di essere un "anacronismo sotto ogni punto di vista", come si autodefinisce da bambino il protagonista di Shosha, anche se si studia in lingue "morte" come l'ebraico e l'aramaico, e si scrive in una lingua addirittura "negata" come lo yiddish, si può fare il romanzo, il Grande Romanzo, proprio perché nonostante tutto non si è provinciali, si vive contemporaneamente nel Nuovo e della Tradizione.

La famiglia Moskat si chiude sulle fiamme di Varsavia aggredita dai nazisti (e qualcuno potrebbe anche – non solo idealmente – collegarla con La fortezza e La proprietà), e nello stesso clima di catastrofe incombente – quasi un ultimo lungo capitolo di quel grandissimo romanzo e di quella grandissima serie – si svolge questo più umile Shosha, e Aaron Greidinger, il protagonista, ancora una volta assomiglia singolarmente ad Asa Heshel Bannet, protagonista di quel romanzo. Lo stesso singolare, intricato, affascinante miscuglio di rigida tradizione rabbinica e vivacissima ansia "mondana", dove l'aggettivo "mondano" vuole significare ricerca del mondo esterno alla comunità ebraica, ricerca della sua multiforme cultura, di quei "Lumi" che secondo Aaron arrivano, nella via Krochmalna di Varsavia solo con i soldati tedeschi invasori dell'impero russo nella Grande Guerra. La stessa volontà ferrea di vivere nel mondo, di partecipare al suoi conflitti storici, politici sociali, culturali, continuando tuttavia ad appartenere alla famiglia ebraica.

Questa la parabola offerta dall'ultimo romanzo di Singer: il giovane scrittore protagonista potrebbe raggiungere successo, tranquillità economica e soprattutto sicurezza fisica andandosene in America con l'attrice Betty, ma rimane a Varsavia, richiamato alla propria infanzia, alle proprie radici, alla famiglia ebraica dalla piccola, semplice, handicappata, umile Shosha, "casta, rispettabile figlia di ebrei". E più ancora di lui rimangono gli altri (quelli che sono veramente rimasti), quelli che moriranno nel ghetto o nelle camere a gas, o in qualche modo sopravvivranno. Rimangono per dichiarare agli uomini la propria volontà, il proprio diritto (che è diritto di tutti gli uomini) a essere se stessi tra gli altri.

Quando Shlemiel andò a Varsavia

L'arte del "raccontare" (dunque di "fare il racconto") non esaurisce quella del "narrare", di cui costituisce solo una categoria storica, che nasce prima di e poi affianca quella del "romanzo" e successivamente quella del "filmato", per procedere per ampie semplificazioni. E davvero - intrinsecamente legata come è al folclore popolare e alla tradizione orale - l'arte del racconto è morente, serrata da tutti i lati dalle altre due, legate a tecniche assai posteriori e più "evolute" della viva voce: la stampa e la riproduzione e sonorizzazione (e trasmissione) dell'immagine.

È morente, ma ancora non morta: laddove sopravvive una cultura gelosa della propria tradizione, della propria norma, del proprio folclore, l'arte del racconto sopravvive con risultati eccelsi. Ne è prova grandissima Isaac Bashevis Singer, Premio Nobel per la letteratura, che come uomo del nostro tempo è grandissimo romanziere, e come uomo appartenente a una cultura in qualche modo "separata", "autonoma" e fedelissima alla propria tradizione - quella ebraica e specificamente ebraico orientale - è anche grandissimo "raccontatore", proprio in quanto raccoglitore di storie create da quella tradizione e in essa tramandate nei secoli attraverso il vivo mezzo della voce prima che dalle tecniche della scrittura, della stampa e - ora - anche della registrazione visuale e sonora.

Quante volte, nei racconti e nelle fiabe (e anche nei romanzi) di I.B. Singer si legge "disse zia Yentel", "raccontò Zalman il vetraio", "aggiunse Meyer Eunuco"? E di quante Yentel, di quanti Zalman e Meyer e Levi Yitzoch e... e... e... sarà stata formata la sottile ma indissolubile catena che nei secoli ha portato fino alle orecchie del piccolo Isaac e poi alla sua penna? Materiale a stampa per suggerire, se non addirittura suffragare, l'ipotesi ne esiste già molto: intendo parlare dei volumi di racconti, fiabe e memorie di I. B. Singer già pubblicati in Italia. A esso si va ora ad aggiungere la raccolta contenuta in Quando Shlemiel andò a Varsavia. Si legga la nota d'autore che - secondo l'abitudine singeriana - precede la raccolta: "Alcune di queste storie me le raccontò mia madre: sono novelle folcloristiche che lei ascoltò da sua madre e da sua nonna... Altre... sono semplice frutto della mia immaginazione... E sono tutte il risultato d'un sistema di vita ricco di fantasia e d'artificio...".

