Scrive di: Abdulrazak Gurnah - Premio Nobel 2021
1. Recensione: By the Sea (Sulla riva del mare)
2. Recensione: Paradise (Paradiso)
3. Recensione: Desertion (Il disertore)
4. Memory of Departure e Pilgrims' Way
5. Dottie
6. Admiring Silence
7. The Last Gift
8. Gravel Heart
9. Afterlives (Voci in fuga)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Recensione: By the Sea (Sulla riva del mare)

Lo “oud” o “ud” (o “agarwood”) è una fragranza di sottile intensità e fascino che deriva dall’infezione generata da un fungo in un particolare legno orientale, ampiamente usata nelle terre indocinesi e nelle viciniori arabo-persiane per aromatizzare profumi, saponi e incensi. La più preziosa, probabilmente. Entrare in un ambiente dove si lavora quel legno malato è un’esperienza notevole, che può veramente dare leggermente alla testa. A me è capitato in Vietnam centrale (Hoi An) e Malesia (Penang). Un mirabile profumo che proviene da una marcescenza.

Un scatoletta lignea contenente qualche residuo di “ud” è praticamente tutto quanto di valore riesce a portare con sé un anziano richiedente asilo che sbarca in Gran Bretagna provenendo dalla Tanzania, e più precisamente da Zanzibar, terra di antica cultura persiano-araba. Il protagonista del romanzo Sulla riva del mare del Premio Nobel Abdulrazak Gurnah, nato a Zanzibar e residente nel Regno Unito. Naturalmente alla dogana, da dove per pochissimo non viene rispedito a casa, gli viene sequestrata da un doganiere occhiuto e dotato di naso finissimo.

“Ud-al-qamari”, dice il protagonista. Anzi, precisa, “al-qimari”, come gli ha spiegato l’uomo da cui ha ricevuto quel prezioso materiale, ormai ridotto alle ultime briciole di una trascorsa condizione di vita benestante se non proprio ricca. Non “legno della luna”, quindi, ma legno dello “Khmer”, la ricchissima, potente e raffinata Cambogia dei tempi antichi, da cui a noi sono arrivate le stupefacenti rovine sepolte nella giungla. Giungla di legni davvero belli e preziosi e di gente che li sa lavorare.

L’uomo che ha portato lo “ud” era un mercante di etnia persiana, che ogni anno arrivava regolarmente a Zanzibar per i suoi commerci, portato dai “venti di musim” ovvero “commerciali” (trade winds), gli Alisei, insomma, e poi portato via dai venti altrettanto regolarmente contrari dopo il consueto intervallo di tempo. Un personaggio appena presente nel romanzo, ma destinato ad avervi un’importanza fondamentale quanto sinistra.

Il richiedente asilo si presenta all’autorità britannica con un passaporto intestato a Rajab Shaaban, e l’autorità si accorge in extremis che quell’asilo glielo deve proprio offrire, perché nella sua terra d’origine ha combinato non pochi pasticci ai tempi del cosiddetto Impero e del conseguente sfruttamento coloniale. Era potentissimo, l’Impero britannico, padrone di quasi tutto il meglio e il più grande, come il profugo ha dovuto imparare sui libri scolastici da esso impostigli, anche se con qualche esagerazione, o imprecisione, se è vero che la montagna più alta del mondo, l’Everest, chiusa com’è tra Cina e Nepal, a detto Impero non è mai appartenuta.

Ma Rajab Shaaban non è il suo vero nome, e lo spiega subito al lettore, anche se aspetterà le ultimissime pagine per chiarire come mai abbia usato proprio quello, che in realtà è il nome di un suo acre nemico, divenuto tale proprio per circostanze connesse con gli oscuri traffici del persiano, portatore della raffinata resina e di altre raffinatezze forse non altrettanto profumate ma molto cantate nelle Mille e una notte, il grande romanzo dei popoli persiano-arabi. Un libro che il presunto Mr. Shaaban ha letto con passione, come tanti altri, giù giù fino a Bartleby lo scrivano. È un uomo colto, anche se non vuole assolutamente farlo sapere.

Finge anzi di essere del tutto illetterato e di parlare soltanto pochissime parole di inglese, perché così gli è stato suggerito dal trafficante che gli ha procurato il biglietto di viaggio. Per questo l’autorità britannica, distratta ma in fondo benefica, cerca di metterlo in contatto con un un altro rifugiato dalla sua terra, perché gli faccia da interprete. Ma non ce ne sarà bisogno: Mr. Shaaban decide finalmente che ormai è al sicuro e quindi può smettere di fingere di non conoscere l’inglese.

Latif Mahmud è il nome di quest’uomo che avrebbe dovuto fargli da interprete. “Latif Mahmud, che meraviglia!” esclama Mr. Shaaban. “Lo conosce?” gli chiede l’assistente sociale, esterrefatta quanto deliziata. Oh, altro che se lo conosce. E a quel punto è lui a chiedere di incontrarlo. Così a poco a poco, dai loro ricordi, si intreccia e sviluppa la tortuosa vicenda dei due conterranei costretti all’esilio. Un po’ parenti, addirittura. Ma separati da un odio che… No, non si può raccontare altro.

