Scrive di: Henry Roth

Recensione: “Chiamalo sonno” (1987)
Recensione: “Una stella sulla collina del parco di Monte Morris” (1995)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Henry Roth - statunitense di origine ebraica orientale, nato in Galizia nel 1906 - è uno scrittore che si può con pieno diritto definire «ciclico»: la sua attività e la sua opera sembrano procedere per grandi stacchi temporali di circa un quarto di secolo. Call it sleep, infatti, suo unico romanzo edito, è apparso la prima volta nel 1934, ha trovato nuova linfa vitale, dopo un lungo periodo di oblio, nella riedizione del 1960 e torna a far parlare di sé, almeno in Italia, nel 1986, a intervalli esatti di ventisei anni. Che c'entri la cabbala? Nel frattempo l'autore, preso in anni lontani dall'impegno nella sinistra americana e ora nel sostegno a Israele, ha prodotto soltanto una ventina di racconti e l'annuncio di un nuovo romanzo. L'attuale edizione italiana di Call it sleep (tradotto alla lettera come Chiamalo sonno) appare per i tipi di Garzanti e riprende la vecchia traduzione (già pubblicata nel 1964 dalla coraggiosa Lerici e ora completamente rivista) di Mario Materassi, il quale fa anche seguire al libro una postfazione.

Singolare caso davvero, quello di Henry Roth. Pare che all'apparire la sua opera abbia suscitato notevole scalpore nel mondo letterario newyorkese, per poi precipitare in inspiegabile oblio; tuttavia non se ne trova traccia né nella Storia della letteratura americana di Alfred Kazin, né in Amore e morte nel romanzo americano di Leslie Fiedler. E la spiegazione potrebbe essere che si tratta di due studi precedenti al fatidico 1960, anno della «riscoperta» di Roth dopo il citato quarto di secolo di oblio totale. Infatti di Call it sleep si trova finalmente traccia nella Harvard Guide to contemporary American Writing, curata da Daniel Hoffman e pubblicata nel 1979. Vi compare tre volte: tre pure e semplici citazioni - nell'ambito di considerazioni sulla «narrativa del ghetto» oppure sulla letteratura ebraica o etnica in genere - che rendono assai problematico accettare la definizione di Roth e della sua opera («uno dei culmini, perché la confluenza, di tutto il Novecento»), che nella postfazione Mario Materassi attribuisce a Romano Bilenchi.

Chiamalo sonno - in superficie tipica vicenda da ghetto etnico, ma in realtà costruzione letteraria assai ambiziosa - racconta un brandello della formazione di un bambinetto ebreo nato nel «vecchio paese» - l'Europa orientale - e arrivato a New York con la madre ai primi del secolo, ivi chiamati entrambi dal padre e marito che vi si era trasferito in precedenza. Il bambino, David Schearl, viene seguito per circa due anni, grosso modo dai sette ai nove, con tecnica che prende le mosse dal gioco proustiano della memoria (la mamma, il profumo della madeleine) e arriva fino a tentativi di sperimentalismo letterario e linguistico alla Joyce e Pound. Con esiti che di rado risultano convincenti, soprattutto sotto questo secondo profilo. La sperimentazione linguistica - fatta come è di rime interne e ritmi, assonanze e dissonanze, sfumature e commistioni, torsioni e corruzioni - risulta assai difficile da giudicare tradotta. Ma anche la vicenda narrata da Roth si solleva raramente dalla generale pesantezza con cui procede. I casi del bambino David vengono scanditi in quattro grandi capitoli, centrati sulla madre e quindi sul rapporto edipico, su una zia grassa e rumorosa e quindi sui guai di famiglia, sulla frequentazione del cheder (la scuola elementare ebraica) e quindi sui rapporti con il«popolo di Israele» e la tradizione, sull'amicizia con un ragazzo goy (non ebreo) e quindi sul risveglio nel protagonista della coscienza della propria «diversità» culturale ed etnica, di cui tutto il resto - madre, famiglia, tradizione - è permeato.