Shlemiel in yiddish significa "buono a nulla", e un "buono a nulla" è lo Shlemiel che crede di andare dal suo shtetl (villaggio ebraico dell'Europa orientale) a Varsavia, e invece per una burla torna a casa, ma naturalmente non crede affatto di esserci tornato e crede invece di essere capitato in un doppione del suo villaggio, in un doppione della sua casa, con doppioni di sua moglie e dei figli, mentre evidentemente uno Shlemiel doppione di lui stesso vaga per il mondo, magari ne è già cascato fuori dai bordi, come suggerisce uno dei "saggi" anziani del villaggio... Uno shlemiel, un buono a nulla, un semplice, dunque un parente vicinissimo di Gimpel l'idiota, perfettamente legato al significato dell'"idiota" nella tradizione letteraria ebraica e yiddish, di cui è un archetipo, al tempo stesso "idiota" e "saggio", duplice ambiguo significato del termine ebraico-yiddish leggibile come chochent oppure come chacham (poiché nell'alfabeto ebraico esistono le consonanti e non le vocali).

Shlemiel appare anche in un altro degli otto racconti, dove combina affari del tutto scombinati, e intorno a lui vi sono gli altrettanto shlemiel "saggi" anziani del villaggio, che in un altro racconto ancora si esibiscono in elucubrazioni di rara stoltezza e comicità. E altre storie: di uomini astuti e uomini avari, di diavoletti e grilli, di demonesse e santi, di ragazzini e sogni, come tante figurine uscite dalla tradizione ebraica per balzare nei dipinti di Chagall e negli scritti di I. B. Singer. Per un libro che l'editore americano rubrica tra quelli destinati al bambini, ma che giustamente, seguendo l'indicazione dell'autore, quello italiano destina invece anche agli adulti.

Schiuma

“La morte di Matusalemme” è stato l’ultimo racconto pubblicato da Singer, a 84 anni. Sembrava il canto del cigno del massimo scrittore ameryiddish. Il suo testamento letterario. Un mirabile recupero in extremis da un pozzo di sapienza narrativa che sempre più andava rivelandosi senza fondo. Invece non sarebbe stato così. Il grande vecchio avrebbe dato alle stampe ancora un romanzo, Il re dei campi, veramente singolare, senza capo né coda, imbarazzante, tale da far addirittura sospettare che non fosse stato scritto o per lo meno concluso da lui ma da uno dei suoi tanti redattori, editor, traduttori dallo yiddish all’americano. Perché no? Quante volte, nei suoi racconti, I. B. Singer ha rivelato di essere lui stesso sopravvissuto per anni facendo il ghost writer per conto di altri? Sembrava davvero la fine. Una fine malinconica.

Invece aveva in serbo ancora una sorpresa, e di straordinaria qualità: Schiuma (ma la traduzione più corretta sarebbe “Feccia”). Un romanzo che, riconducendolo nella Varsavia delle origini, lo riporta alle vette della sua arte narrativa per un congedo in tutto degno della sua grandezza. L’ambiente è la misera Via Krochmalna di tanti suoi racconti e romanzi. Al numero 10 abita persino un rabbino con un figlio di nome Itchele. Il nomignolo da bambino dello stesso autore, l’indirizzo di casa sua. Tra la feccia di questo ghetto nel ghetto piomba Max Barabander, un ex malavitoso che ha fatto fortuna in Argentina e che è riuscito a ripulirsi la fedina penale con i soldi. E’ anche lui uno östjude, uno zhid, un ebreo polacco, ed è tornato lì alla ricerca del tempo perduto, delle radici, della gioventù. In altre parole: della svanita potenza sessuale. E il ritorno alle usanze della sua gente lo fa precipitare in una geenna di frenesia in cui l’erotismo si mescola all’ansia distruttiva, nei confronti di se stesso come delle diverse donne che di trovano inestricabilmente invischiate nella rete del suo "cupio dissolvi".