Romanzo potente, Sulla riva del mare — già pubblicato in Italia e poi frettolosamente abbandonato (capita un po’ troppo spesso, signori editori!), ma per fortuna ricuperato con ottima tempistica da La Nave di Teseo — composto in un inglese terso e precisissimo: si sa, con la loro lingua i colonialisti possono giocare e sperimentare fin che vogliono, ma i colonizzati no, loro la devono conoscere e usare bene, altrimenti sono guai. Se però i primi si possono permettere escursioni nel loro gaelico o genericamente celtico d’origine, be’ allora il colonizzato Gurnah rivendica il diritto di usare il suo arabo-persiano nativo senza metterlo tra virgolette o in corsivo.

Non so quanto sia davvero emblematico delle vicende dell’attuale emigrazione — abbastanza poco, mi pare —, e d’altra parte non sembra crederlo nemmeno l’autore, al quale è perfettamente chiaro quanto al suo insediamento in un altro mondo sia stata propedeutica l’elevata condizione sociale della sua famiglia. Ma è senz’altro emblematico, e in maniera sontuosa, della straziante nostalgia delle proprie origini da cui l’emigrato sarà costretto ad essere afflitto per tutta la vita. Come lo sono i due coprotagonisti del romanzo. Hanno abbandonato Zanzibar, ma, a dispetto di fatiche vissute e pene sofferte, l’hanno nel cuore, con la sua storia, con i suoi colori, sapori e profumi.

Come quello dello “ud”, un profumo davvero affascinante, ma che, spentosi il bastoncino o il piccolo cono di incenso, si lascia dietro un certo senso di stantio, di vecchio, che fatica a dissiparsi. L’odore, forse, dell’infezione da cui esso è stato prodotto, come i due protagonisti lo sono della dissoluzione del loro vecchio mondo. Non so se fosse questa l’intenzione programmatica del bravissimo narratore, ma è quanto egli fa avvertire dal protagonista nelle ultime righe del romanzo.

Recensione: Paradise (Paradiso)

Paradiso, quarto romanzo (1994) del fino a ora quasi sconosciuto Abdulrazak Gurnah, Premio Nobel 2021, è una grande narrazione, di scrittura splendida e composizione impeccabile, seppur forse un pochino troppo articolata per non dire arzigogolata nei riferimenti colti. Vedremo.

Racconta la vicenda di Yusuf, bambino che a dodici anni viene informato da madre e padre che partirà per un bel viaggio con il misterioso “zio Aziz”, un raffinato mercante che ogni tanto compare a casa loro, in una zona imprecisata del territorio allora — prima delle Grande guerra — chiamato Tanganyka e soggetto a colonizzazione da parte dell’impero germanico. Ci metterà poco a scoprire che non è affatto partito per un viaggio di piacere, ma che il padre lo ha dovuto cedere come pegno per alcuni sconsiderati o sfortunati debiti da lui contratti con Aziz, che non è soltanto mercante ma anche usuraio e che non è affatto suo zio.

Pazienza: la vita nella bottega del mercante non è peggio di quella che era costretto a vivere con i genitori. E non è detto che un giorno il padre non riesca a ripagare i debiti. Chissà: “Abbi fiducia in Dio”, gli viene detto a ogni piè sospinto. E lui ce l’ha, anche se in maniera pigramente istintiva: nella sua povera infanzia non ha nemmeno avuto il tempo e i mezzi per frequentare la scuoletta di Corano, non lo conosce.

La vicenda ricalca, amplifica e complica quella del biblico Giuseppe, che nella versione del Corano — Sura 12 — diventa Yusuf e finisce nella casa di Aziz (nella nostra Bibbia, Putifarre), dove si crea grande fama di rettitudine finché viene concupito dalla moglie di costui, Zulekha (nella nostra Bibbia senza nome fino al primo Rinascimento). Interpreta anche i sogni, il Giuseppe della Bibbia, mentre lo Yusuf del romanzo si limita a esserne afflitto, ma in un modo che le persone che se ne accorgono trovano intrigante: è un profeta?

Il ragazzo cresce lavorando nella bottega dello zio e diventa un bel giovanetto e poi giovanotto, talmente bello che praticamente chiunque lo incontri si sente quasi costretto a concupirlo, donne e uomini allo stesso titolo, e in maniera molto esplicita. Ma lui non si concede, almeno ai maschi. È il Giuseppe cantato nella Bibbia ma anche da grandi autori come il germanico Thomas Mann, che Gurnah conosce certamente.

Divenuto ormai quasi adulto, lo “zio” sembra volergli insegnare il mestiere, quindi lo porta con sé in una grande spedizione mercantile destinata a spingersi al di là dell’immenso lago Tanganyka fino al cuore orientale del Congo. Cuore di tenebra, ne ha dedotto qualcuno, ovvero Conrad. Un viaggio verso quella zona ma al contrario: provenendo da ancora più a est invece che dall’estremo ovest del paese. Dal Pacifico (terra d’origine di Yusuf) invece che dall’Atlantico. E con tanta acqua pericolosa da navigare, e con il sanguinoso disastro finale. Ma se così fosse, dietro chi starebbe nascosto l’iconico e insostituibile “Mistah Kurtz” di Conrad? Sempre ammesso che il famoso “orrore” da Kurtz evocato sia lo stesso contro cui vanno a sbattere Yusuf, Aziz e tutta la spedizione. No.