Un «romanzo di formazione», dunque, che dovrebbe attingere all'epico e al tragico - il romanzo di un «popolo» attraverso un suo «germoglio», colto nel momento topico del passaggio dal «vecchio mondo» e dalla vecchia cultura (europei orientali, di lingua yiddish) a quelli di un Mondo in tutti i sensi Nuovo - ma che di epico e tragico non ha nulla. Mai, nemmeno per poche righe, nemmeno nello sfondo più remoto e lasciato nell'oscura ambiguità, vi si agitano gli spettri della Storia e del Mito. Eppure grandi erano gli Eventi e i Rivolgimenti in corso o in preparazione in quegli anni, straordinario il retaggio di Miti dell'ebraismo. No, sull'altare di uno psicologismo piuttosto frettoloso tutto si risolve in vicenda banalmente privata: meschini eventi di caseggiato o al massimo quartiere, piccoli amici e giochi infantili, filastrocche, disorganici accenni a una cultura ebraica puramente formale, un padre che si vorrebbe «terribilissimo», alla Michelangelo, e che invece risulta soltanto stucchevomente isterico e manesco, una madre che si ambirebbe proustiana (o magari canettiana) e che invece non si leva sopra a un indistinto chiacchiericcio sentimentale postromantico, e così via.
Anche la tragedia dell'onore che sembra finalmente abbattersi, provocando la frantumazione del nucleo famigliare del protagonista e addirittura una sua morte orrenda, si derubrica a litigio tra marito e moglie, a fattaccio di caseggiato, a evento su cui ricamare il giorno dopo nelle botteghe del quartiere: il papà e la mamma fanno la pace, il sospetto di un lontano tradimento carnale - nel vecchio paese, addirittura con un giovane goy! - viene messo da parte. David, fuggito, rischia di bruciare vivo, ma torna a casa in braccio a una guardia, assistito da un medico. Tutto si conclude nel divertente spettegolare yiddish dei vicini accorsi. Non molto, per cinquecento pagine di un romanzo che si vuole ritenere un capolavoro.

Henry Roth, Chiamalo sonno, Garzanti

(Il giornale, 27 luglio 1986)

II.

Scrive Isaac B. Singer nel suo romanzo postumo Meshugge, ancora inedito in Italia: «Dio è un romanziere, e il mondo è il suo romanzo». È un concetto che ne propone specularmente un altro: che lo scrittore, quando si accinge a scrivere un romanzo, più o meno coscientemente ritiene di levare una sfida a Dio, di porsi come creatore di un mondo "altro" rispetto a quello già Creato. Peccato di immodestia di cui tutti i romanzieri, chi più chi meno, si rendono responsabili. Ve ne sono certi che al centro esatto di tale universo ri-creato, quale imprescindibile punto di riferimento, quale unico faro, pongono se stessi, la propria visione del mondo. Tutto ciò che avviene nei loro romanzi non si impernia tanto sull'invenzione quanto su ciò che essi hanno effettivamente vissuto, anno per anno, giorno per giorno, minuto per minuto. Tale è lo strenuo approccio di Henry Roth alla narrazione. Lo era per il primo romanzo, pubblicato sessant'anni or sono (Chiamalo sonno), lo è in misura forse ancora maggiore per il secondo, apparso in questi giorni in Italia con il titolo Una stella sulla collina del parco di Monte Morris come prima parte di una sterminata opera in fieri, complessivamente intitolata Alla mercé di una brutale corrente. Il bambino di Chiamalo sonno cambia nome, si chiama Ira Stigman e non più David Schearl, ma è sempre lui, un piccolo figlio di ebrei arrivato a Manhattan dalla lontana Europa di cultura östjudisch e lingua yiddish, e lì impegnato (a cavallo del 1915) nella complicata impresa di diventare uomo. Si sbuccia i ginocchi, si picchia con gli amici-nemici non ebrei, dice qualche bugia, studia con profitto alterno, affronta il primo, umile lavoro. Come il piccolo Schearl ha dolorosi scontri con un padre manesco, come lui ama la bella e inquieta madre con un attaccamento che rischia di connotarsi di incesto. Corre i rischi che corrono più o meno tutti i pre-adolescenti. Eccetera. Nel frattempo, parallelo al "suo" si muove il mondo "vero", scorre un intero universo di cultura e storia in vertiginosa evoluzione, ma il lettore non se ne accorge mai. C'è la guerra (la Grande), con il suo tremendo fardello di distruzione e morte, ma la cosa riguarda il ragazzino Ira soltanto perché deve andarci suo zio Moe. Ci sono le Evoluzioni e le Rivoluzioni (tutti sanno quante e quanto gravi). Ma nessuno lo nota. La più grave tragedia di tutto il libro sembra essere un profondo taglio che Ira si fa a un pollice. Si vedrà più avanti, nel corso delle parti ancora da pubblicare, quando presumibilmente Ira si farà uomo. Per il momento si può soltanto considerare che con ben diversa partecipazione guarda il multicolore popolino del Lower East Side e degli altri quartieri ebraici di New York (con tutti i suoi vitalissimi tormenti, quotidiani e secolari) il citato I. B. Singer. Quanto alla formazione di un fanciullo östjudisch in America (con turbamenti di varia natura, conflitti con la tradizione ebraica, scontri con il padre), sembra obbligatorio il confronto un altro Roth: Philip.

Henry Roth, Una stella sulla collina del parco di Monte Morris, Garzanti

(Letture)

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