I Racconti nei Meridiani e il romanzo “Ombre sull’Hudson” (la mia traduzione, Longanesi & C.)

«Che cos’è la morte?» si chiedono di continuo gli inquieti personaggi di Isaac B. Singer. «La morte è il Messia. Ecco la verità», risponde per tutti Hertz Yanovar nell’ultima riga di La famiglia Moskat. Catarsi, conquista della pace per anime che su questa terra sembrano destinate a non trovarla mai. «Date agli ebrei una rivoluzione. Ne pretenderanno un’altra. Date loro un Messia. Ne chiederanno un altro», scrive tante volte Singer. Date loro, viene amaramente da aggiungere, una morte. Nel loro perenne sradicamento, nella loro eterna inquietudine, ne chiederanno un’altra. Di sicuro ne avrà già chiesto un’altra I. B. Singer. Avrà chiesto di continuare a rimanere fra noi, tramutato in dybbuk burlone, sotto le spoglie di lantuch, di poltergeist, di capra parlante, del saggio cavallo Sus, di carpa beffarda che oltraggia il pio rabbino degli Scemi di Chelm spruzzandogli acqua sulla barba. Ma certamente rimarrà sempre tra noi nelle infinite trasfigurazioni che di se stesso ci ha dato nella sua opera.

Essa, infatti, non soltanto rimane come una pietra miliare della suprema narrativa di tutti i tempi, ma continua ad accrescersi quasi per magia anche dopo la morte. È di questi ultimi mesi la pubblicazione di un Meridiano a cura di uno staff di prim’ordine; agli inizi dell’anno, negli Stati Uniti, è stato pubblicato l’ultimo dei suoi romanzi postumi — sono ormai diversi —: Shadows on the Hudson, che apparirà in Italia nel ’99. Romanzo sterminato, originariamente pubblicato in yiddish sul mitico Forward, o Forvertz, il quotidiano degli ashkenaziti di Manhattan. Vi apparve due volte a puntate tra il ’57 e il ’58, ma non era mai stato tradotto in americano né pubblicato in forma di libro. C’è da chiedersi come mai ciò sia successo, data l’eccezionale qualità del testo. L’ipotesi che si può fare è che fosse molto simile a un altro — fortunato ma successivo — romanzo di Singer, Nemici. Una storia d’amore, apparso nel 1972. (Una love story! Come pensare che il sottotitolo non contenesse un’intenzione ironica nei confronti del bestseller di Erich Segal? Così era lo spiritello caustico di Singer.) Nemici ebbe un buon successo, e il suo inquieto protagonista, Herman Broder, con le sue tre donne, sembra un fratello gemello dello Hertz Grein di Shadows (con le sue tre donne).

Scrittore inarrestabile, infaticabile raccoglitore di materiali narrativi dai più alti ai più bassi, Singer non temeva di ripetersi. Se un testo gli sembrava non perfettamente riuscito, ne trasferiva i materiali in un altro. Chissà, forse Shadows gli pareva troppo pletorico con le sue oltre 500 pagine in corpo piccolissimo. O forse così sembrava ai suoi editori e curatori. Perché non trarne un altro romanzo, più snello, più commerciabile? Non sapremo mai se le cose siano andate così. Ma per fortuna l’originale è uscito dalle “ombre” dell’editoria e divenuto libro, regalandoci la sua folla di personaggi ebraici persi in altre “ombre”: della vita, delle illusioni, delle passioni, del dubbio.

Le ombre più cupe sono quelle che si addensano sull’irresoluto Hertz Grein, ex studente di filosofia, ex insegnate di Talmùd Torah e attuale (1947) mediatore di borsa a Manhattan, oltre che ennesima trasfigurazione di I. B. Singer. Ha tre donne, appunto, e non sa scegliere. La sua profonda religiosità, ereditata dal padre, pio scriba di rotoli della Torah, si scontra con una carnalità che non trova pace. Anche per lui il Messia, come portatore di certezze e tranquillità, sembra non poter essere che la morte. Non a caso, forse, si chiama Hertz come lo Janovar di Moskat. Attorno a lui si muove una folla tumultuosa di personaggi — spiriti religiosi e menti laiche, razionalisti e spiritualisti, comunisti e anticomunisti, artisti e commercianti, peccatori e santi — e situazioni da lasciare senza fiato al pensiero che già negli anni Cinquanta il bagaglio narrativo di Singer fosse così ricco, persino debordante. Il dottor Margolin, per esempio, lo ritroviamo in almeno un suo racconto. In un altro ancora, intitolato proprio così, si ritrova la sensazionale “seduta spiritica” che fa da perno a uno dei molti rivoli narrativi del romanzo. E così via: signore supremo della narrazione, Singer afferma sempre con forza il diritto di proprietà sui materiali che usa. Sono suoi, li ha inventati o raccolti lui, può farne ciò che vuole. Forse anche per questo era così restio a una sistemazione critica dei suoi scritti, che infatti non esiste. Lo ricorda molto bene Alberto Cavaglion nel suo dotto saggio introduttivo al Meridiano Mondadori, che si complementa alla perfezione con lo scritto di apertura regalatoci dall’acume critico di Giuseppe Pontiggia.