Conrad c’è senz’altro — in definitiva Gurnah ha insegnato all’università la letteratura di origine e ambiente africani —, ma soltanto come motivo di sottofondo per questa parte: nel complesso del romanzo (come di altri dello stesso autore) io ravviso caso mai le foreste e di demoni di Soyinka. E, oltre ai vari cantari di Zulekha/Zuleika, islamici o cristiani, vi ravviso di nuovo Tomas Mann: per esempio nel livido finale che prelude alla tragedia della Grande guerra, come quello della Montagna magica.

Tornato perigliosamente a casa e a questo punto molto istruito nei casi della vita, compresi i piaceri che possono dispensare le carezze femminili, ecco che Yusuf si trova concupito da Zulekha, e non si sottrae con sufficiente forza, come la prudenza dovrebbe suggerirgli. Con lo “zio” Aziz le cose vanno come nella Bibbia e nel Corano, tutto si rappattuma, ma l’imbroglio — invero piuttosto pasticciato— risveglia definitivamente in lui l’anelito alla libertà.

Nelle ultimissime righe del romanzo sente il chiavistello della casa che si chiude dietro le sue spalle. Ne è finalmente e definitivamente fuori, può affrontare la propria libertà, che non è di sicuro quella beatamente epicurea del vecchio schiavo con cui ne ha discusso in quel giardino che è uno dei diversi possibili Paradisi in terra cui è intitolato il romanzo. Il finale è molto ambiguo: come sia destinata a materializzarsi tale libertà rimane al singolo lettore deciderlo. Gli europei “di ferro” hanno imposto la fine allo schiavismo nelle terre avviate a diventare Tanzania, recidendo alla radice quella deplorevole manifestazione dell’antica cultura persiano-araba, quindi lui non è più schiavo. E, diversamente dal giardiniere-filosofo, se ne va. Dove? Come? Non si sa.

Ma —riflessione personale, del tutto al di fuori di questo splendido romanzo — è davvero così? Davvero lo schiavismo è finito? Davvero non si usano più i bambini come pegni per i debiti dei padri? Più che lecito, ritengo doveroso dubitarne. Finché si è trattato di liberare il mondo occidentale dal fenomeno definito “schiavismo”, tutti virtuosamente d’accordo, con grande partecipazione e commozione. Quando però a Oriente qualcuno ha deciso di definirlo “servitù della gleba”, e che era arrivato il momento di combattere ed eliminare anche quella, per esempio in certe remore terre tibetane, allora no. Eh, no, no, distinguiamo, attenzione, cautela: ci sono radici culturali e religiose che vanno rispettate…

Recensione: Desertion (Il disertore)

Spero di non urtare troppe suscettibilità e di non procurarmi nuovi nemici, ma penso che tradurre con Il disertore l’originale titolo inglese Desertion del settimo romanzo (terzo in Italia) di Abdulrazak Gurnah non sia corretto. Secondo me sarebbe meglio tradurre letteralmente il titolo con Diserzione, visto che i “disertori” della vicenda sono parecchi:

1) il protagonista — personaggio in cui si specchia scopertamente l’autore —, che diserta dalle sue possibili responsabilità nella Zanzibar post colonialista per andare a studiare in Gran Bretagna (ma lui vive nel rimpianto del precedente misto di sultanato ex schiavista e protettorato britannico);
2) il marito indiano della prima donna africana abbandonata;
3) l’amante britannico della stessa donna;
4) il marito africano della seconda donna africana abbandonata;
5) l’amante africano di questa seconda donna;
6) infine, tutto sommato, lo stesso colonialismo britannico, che se ne va lasciando un paese impreparato ad autogestirsi.

Gurnah, autore di splendida scrittura, è un maestro di quello che gli strutturalisti chiamavano “ritardo”. Niente morto in prima pagina e tanto meno sparatoria ogni tre: i suoi intrecci ci mettono il loro tempo ad arrivare al primo climax — rischiando di complicare la vita al lettore impaziente — per poi, una volta raccolte le fila, procedere magistralmente (non sempre) verso la botta finale. Che per altro non c’è. Almeno nei tre romanzi usciti in Italia, gli altri devo ancora leggerli (e lo farò, perché si tratta comunque di grandi narrazioni). In Gurnah il finale è sempre sfumato, ambiguo, lasciato all’interpretazione del lettore. Ma procediamo con ordine.

Nella prima parte, fine Ottocento, una volitiva e bella donna africana di origini indiane, dopo essere stata abbandonata dal marito altrettanto indiano, eclissatosi verso il subcontinente di origine, si getta — in maniera non del tutto credibile — tra le braccia di un aspirante orientalista britannico, emerso seminudo dalla giungla dopo esservi stato abbandonato più morto che vivo dalle sue guide somale. Ma se la darà a gambe anche lui — e nessuno capisce bene perché, visto il carattere umano e gentile che il romanzo gli attribuisce —, lasciando la donna in una doppia angustia, che diventa anche alcolica e quindi tripla.

Seconda parte, circa mezzo secolo più tardi: nuova storia d’amore e abbandono. A Zanzibar la famigliola di due onesti e rispettati insegnanti vive una vita di quieto tran tran afro musulmano. La figlia maggiore sembra un po’ tonta e non se la cava a scuola, con grave disappunto dei genitori, ma si rivela concreta donna di casa e brillante sarta. I due maschi, invece, a scuola sono molto bravi, e il più giovane addirittura una piccola cima. Il quieto tran tran viene però mandato in frantumi dal folle, irresistibile, insopprimibile — ma sollecitato — amore del più grande dei due ragazzi (Amin, diciannovenne) per una donna che la famiglia non può assolutamente approvare. Divorziata, adulta, ricca, venuta da fuori, di costumi disinvolti, di famiglia chiacchieratissima. Il ragazzo, disperato ma ligio ai doveri del clan, si adegua e, sia pure con il cuore spezzato, rinuncia per sempre a incontrare l’amata, che però continua ad amare.

