Scrive di: Shemuel Joseph Agnon
E il torto diventerà diritto (1979)
E il torto diventerà diritto (1979)
© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)
Il grande iceberg della letteratura östjudisch o ebraico orientale, la cui massa emersa più cospicua o nota è in questo momento rappresentata dalla monumentale opera di Isaac B. Singer, nonché dal versante malinconico-ebraico dell'opera di Joseph Roth, proprio in conseguenza del Nobel assegnato l’anno scorso a Singer pare che tenda a sollevarsi sul mare dell’interesse limitato e ristretto per consolidarsi e far emergere sue nuove parti e cioè altri suoi autori. Così Bompiani ripesca dal proprio catalogo (facendola precedere da una nuova, sapiente prefazione di Guido Lopez), E il torto diventerà diritto, straordinaria operina di Shemuel Joseph Agnon (pseudonimo di S.J. Czaczkes, 1888-1970), anch’egli insignito del Nobel nel 1966. Storia galiziana per eccellenza, immersa a fondo nello spirito dell’ortodossia ebraico-orientale, di taglio eminentemente chassidico, E il torto diventerà diritto racconta le povere vicende di Menasceh Hajm Ha-Cohen, uomo pio ma ingenuo, onesto ma incapace, che lascia il villaggio di Buczacz, dove con la moglie gestiva un fiorente commercio di alimentari, per cercare la fortuna nel minuscolo mondo degli stetlach, cioè dei villaggi ebraici, perché pare che la suddetta fortuna abbia all’improvviso (certo per volontà del Signore) voltato le spalle alla pia coppia di sposi, gettandoli nell'angustia totale.
Ma Menasceh Hajm non è uomo abile, alla sua fede nelle cose dell’aldilà non si accompagna un'uguale capacità di affrontare quelle di questo mondo: dunque finirà male, tristissimamente, privo a un certo punto persino della propria identità e del proprio nome, che solo la bontà di un suo fratello in Israele, becchino, gli renderà seppellendolo nella sua tomba, che come la moglie gli era stata usurpata da un altro. Dunque, ancora una volta, un «incapace» (nella particolarissima accezione dell ebraismo, che in questa figura letteraria riassume tutto il proprio dramma di esilio e separatezza in questo mondo), uno shlemiel che si inserisce nella lunghissima tradizione letteraria che porta dal personaggio di Tevijé, il lattaio di Shalom Aleichem, fino (per fare solo qualche esempio) ai Gimpel e Shlemiel di I.B. Singer, attraverso il Giobbe di Roth e Yoshe il tonto di Israel Joschua Singer, fratello maggiore e maestro di Isaac Bashevis (in Yoshe Kalb, forse il più straordinario dei libri cui rimanda questa recensione, pubblicato da Longanesi ma purtroppo difficilmente reperibile). E giù, giù, fino ai personaggi di Charlie Chaplin e Woody Alien, per non parlare di Saul Bellow.
Libro dunque perfettamente inserito nella tradizione ebraico-yiddish-ameryiddish, dalla quale si discosta tuttavia per un particolare del tutto rilevante: la scelta della lingua, e cioè l’ebraico, la lingua della Legge, dei dotti, la lingua colta. Lingua allora «morta» (nel 1912), ma risuscitata all’atto della costituzione dello Stato d'Israele, al contrario dello yiddish di Singer o dei grandi Mendele, Peretz, Shalom Aleichem, lingua vivissima fino all’Olocausto e ora morente. Scelta colta, dunque: letteraria ma al tempo stesso ideologica e politica, dalla quale discende un particolare spessore «letterario» del testo, straordinariamente reso (così credo) dalla traduzione di Dante Lattes, che risale a più di cinquant’anni fa (il racconto apparve nel ‘27 sulla «Rassegna mensile di Israel»), ma conserva intatta ancora oggi la sua freschezza e luminosità.
Dunque, anche nel nostro mercato delle lettere pare che la narrativa della tradizione ebraico-orientale vada acquistando un suo giusto spazio complessivo. A Bompiani va reso il merito di aver pubblicato una nuova traduzione dell'ormai introvabile Satana a Goray di I.B. Singer, romanzo non dei suoi migliori, ma fondamentale per un corretto approccio alla sua poetica, in quanto suo primo libro (1935), seguito da un lunghissimo silenzio americano prima della Famiglia Moskat (1950). Garzanti annuncia una nuova edizione dei Racconti di Chassidim curati da Martin Buber, che presumibilmente sarà meno preziosa e dunque più accessibile di quella longanesiana. A Joseph Roth ci pensa la Adelphi. Peccato, invece, che non siano più in circolazione i due splendidi libri di Israel Joschua Singer (I fratelli Ashkenazi e il citato Yoshe Kalb), e Il re degli schnorrer di Israel Zangwill, formidabile perla della comicità ebraico-sefardita, a suo tempo pubblicati dalla Longanesi.