Una raccolta preziosa anche proprio perché rappresenta forse il primo sforzo di sistematizzazione dell’opera di Singer, sia pure limitata ai racconti: vi è chi ritiene che siano la sua più alta espressione artistica. Non ne sono convinto: il ragionamento critico su Singer non può prescindere da monumenti come La fortezza o La famiglia Moskat (e anche Shadows), opere in cui trovano definitiva elaborazione, organizzazione e unificazione i nuclei di sperimentazione narrativa rappresentati dai racconti. Bisognerebbe, un giorno, che qualcuno riuscisse a realizzare una lettura comparata di tutti gli scritti di Singer, per accertare quando e come (e un’altra volta come nelle due lingue impiegate per scriverli e rielaborarli: yiddish e americano) vengono usati e riusati i diversi materiali narrativi. Un lavoro immane.

Gli oltre novanta racconti riuniti nel Meridiano erano già apparsi in italiano, ma benissimo hanno fatto i curatori a volerne una nuova traduzione: la lingua si evolve, e radicalmente diverse possono essere le motivazioni e urgenze che presiedono a un incarico di traduzione da parte di un editore. Ricorderò soltanto che, poco prima del Premio Nobel, la casa editrice che pubblicava Singer in italiano aveva deciso di non tradurlo più. Vendeva troppo poco, impellevano altre esigenze di mercato: Sven Hassel, Heinz Konsalik… Gli affanni dell’editoria non cambiano mai. Non stava forse subendo una sorte analoga Shadows on the Hudson, tradotto in americano, pubblicato in forma di libro e quindi reso accessibile soltanto quarant’anni dopo la prima edizione in yiddish, a puntate?

Isaac B. Singer, "Racconti", Meridiani Mondadori
(Letture)

“Ombre sull’Hudson”

A chi mi chiede che cosa bisogna fare per diventare scrittore, rispondo semplicemente che, prima di azzardarsi a prendere la penna in mano, bisogna leggere, leggere e ancora leggere, ore e ore ogni giorno, con spartana disciplina. Lo faccio nello stesso spirito con cui, a un giovane aspirante calciatore, direi che, per imparare il mestiere, deve calciare, calciare e ancora calciare. Leggere che cosa? mi viene regolarmente chiesto. Tutto, rispondo: da qualsiasi testo, se letto bene, si può imparare qualcosa. Ma, prima di tutto, imprescindibilmente, bisogna leggere Tolstoi, Balzac, Thomas Mann e Isaac B. Singer. È l’unico suggerimento che sento di poter dare, la mia "ricetta di fabbricazione" del romanzo. Possono essercene tante, e tutte valide, ma almeno una bisogna averla, come non si stancava di ripetermi tanti anni fa l’indimenticabile Gianfranco Contini. Chi aspira a scrivere non può dunque non avere letto almeno Guerra e pace, Illusioni perdute, I Buddenbrook. E, di Singer, La fortezza e La famiglia Moskat.

«Che cos'è la morte?» si chiedono di continuo gli inquieti personaggi di Isaac B. Singer. «La morte è il Messia. Ecco la verità», risponde per tutti Hertz Yanovar nell'ultima riga della Famiglia Moskat. Catarsi, conquista della pace per anime che su questa terra sembrano destinate a non trovarla mai. «Date agli ebrei una rivoluzione. Ne pretenderanno un'altra. Date loro un Messia. Ne chiederanno un altro», scrive tante volte Singer. Date loro, viene amaramente da aggiungere, una morte. Nel loro perenne sradicamento, nella loro eterna inquietudine, ne chiederanno un'altra. Di sicuro ne avrà già chiesto un'altra I. B. Singer. Avrà chiesto di continuare a rimanere fra noi, tramutato in dybbuk burlone, sotto le spoglie di lantuch, di poltergeist, di capra parlante, del saggio cavallo Sus, di carpa beffarda che oltraggia il pio rabbino degli "Scemi di Chelm" spruzzandogli acqua sulla barba. Ma certamente rimarrà sempre tra noi nelle infinite trasfigurazioni che di se stesso ci ha dato nella sua opera.