Interruzione e terza parte. Il figlio più giovane (Rashid, 17 anni), sulla soglia del diploma scolastico con tutti gli onori e della partenza per un’università londinese, rientrato a casa nel grave tumulto domestico provocato dalla scoperta della tresca, ne viene a sua volta a conoscenza e ci rimugina laboriosamente sopra, cercando di ricostruirla e arrivando a collegarla addirittura al primo abbandono. La giovane donna causa dello scandalo è infatti nipote della prima abbandonata (a sua volta scandalosa) — figlia africana della figlia meticcia di quest’ultima e del britannico quasi-Pinkerton —: ecco perché la sua famiglia è chiacchieratissima.

Rashid segue il proprio destino (come lo Yusuf di Paradiso) e parte per Londra, dove troverà il successo prima negli studi e poi nella professione universitaria, ma dove in definitiva la rivoluzione avvenuta nel suo paese lo relega, condannandolo a una vita di esilio e di cittadino di seconda classe. Ed è questa, la faticosa vicenda di vita del migrante esiliato, la parte di gran lunga più bella, convincente, commovente (vi compare anche un quasi coetaneo compagno di studi indiano e futuro scrittore, il pretenzioso, antipatico Sundeep, che, pur fortemente travisato, a me ricorda molto Salman Rushdie).

Il finale mi sembra un notevole pasticcio, anche in termini di scrittura. A Rashid arriva a Londra nientemeno che un libro (molto bello!) di poesie della sorella sarta ritenuta “stupida” (si fa una discreta fatica a crederci e soprattutto a capirne la funzione romanzesca), accompagnato da un’amarissima agenda di appunti del fratello rimasto in Africa e avviato alla cecità, che con le informazioni aggiuntive quasi completa il puzzle.

Lo completa quasi, perché il romanzo riserva un ultimo colpo di scena, che ovviamente è superfluo rivelare. E appare comunque mal riuscito, ad avviso di questo recensore, che rimane in ogni caso incantato dall’autore.

P. S. Tornando al titolo, la traduzione più giusta è forse Abbandono, che del resto è quella più corretta dell'originale Desertion. Si tratta infatti di persone o luoghi che vengono abbandonati. Se non fosse che in italiano l'espressione "abbandono" ha due possibili connotazioni, quella derivante da "abbandonare" e quella derivante da "abbandonarsi" (a una sensazione, a un'emozione eccetera). Quindi un simile titolo potrebbe ingenerare confusione. E io continuo a preferire Diserzione, perché in realtà sempre di "diserzione" dalle proprie responsabilità si tratta, in tutti i casi che ho elencato.

Doppia recensione: “Memory of Departure” e “Pilgrims' Way”

Gli indigeni della penisola araba, o perlomeno quelli della punta meridionale, l’Arabia Felix dei romani, patria del profumatissimo incenso, erano (sono) stupratori di bambini? È il primo pensiero che, con discreto turbamento, viene nel leggere Memory of Departure, romanzo d’esordio di Abdulrazak Gurnah. "Ricordo della partenza", ma anche "Ricordo della dipartita, della morte". È in questo modo che l’autore caratterizza la gente da cui lui stesso — di famiglia yemenita — discende. Niente di eroticamente torbido, si badi bene, ma caso mai di rabbiosamente doloroso.

Un po’ troppo, temo, per lo stomaco occidentale, che finisce con il provare un vago senso di orrore. Ma ecco che piano piano, da sfocata che era, l’immagine generale si fa via via più nitida. Proprio così: “orrore”, lo stesso “orrore” del Kurtz di Cuore di tenebra, il Conrad più volte evocato dai commentatori di Gurnah ma che non avevo colto nei suoi romanzi letti in precedenza. Invece eccolo qui l’ “orrore” nei confronti di certa Africa ancestrale.

Bambini stuprati per gioco o per violenza, venduti dagli stessi padri in pagamento dei propri debiti: un’etnia di arse-fucker, espressione strettissima parente di mother-fucker, e ciascuno le traduca come preferisce (per chi proprio non sa l’inglese, arse è “culo” e mother è “madre”: quanto all’attività di chi mette in pratica il verbo to fuck, credo che nessuno ne ignori il significato). In tal modo Gurnah sembra rappresentare il proprio popolo e giustificare la propria ansia di fuggirne lontano. Un’ansia travolgente, soffocante, che pervade tutta l’opera del premio Nobel. Romanzo difficile, Memory of Departure.

Il protagonista nasce — parte arabo e parte africano — e cresce in una sonnolenta, sordida cittadina dell’Africa Orientale, in una famiglia di estrema povertà, dominata da un padre violento e anche lui libidinoso arse-fucker (già, la parte araba del retaggio famigliare), ma si rivela molto bravo a scuola, al punto da conseguire un magnifico diploma che gli consentirebbe di frequentare un’università. Se… se la famiglia avesse i mezzi. Ed ecco la prima stranezza: la madre, fino a quel punto dipinta come una povera africana illetterata, senza arte né parte, venuta dall’interno selvaggio, praticamente comperata e succube del violento marito, ha un fratello che invece è diventato molto ricco a Nairobi e ha con lei un antico debito di eredità. Deve essere questo zio a fornire il denaro necessario.