Già oggi, comunque, si può constatare come il Premio Nobel sia riuscito a far riemergere (almeno da noi) un cumulo di tesori sommersi della letteratura di tutti i tempi.
Shemuel Joseph Agnon, E il torto diventerà diritto, Bompiani
L’Unità, 2 luglio 1979
Ma Menasceh Hajm non è uomo abile, alla sua fede nelle cose dell’aldilà non si accompagna un'uguale capacità di affrontare quelle di questo mondo: dunque finirà male, tristissimamente, privo a un certo punto persino della propria identità e del proprio nome, che solo la bontà di un suo fratello in Israele, becchino, gli renderà seppellendolo nella sua tomba, che come la moglie gli era stata usurpata da un altro. Dunque, ancora una volta, un «incapace» (nella particolarissima accezione dell ebraismo, che in questa figura letteraria riassume tutto il proprio dramma di esilio e separatezza in questo mondo), uno shlemiel che si inserisce nella lunghissima tradizione letteraria che porta dal personaggio di Tevijé, il lattaio di Shalom Aleichem, fino (per fare solo qualche esempio) ai Gimpel e Shlemiel di I.B. Singer, attraverso il Giobbe di Roth e Yoshe il tonto di Israel Joschua Singer, fratello maggiore e maestro di Isaac Bashevis (in Yoshe Kalb, forse il più straordinario dei libri cui rimanda questa recensione, pubblicato da Longanesi ma purtroppo difficilmente reperibile). E giù, giù, fino ai personaggi di Charlie Chaplin e Woody Alien, per non parlare di Saul Bellow.
Libro dunque perfettamente inserito nella tradizione ebraico-yiddish-ameryiddish, dalla quale si discosta tuttavia per un particolare del tutto rilevante: la scelta della lingua, e cioè l’ebraico, la lingua della Legge, dei dotti, la lingua colta. Lingua allora «morta» (nel 1912), ma risuscitata all’atto della costituzione dello Stato d'Israele, al contrario dello yiddish di Singer o dei grandi Mendele, Peretz, Shalom Aleichem, lingua vivissima fino all’Olocausto e ora morente. Scelta colta, dunque: letteraria ma al tempo stesso ideologica e politica, dalla quale discende un particolare spessore «letterario» del testo, straordinariamente reso (così credo) dalla traduzione di Dante Lattes, che risale a più di cinquant’anni fa (il racconto apparve nel ‘27 sulla «Rassegna mensile di Israel»), ma conserva intatta ancora oggi la sua freschezza e luminosità.
Dunque, anche nel nostro mercato delle lettere pare che la narrativa della tradizione ebraico-orientale vada acquistando un suo giusto spazio complessivo. A Bompiani va reso il merito di aver pubblicato una nuova traduzione dell'ormai introvabile Satana a Goray di I.B. Singer, romanzo non dei suoi migliori, ma fondamentale per un corretto approccio alla sua poetica, in quanto suo primo libro (1935), seguito da un lunghissimo silenzio americano prima della Famiglia Moskat (1950). Garzanti annuncia una nuova edizione dei Racconti di Chassidim curati da Martin Buber, che presumibilmente sarà meno preziosa e dunque più accessibile di quella longanesiana. A Joseph Roth ci pensa la Adelphi. Peccato, invece, che non siano più in circolazione i due splendidi libri di Israel Joschua Singer (I fratelli Ashkenazi e il citato Yoshe Kalb), e Il re degli schnorrer di Israel Zangwill, formidabile perla della comicità ebraico-sefardita, a suo tempo pubblicati dalla Longanesi.
Già oggi, comunque, si può constatare come il Premio Nobel sia riuscito a far riemergere (almeno da noi) un cumulo di tesori sommersi della letteratura di tutti i tempi.
Shemuel Joseph Agnon, E il torto diventerà diritto, Bompiani
L’Unità, 2 luglio 1979