Un’opera che non soltanto rimane come una pietra miliare della suprema narrativa di tutti i tempi, ma che continua ad accrescersi quasi per magia anche dopo la morte. In questi giorni, infatti, la Longanesi ha pubblicato in italiano l’ultimo dei suoi romanzi postumi (sono ormai diversi): Ombre sull’Hudson. Romanzo sterminato, originariamente pubblicato in yiddish sul mitico Yewish Daily Forward, o Forvertz, l’Avanti ebraico, il quotidiano degli ashkenaziti di Manhattan. Vi apparve due volte a puntate tra il ’57 e il ’58, ma non era mai stato tradotto dallo yiddish in americano né pubblicato in forma di libro. C’è da chiedersi come mai ciò sia successo, data l’eccezionale qualità del testo. L’ipotesi che si può fare è che fosse molto simile a un altro — fortunato ma successivo — romanzo di Singer, Nemici. Una storia d’amore, apparso nel 1972. (Una love story! Come non pensare che il sottotitolo contenesse un’intenzione ironica nei confronti del bestseller di Erich Segal? Così era lo spiritello caustico di Singer.) Nemici ebbe un buon successo, e il suo inquieto protagonista, Herman Broder, con le sue tre donne, sembra un fratello gemello dello Hertz Grein di Ombre (con le sue tre donne).

Scrittore inarrestabile, infaticabile raccoglitore di materiali narrativi dai più alti ai più bassi, Singer non temeva di ripetersi. Se un testo gli sembrava non perfettamente riuscito, ne trasferiva i materiali in un altro. Chissà, forse Ombre sull’Hudson gli pareva eccessivo con le sue oltre 600 pagine. O forse così sembrava ai suoi editori e curatori. Perché non rielaborarlo in un altro romanzo, più snello, più commerciabile? Non sapremo mai se le cose siano andate così. Ma per fortuna l’originale è uscito dalle "ombre" dell’editoria e divenuto libro, regalandoci la sua folla di personaggi ebraici persi in altre "ombre": della vita, delle illusioni, delle passioni, del dubbio.
Le ombre più cupe sono quelle che si addensano sull’irresoluto Hertz Grein, ex studente di filosofia, ex insegnate di Talmùd Torah e in quel periodo (1947) mediatore di borsa a Manhattan, oltre che ennesima trasfigurazione di I. B. Singer. Ha tre donne, appunto, e non sa scegliere. La sua profonda religiosità, ereditata dal padre, pio scriba di rotoli della Torah, si scontra con una carnalità che non trova pace. Anche per lui il Messia, come portatore di certezze e tranquillità, sembra non poter essere che la morte. Non a caso, forse, si chiama Hertz come lo Janovar della Famiglia Moskat. Attorno a lui si muove una folla tumultuosa di personaggi — spiriti religiosi e menti laiche, razionalisti e spiritualisti, comunisti e anticomunisti, artisti e commercianti, peccatori e santi — e situazioni da lasciare senza fiato al pensiero che già negli anni Cinquanta il bagaglio narrativo di Singer fosse così ricco e colto.

Un altro personaggio, per esempio, il dottor Margolin, lo ritroviamo in almeno un suo racconto. In un altro racconto ancora, intitolato proprio così, si ritrova la sensazionale "seduta spiritica" che fa da perno a uno dei molti rivoli narrativi di Ombre sull’Hudson. E così via: signore supremo della narrazione, Singer afferma sempre con forza il diritto di proprietà sui materiali che usa. Sono suoi, li ha inventati o raccolti lui, può farne ciò che vuole. Forse anche per questo era così restio a una sistemazione critica dei suoi scritti, che infatti non esiste.