Il ragazzo parte in treno per Nairobi, dove avrà un’esperienza assolutamente non credibile nella pacchianissima casa dello zio ricco, vivendovi un mese da giovane navigato e blasé, in una guisa del tutto incompatibile con le sue umili e provincialissime origini. Il fratello della madre non ha mai avuto in realtà nessunissima intenzione di aiutarlo, e non appena scopre che lui si è innamorato, riamato, dalla figlia, lo butta fuori di casa senza pensarci neanche un attimo. Il ragazzo d’altra parte ha capito fin dall’inizio la situazione e mai accetterebbe l’umiliante aiuto del parente, quindi riprende il treno e se ne torna nell’umile casa paterna, accettando il proprio destino di poveraccio, destinato al più a una carriera di insegnante locale, certamente non a una carriera universitaria.

Ma il suo intimo si ribella, deve a tutti i costi andarsene da quella terra di arse-fucker, oltre a tutto in procinto di essere dilaniata da una rivoluzione che avrà come primo obiettivo di sangue proprio gli ex sfruttatori, gli schiavisti arabi. E pur di farlo si imbarca come inserviente medico su una lurida carretta che fa la spola con l’India (di nuovo Conrad?). In navigazione scrive una lettera all’amata. Il finale è come sempre aperto, che cosa ne sarà del ragazzo non si sa, decida il lettore: è soltanto chiaro che con il suo gesto egli si è avviato in maniera ineluttabile sull’incerta Via del Futuro.

Romanzo non ben riuscito e anche strutturalmente mal congegnato — cose per altro del tutto accettabili per un’opera d’esordio —, né appare sufficiente a riscattarlo la pur notevole cifra stilistica: insomma, non sembrerebbe preludere a un futuro luminoso. E invece prelude all’immediato secondo: Pilgrims' Way. L’incerta Via del Futuro del giovanissimo arabo africano diventa l’ineluttabile Via dei Pellegrini. E c’è differenza.

Il “Pilgrims' Way” è una specie della nostra Via Francigena, o del Cammino di Santiago: il percorso che porta alla tomba dell’arcivescovo di Canterbury, il venerato santo e martire Thomas Becket, fatto assassinare da Enrico II. A essa, come a Canterbury in sé e in definitiva all’Inghilterra nel suo complesso e in fondo alla stessa età adulta si può arrivare da ottuso turista involontario, in mezzo alla calca eterodiretta, o da appassionato pellegrino, padrone delle proprie scelte. Su questo percorso di vita scopre di essere avviato il protagonista del romanzo, non lo stesso ragazzo partito dalla costa dell’Africa orientale ma un altro a lui del tutto simile, che come lui lavora da inserviente medico. Non su una carretta dei mari ma nelle turbolente onde di un ospedale britannico (vera esperienza di Gurnah? sembra raccontarla con molta precisione). Romanzo bello, di potente fattualità, di intensa comicità dove necessario e di straziante tragicità dove la vicenda comanda.

Daud (Davide, il fromboliere capace di abbattere Golia, quindi il prepotente colonialista) è arrivato in Inghilterra e finito a Canterbury dalla Tanzania grazie ai miseri risparmi della famiglia. Vi è venuto per studiare — evento cruciale nella vita stessa dell’autore — ma è finito a fare lo “spazza-pavimenti” se non addirittura “spazza-cessi” in un ospedale. Vive in una casa fatiscente una vita miserabile, fatta di sveltine con ragazze facili di pelle bianca e di rapporti di violenza poco meno che tribale con un altro giovane africano, anche lui mandato lì per studiare. Ma dalla Liberia, ma da una famiglia di mezzi. Diversamente da Daud ha avuto successo negli studi, questo amico, e se ne va per tornare nel suo paese a occupare una posizione di prestigio. Sorte che a Daud appare se non vietata per lo meno inattingibile.

Al fondo si disprezza per il proprio fallimento, provando un forte sentimento di vergogna nei confronti della famiglia che per lui ha affrontato tutti quei sacrifici e da cui si è praticamente estraniato, ma al contempo vive una vita di inane rivolta nei confronti del bianco. Certo, gli danno da vivere, ma una vita da miserabile esiliato, e intanto lo irridono, umiliano, maltrattano, minacciano, se possibile lo picchiano. Lui si vendica tifando sfrenatamente, stravaccato davanti alla tv, contro l’Inghilterra nelle partite internazionali di cricket.

La sua vita sembra avviata a cambiare registro quando incontra una giovane e bella infermiera inglese: se ne innamora e combatte strenuamente per vincere le di lei incertezze e conquistarla. Vengono minacciati e irrisi in coppia per il loro presunto mal assortimento. Lei, allibita, subisce addirittura un tentativo di stupro perché vista convivere con un wog — espressione persino più violenta di “negro” e rivolta a tutti gli immigrati di colore —; lui subisce una nuova aggressione, selvaggiamente picchiato in presenza della donna.

Ma la visita che finalmente fa con lei alla Cattedrale di Canterbury, con tutti i suoi segni di Grande Storia, accende in lui una nuova luce: è arrivato alla vita adulta da ottuso turista involontario, centrifugato tra la calca, ma ha capito che si può farlo da pellegrino appassionato, padrone delle proprie scelte.

Recensione: Dottie

Abdulrazak Gurnah, tanzaniano — o meglio zanzibarino — emigrato nel Regno Unito, è considerato il cantore dell’amara sorte dei migranti. Non però, è opportuno precisare, di quella terribile dei migranti attuali — generati dallo spietato sfruttamento neocolonialista economico a cavallo dei secoli XX e XXI —, ma piuttosto di quelli provocati dalla decomposizione tra Prima e Seconda guerra mondiale del colonialismo britannico, con i suoi contraddittori atteggiamenti — a seconda dei governi o degli umori popolari — di avaro accoglimento e spietato respingimento. A vivere il problema sono i suoi romanzeschi personaggi, in genere di sesso maschile (e abbastanza scopertamente autobiografici), migrati in Inghilterra dalle loro terre d’origine.

La protagonista di Dottie, invece, è una giovane donna. E non proviene dai territori d’oltremare ma è nata nel Regno unito. “Coloured”, però, “wog”, e chi peggio ne ha peggio ne metta, figlia di una sciagurata donna fuggita ragazza ai genitori di severe origini pachistano-musulmane e convertita a un confuso cristianesimo, che l’ha fatta battezzare come Dottie Badoura Fatma Balfour. La donna ha assunto il cognome Balfour, proprio, come Lord Balfour, quello della Dichiarazione che nel 1917 affermava il sostegno del Regno Unito alla costituzione di un “focolare domestico” per il popolo ebraico in Palestina. A spese del popolo ottomano allora lì residente, in parte cristiano (si tende sempre a ignorarlo) ma soprattutto musulmano, quindi un nemico giurato dei musulmani, e di conseguenza del padre-padrone pathan, da cui la poveretta è fuggita soltanto per precipitare in un inarrestabile abisso di abiezione e prostituzione. Per uomini “di colore”, ovviamente, con il corollario di tre infelici figli “neri” di altrettanti padri ignoti. Dottie, appunto, la parzialmente ritardata Sophie e il ribelle Hudson.

Bel pasticcio di nomi e religioni, povera Dottie: in parte cristiana britannica “dotty” (tocca, picchiatella), in parte sciita persiana da Mille e una notte (la principessa Badoura), in parte addirittura figlia di Maometto (Fatma, ma forse si tratta della portoghese, cristiana Fatima…). Badoura: ah, la bellissima principessa cinese, e il suo incontro con il bellissimo amato nell’ultra sensuale, torbida lettura cinematografica di Pasolini (1974): chissà se il giovane Abdulrazak, arrivato da pochi anni in Europa e forse ancora studente a Canterbury ha visto il film…

L’ “orrore” africano mediato da Conrad che si legge in Memory of Departure ricompare qui in forma di “orrore” britannico: disperazione, malattia, sangue, fetore, feci, morte (della sventurata madre). E il viaggio conradiano a ritroso dal cuore dell’Africa ricompare a sua volta nel racconto di un (non poco confuso) giornalista di colore che appare alla fine del romanzo e che lo ha materialmente compiuto in Congo sfuggendo quasi per miracolo alla morte. Conrad però, pur testualmente citato, si limita a comparire sullo sfondo: ripeto, qui si tratta di orrore britannico, discende da Dickens.

Il Dickens di David Copperfield, romanzo che la diciassettenne Dottie, rimasta orfana e in carico dei due fratelli minori, riesce a leggere soltanto in una versione ridotta per ragazzi, e si porta dietro per tutta la vita (almeno nel suo romanzo) come vertice culturale da attingere.

Ai tre orfani lasciati su questa terra provvede l’assistenza pubblica dei laburisti: alla saggia, volitiva Dottie viene trovato un lavoro, Sophie finisce in un collegio, il quattordicenne Hudson è affidato a una generosa famiglia di Dover (come David…) Soluzione per Dottie inaccettabile: padri mai conosciuti e madre morta, quindi lei è la capofamiglia, spetta a lei far crescere i fratelli minori, li vuole con sé e purtroppo ci riesce. Purtroppo soprattutto per il giovane Hudson, che nella famiglia adottiva si trovava bene e non si riavrà più dallo shock di esserle sottratto dalla volitiva ma in fondo avventata sorella. Farà una brutta fine, povero ragazzo: teppista, drogato, prostituto, finisce annegato nientemeno che nel newyorkese fiume che gli ha dato il nome attraverso il padre mai veramente conosciuto, militare nero americano stanziato in Inghilterra. Quanto Dickens, tra le righe…

Ma Dottie è assennata: se Dickens è per lei difficile da leggere, non altrettanto lo è Jane Austen, “autrice di storie romantiche”. In lei sobbolle una quantità adeguata di “sensualità” (da donna coloured?), ma tenuta molto bene sotto controllo dal britannico “buon senso”. E alle solide, sagge eroine di Jane Austen si ispira caso mai la sua vita. Durissima ma alla fine dall’esito fortunato. Persino un po’ troppo, viene da pensare. Sebbene piuttosto lento, il romanzo procede molto bene fino a tre quarti. Dopo di che, come spesso succede in Gurnah, il finale non appare pienamente credibile, e al contrario convoluto e confuso.