Vi è chi ritiene che i racconti siano la sua espressione artistica più alta. Non ne sono convinto: il ragionamento critico su di lui non può prescindere da monumenti come La fortezza o La famiglia Moskat (e anche da questo postumo Ombre sull’Hudson), romanzi in cui trovano definitiva elaborazione, organizzazione e unificazione i nuclei di sperimentazione narrativa impostati nei racconti. Bisognerebbe, un giorno, che qualcuno riuscisse a realizzare una lettura comparata di tutti gli scritti di Singer, per accertare quando e come (nelle due lingue impiegate per scriverli e rielaborarli: yiddish e americano) vengono usati e riusati i diversi materiali narrativi. Un lavoro immane.
E pensare che nel 1978 la casa editrice che pubblicava Singer in italiano aveva deciso di non tradurre il suo romanzo Shosha, appena uscito in America, e di rinunciare all’autore. Vendeva troppo poco, impellevano altre urgenze di mercato: autori di assoluta banalità ma consolidata popolarità come Sven Hassel o Heinz Konsalik. Allora lavoravo lì ed ebbi un duro scontro con la direzione commerciale. Eterno tormento delle case editrici: chi sceglie i libri si trova spesso in contrasto con chi deve venderli; le motivazioni sono troppo diverse. Mi sdegnai al punto che, almeno quella volta, riuscii a impormi. Vendesse o non vendesse, un monumento alla scrittura come Singer non poteva essere perso. In compenso, per rispettare i tempi, mi toccò tradurre Shosha, di sera, il sabato e la domenica. Venne una traduzione scadente, e non ho nessuna remora ad ammetterlo.
Ma ho una scusante. Mentre, ingobbito sui tasti, stavo traducendo l’ultima parte, squillò il telefono. Era un’amica, responsabile della terza pagina di un importante quotidiano. Rimasi senza fiato: l’Ansa aveva appena annunciato che a Isaac B. Singer, scrittore da non tradurre più, da abbandonare al suo destino, era stato assegnato il Premio Nobel. Credo che la faccia mi si sia aperta in un sorriso da un orecchio all’altro: telefonai immediatamente alla famosa direzione commerciale. Avevo o non avevo avuto ragione? Mal me ne incolse (ma soprattutto mal ne incolse all’edizione italiana di Shosha): la traduzione mi fu praticamente strappata di mano e mandata subito in tipografia, senza alcuna correzione e revisione. Le ultime pagine le dovetti tradurre sotto lo sguardo truce di una cerbera che me le strappava letteralmente dal carrello della macchina per scrivere e le mandava ipso facto in tipografia. Mi sembrava di vivere in un racconto di Singer: quello, per esempio, dello scrittore che, leggendo un giornale a cui collabora, scopre che da un suo pezzo sono scomparse alcune righe, ma poi le vede ricomparire come per incanto in un pezzo di un altro autore, pubblicato da un altro giornale stampato nella stessa tipografia.

Con il tempo spero di aver potuto fare ammenda: a questo punto ho tradotto quindici libri di Singer, migliaia di pagine, anni di lavoro. Ma se in quei lontani giorni del 1978 Isaac B. Singer fosse stato lì insieme a me, con tutta la sua saggezza e ironia, avrebbe sicuramente ridacchiato. I tormenti dell’editoria non cambiano mai, a Milano come a New York. Non sembrava forse abbandonato, perso per sempre anche Ombre sull’Hudson, tradotto in americano, pubblicato in forma di libro e quindi reso accessibile soltanto quarant’anni dopo la prima, dimenticata edizione in yiddish, a puntate?

(La Provincia di Como, 10 maggio 2000)

Nuove storie dalla corte di mio padre

"Che mondo meraviglioso, un mondo terribile e splendido, quello di Isaac Bashevis Singer, Dio lo benedica…" Così scriveva Henry Miller. E quando ci si riferisce all’opera del grande autore polacco-americano, Premio Nobel nel 1978, è davvero d’obbligo parlare di "mondo". Il mondo ebraico-yiddish dell’Europa orientale e poi americano. Mondo meraviglioso, in quanto intessuto di miti, di leggende, di favole popolari e tradizionali. Mondo splendido, in quanto depositario di una cultura che sostiene di avere quasi seimila anni (oggi 17 marzo 2001, data in cui viene scritto questo pezzo, per gli ebrei è il 24 Shevat 5761); una cultura rimasta per secoli fedele alla propria tradizione e al tempo stesso capace di rinnovarsi continuamente. Mondo terribile perché carico di pena, di dolore, di fatica, di paura, di incertezza, di fughe, di stragi, di guerre senza senso.