Recensione: Admiring Silence

Il narratore crea il suo mondo, ne è il signore. Non il mondo in cui vive la sua faticosa ragnatela quotidiana di relazioni, sia ben chiaro, ma il mondo delle sue narrazioni. Un mondo che materialmente non c’è, eppure c’è. Le vicende che sviluppa sulla sua pagina non esistono nella realtà che lo circonda (ovvero, meglio: sarebbe proprio opportuno che non esistessero affatto, o il meno possibile, dato il sempre sotteso rischio di esalare un eccessivo sentorino di autobiografico), eppure dalla pagina balzano fuori, appaiono perfettamente compiute nella realtà fittizia (fiction) da lui inventata, creata, una realtà parallela a quella che lo circonda, che per converso ne viene arricchita o perlomeno resa più complessa. Abdulrazak Gurnah, narratore di potente caratura, lo sa bene e lo pratica con mano sicura.

Cruciale per il suo mondo reale, per la sua vita personale, è stata una serie di eventi occorsi durante la sua adolescenza: la fine del protettorato britannico (colonialismo?) sulla sua terra natale (Zanzibar), la serie di rivoluzioni subito seguite, che hanno portato prima al rovesciamento del potere detenuto dai sultani arabi venuti dall’Oman (resi ricchi in epoche non lontane dal commercio degli schiavi “negri”), poi alla sanguinosa rivoluzione socialista, poi ancora all’unione di Zanzibar con il Tanganica a formare la Tanzania. Un tumultuoso susseguirsi di eventi che ha visto i zanzibarini originari dell’Oman passare dalla posizione di borghesia dominante (e oppressiva per i neri africani già schiavi e poi ex schiavi) a quella di classe subalterna, odiata, repressa, espulsa se non peggio. Come minimo mortificata, senz’altro immiserita.

In conseguenza di tutto ciò il giovanissimo Gurnah ha dovuto di persona scegliere l’emigrazione, una vita da esiliato nel Regno Unito. Vita da discreto benestante, di buon successo, al punto da divenire docente in un’università e rispettato scrittore, ma sempre sentendosi impastoiato in una condizione di cittadino britannico di seconda serie. Ne fa la sua materia centrale di narrazione e lo racconta anche nel romanzo qui recensito, Admiring silence. Ma il narratore Gurnah è padrone del mondo che crea, lo piega di volta in volta alle proprie esigenze narrative, plasmando di conseguenza i personaggi che via via appaiono e riappaiono qua e là sotto spoglie sempre diverse, addirittura sdoppiandosi e diventando qualcos’altro. Si assomigliano, come le loro vicende, ma non sono gli stessi. Il vero narratore può questo e altro. Gurnah sa bene che persino i suoi personaggi possono creare loro realtà fittizie, parallele, come fa l’innominato protagonista di questo romanzo.

Nelle sue storie c’è la madre, sempre in angustie ma sempre attaccatissima al figlio (se del caso sostituito dal fratello più piccolo) e sofferente per la sua assenza. C’è il padre, che però non è sempre un vero padre, ma piuttosto uno zio che provvede (come qui). C’è questo zio, a volte pronto ad aiutare, altre volte squallidamente egoista. Ci sono fratelli, sorelle, amatissimi amici, rispettati maestri, personaggi di pericolosa ambiguità politica o addirittura sessuale. Ci sono la lingua swahili e i brandelli di arabo e persiano, il mare e i colori di Zanzibar, le piante e i frutti esotici, i cibi speziati. Insomma, il mondo dell’Africa Orientale.

Bel romanzo, Admiring Silence, e parecchio diverso dai precedenti (a parte qualche scena e personaggio che sembra discendere pari pari da Pilgrims’ Way), brillantemente giocato su eleganti toni di ironia e understatement britannici. Niente “orrore”, a Conrad e compagni subentrano citazioni di grandi poeti: Elliot di sicuro, e mi sembra di ricordare anche Blake. Il protagonista è arrivato in Inghilterra da adolescente, aiutato dallo zio benestante (ben diverso da quello di Memory of Departure, ma parente stretto di quello di Paradiso), si è fatto strada negli studi, ha trovato una coetanea inglese da amare riamato (di nuovo Pilgrims’ Way), e da lei ha avuto una figlia. È diventato insegnante in una scuola secondaria.

Con la donna non ha messo su una famiglia in senso tradizionale perché lei è rigorosamente anticonformista (infatti si è messa con un “nero"…), ma vivono una ventina di anni in perfetto accordo. Lui ha imparato a sopportare con britannica ironia l’educato fastidio della famiglia di lei di fronte alla sua “colorata” e del tutto inattesa presenza. Ci scherza sopra in pezzi di brillante umorismo. Sa che a certe battute o prepotenze è meglio contrapporre un ipocrita e finto “silenzio carico di ammirazione”: Admiring Silence.

Per fuggire da Zanzibar ha dovuto letteralmente fare carte false, quindi per il suo paese è un criminale più che un transfuga, non ci può tornare. Intrattiene rapporti epistolari con i famigliari, ma non si sente di rivelare la sua relazione di coppia, che ai loro occhi di pii musulmani apparirebbe doppiamente scandalosa: anzitutto per il miscuglio di sangue (non sono razzisti soltanto i bianchi…) e poi in quanto non consacrata da un vincolo ufficiale. (Del resto anche nei racconti alla compagna inglese ha fatto un po’ il gioco delle tre tavolette tra padre e zio.) Ma dopo un quarto di secolo e svariati, più o meno sanguinosi cambiamenti di governo, nel suo paese interviene un’amnistia che gli consente di tornare a rivedere patria, madre e famiglia. Esita, ha paura di ciò che troverà, ma alla fine ci va.