Secondo I. B. Singer, dovere dello scrittore è anzitutto divertire il lettore, "sollevare il suo spirito, fornirgli la gioia e l’evasione che sempre la vera arte garantisce", come si legge nel discorso da lui pronunciato durante la consegna del Premio Nobel. "Nondimeno", aggiunge, "è anche vero che uno scrittore serio del nostro tempo deve essere profondamente impegnato sui problemi della generazione alla quale appartiene." E dovere fondamentale che Singer si è imposto, è quello di far sopravvivere nel ricordo dei suoi lettori una generazione quasi distrutta e scomparsa: quella degli ebrei europeo-orientali. "Nella letteratura", dice ancora Singer, "come nei nostri sogni, la morte non esiste." Ecco dunque lo scrittore farsi forte dei suoi ricordi di un mondo che non c’è più per farlo rivivere, per sottrarlo al silenzio e all’oblio.

Presunzione dello scrittore – sempre inconscia ma molte volte ammessa con candore o addirittura spudoratamente dichiarata – è quella di saper creare con le proprie costruzioni narrative un mondo "altro" rispetto a quello della realtà, a quello creato da Dio. Profondo conoscitore della religione, del rapporto tra Dio e uomo, I. B. Singer ribalta la situazione e, in un suo testo, scrive: "Dio è un romanziere, e il suo romanzo è il mondo". Ma se questo mondo è il romanzo di Dio – sottintende con acuta sottigliezza –, allora è vero che ogni romanziere, creando un suo mondo "altro" con un romanzo, leva una piccola sfida a Dio.

Sapeva molto della religione, Isaac B. Singer: era cresciuto nella casa di un rabbino della campagna polacca inurbatosi a campare di vita grama con tutta la famiglia nel ghetto di Varsavia, nella povera Via Krochmalna che tante volte rivive nelle sue storie, con la sua folla popolana, le sue tremende miserie, le sue sfrenate allegrie, la sua autentica follia: tremuli aspiranti alla santità e sfrontate puttane, laboriosi operai e astuti ladruncoli, artigiani e fattucchiere. E, lì vicino, il brulicare di vita e merci (buone o avariate) del Mercato di Yanash, la macelleria rituale, il bagno pubblico, le case di studio, i caffè della malavita…

In casa Singer il rapporto con Dio era costante: abbandonato alla pia, incrollabile fede del papà rabbino, ma anche vigorosamente messo in discussione dai figli, appartenenti di diritto alla nuova generazione "illuminata": "Se siamo il popolo che Tu hai scelto, perché ci fai tanto soffrire?" Ma, in quanto casa di rabbino, quella di papà Singer era anche un tribunale, a cui si accorreva per dirimere spinose questioni su cui soltanto la Legge ebraica poteva dire l’ultima parola per il Popolo di Israele.

Ed è appunto questa casa "tribunale" che – distrutta dai nazisti – torna ancora una volta a rivivere nei nuovi racconti scoperti nei recessi degli archivi di Isaac B. Singer, che sembrano non avere un fondo e regalarci sempre nuovi doni. In Nuove storie dalla corte di mio padre, che ho avuto il privilegio di tradurre ed è uscito in questi giorni (come sempre per Longanesi), sono raccolti 27 racconti di quelli che il grande scrittore scriveva "a cottimo" per il "Jewish Daily Forward" di Manhattan.

E, come per incanto, il mondo scomparso della Via Krochmalna di Varsavia torna in vita davanti a noi. Chaim il fabbro ha un solo scopo nella vita: che suo figlio diventi rabbino. A questo scopo il pio artigiano sacrifica la vita, e a nulla valgono i consigli e rimbrotti che gli elargisce il rabbino Singer nel suo "tribunale". Un santo scriba si torce le mani perché l’uomo a cui ha promesso la figlia, non soltanto ha un’altra fidanzata, ma addirittura si è scoperto che non è affatto divorziato, come aveva dichiarato di essere. Una "causa" da due rubli, ma l’accordo raggiunto a fatica vale altrettanto poco. Un uomo chiede il divorzio perché, a suo dire, la moglie vuole più bene al cane che a lui. Situazione spinosa. Una prostituta desidera a tutti i costi sposarsi davanti al rabbino, e il quartiere ha un bel ridacchiare e commentare: per il pio papà Singer è un’ebrea come tutte le altre, celebrerà il matrimonio, anche se poi sua moglie spalancherà furiosamente tutte le finestre per purificare l’aria.

Papà Singer è un uomo che appartiene a un altro mondo, non a questo, per cui non è quasi descrivibile lo sgomento in cui precipita quando scopre che qualcuno ha falsificato una cambiale con la sua firma. È mai possibile che nell’animo di un uomo possa albergare tanta abiezione? È possibile, purtroppo, e nella circostanza il tribunale rabbinico non serve a niente: bisognerà ricorrere a quello civile e pagare avvocati. Papà Singer non capisce più niente: è lui a subire il torto ed è lui a dover pagare? Che mondo è mai quello che lo circonda? A che punto lo ha portato l’empietà degli uomini?

Eppure l’aria del "cambiamento" a un certo punto contamina anche lui: sbalorditi, i due figli lo sentono esaltare in casa i pregi della "anarchia". Lo ascoltano con un orecchio solo, hanno capito che il papà non ha inteso niente della nuova idea che sembra tanto incantarlo: anche in questo caso lo contraddicono, ma senza molto impegno. Infatti bastano pochi giorni, e nel "tribunale" di casa Singer non si sente più parlare di "anarchia": dimenticata.
E di nuovo arrivano coppie mal assortite a chiedere divorzio – in genere rifiutato – e giustizia, in genere ottenuta con poche parole di profonda saggezza e pochissima spesa. Ma mamma Singer protesta: come si fa a tirar su i figli con questi miserabili spiccioli? Poi c’è l’eunuco che vuole sposarsi e sospira dei risolini che sente levarsi da ogni dove. Soci in affari si imbrogliano a vicenda e non vogliono trovare un accordo. La panettiera vedova ha giurato fedeltà eterna al marito sul letto di morte, ma adesso vorrebbe risposarsi con una salumiere: come fare? E così via, così via, così via, per un intero universo di figure vivacissime, che a una a una e tutte insieme fanno rivivere un intero mondo scomparso. Un mondo piccolo eppure meraviglioso, terribile, splendido.

Questo lavoro di resurrezione di un intero mondo, Isaac B. Singer lo faceva a sua volta per pochi spiccioli, scrivendo come un invasato per chiunque gli commissionasse qualcosa: Manhattan non era la Via Krochmalna di Varsavia, le distanze erano ben diverse e i dollari non erano i copechi della Polonia russa e nemmeno gli zloty della Polonia indipendente. Nel tribunale rabbinico del padre aveva imparato a vivere di pochissimo, ma in America anche il pochissimo costava molto. Sebbene lui avesse davvero bisogno di molto poco. D’altra parte, le rare volte che prendeva un taxi, scopriva di aver dato un indirizzo sbagliato; se scendeva nel bailamme della metropolitana, si perdeva.

Come il padre, viveva anche lui in un suo piccolo mondo separato, fatto di rapporti complicati con gli altri e di conversazioni – polemiche – a tu per tu con Dio. Dimenticava spessissimo di mangiare. Proprio: se ne dimenticava. Viveva con la folla dei personaggi che sapeva evocare dal passato o dalla fantasia, e in essa si perdeva. Un vecchio amico newyorkese, uomo di editoria, che lo conosceva benissimo, mi ha raccontato che in un certo periodo la stessa sopravvivenza di Singer è dipesa dalla fortuna di abitare nello stesso palazzo dove viveva anche Shelley Winters, straordinaria attrice, già moglie per qualche tempo di Vittorio Gassman. Quando non lo vedeva per un po’, si precipitava da lui, lo prendeva letteralmente per il collo e lo trascinava in una cafeteria della loro via, tutti e due in ciabatte, a volte addirittura in vestaglia. E, mentre mangiavano le solite quattro cose vegetariane ridendo come bambini, Shelley gli estorceva mirabili racconti.

Quante volte, ricordando il bizzarro episodio, mi sono detto che, se fossi stato l’ottima Winters, mi sarei portato dietro un registratore ben camuffato. Ma ogni volta mi sono consolato pensando che a quei tempi non esistevano quelli portatili e miniaturizzati di adesso. E del resto, tutte le storie che Isaac B. Singer raccontava all’amica stanno a poco a poco uscendo dal buio dei loro ripostigli per la nostra beatitudine di lettori.

(La Provincia di Como,25 febbraio 2001)
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