Sì, la realtà che trova a Zanzibar è profondamente cambiata, tutto è andato a rotoli, non funziona più niente. Una cosa però è rimasta tale e quale, ovvero il medievale bigottismo della sua famiglia: vogliono che sposi una casta figlia di musulmani locali e anzi gliel’hanno già procurata. Lui continua a non trovare il coraggio di spiegare la propria situazione di marito e padre, e non sa come togliersi dall’impaccio. Intanto si arrovella e indigna nel vedere il terribile malfunzionamento di ciò che prima sembrava funzionare così bene.

“Funzionava?” non può fare a meno di chiedersi il lettore. (Tanto più se è un vecchio appassionato terzomondista e anticolonialista come questo recensore. Davvero il tanzaniano Julius Nyerere merita tanto scherno e disprezzo?) Be’, certo, ai tempi le cose funzionavano senz’altro per la borghesia dominante venuta dalla penisola araba — e ancora meglio per i suoi “alleati” o meglio “protettori” colonialisti venuti dall’Europa —, ma per gli altri? Quelli trattati per secoli come carne a peso, venduti e sbatacchiati per il mondo come schiavi? Per la verità Gurnah non sembra porsi più di tanto il problema, e certo nutre una fervida nostalgia per il passato suo e della sua etnia, ma nutriamo tutti un profondo rimpianto per i nostri anni adolescenti. Sia come sia, tornando al protagonista del romanzo e a Zanzibar, a comandare al suo ritorno sono gli altri, gli ex schiavi.

Riesce, il protagonista professore in esilio britannico, a liberarsi dai tentacoli famigliari e nazionalistici che a un certo punto sembrano serrarlo in una morsa ineluttabile? Pessima opera farebbe il recensore che lo spiegasse: l’autore preferisce di sicuro che sia il lettore a girare nervosamente le pagine per scoprirlo. Questo recensore può soltanto dire che anche in questo brillante romanzo Gurnah sembra fare una certa fatica a concludere la storia, affastellando ulteriori colpi e colpetti di scena non proprio forse indispensabili. Un signor romanzo, comunque.

Recensione: The Last Gift

La narrativa di A. Gurnah si sviluppa con un procedimento che mi piacerebbe definire “a cannocchiale”, se la figura non fosse inadeguata. Il “cannocchiale”, infatti, procede, “si allunga”, emergendo da se stesso e limitandosi a ingrandire, a chiarire l’immagine inquadrata, non la modifica. Nella sua invenzione narrativa (fiction), invece, Gurnah procede in un modo che voglio definire “a fico d’India”, e non si pensi a un gioco di parole o a una mancanza di rispetto. Tutt’altro, Dio ne scampi: massimo rispetto e autentica ammirazione per il suo uso della lingua e la sua capacità di articolare il racconto.

Si pensi piuttosto a com’è fatto un “fico d’India”, con le sue carnosissime foglie. Esse non procedono in maniera lineare dal fusto o nucleo centrale, o lo si chiami come si vuole: ciascuna foglia può produrne un’altra, che poi ne produce linearmente una successiva e così via, oppure può produrne diverse quasi contemporaneamente dal proprio perimetro esterno o anche dalla superficie interna, le quali ulteriori foglie procedono poi a loro volta secondo il ghiribizzo genetico.

Una narrativa “a cannocchiale” prevede almeno un nucleo di personaggi fissi (anche uno soltanto, il protagonista), che passano da una storia alla o alle successive (momenti storici, fasi di una famiglia, diverse età dei personaggi): un Lucien de Rubempré, un Rastignac. In una narrativa “a fico d’India”, invece, dal nucleo centrale si dipartono anche in parallelo vicende che si assomigliano, che potrebbero essere uno sviluppo della precedente ma anche no, limitandosi a esserne una possibile variante, a derivarne qualche situazione, atmosfera, personaggio, nome. Come per esempio succede in The Last Gift, ottavo romanzo di Gurnah in ordine di pubblicazione.

Nel settimo, Admiring silence, appare infatti, più che la realtà, l’ombra di un nome: Abbas. Forse uno zio, forse il padre stesso del protagonista. Fuggito ancora adolescente dal letto matrimoniale per misteriosi motivi e mai più veramente trovato. Forse imbarcato clandestino su una carretta da carico e finito chissà dove. Forse in Germania, forse in Inghilterra. Suo figlio, il protagonista del romanzo — non lo saprà mai, per quanto cerchi e si arrovelli. E con lui non lo saprà il lettore.

Ecco però che nella “foglia di fico d’India” staccatasi dal nucleo centrale in apparente indipendenza dall’altra — sempre lo stesso nucleo, le turbolente vicende di Zanzibar con corollario di una fuga obbligata —, nell’ottavo romanzo, The Last Gift, domina un protagonista che si chiama appunto Abbas. Lo stesso Abbas del romanzo precedente? Quasi sicuramente no. Anche lui, poco più che adolescente, è scappato dal letto matrimoniale combinatogli dalla famiglia, ma, veniamo a scoprire, per la vergogna di un presunto tradimento, che in Admiring Silence non appare nemmeno adombrato. Un tradimento che l’ha spinto a scappare il più lontano possibile, imbarcandosi da clandestino… ma fermiamoci qui. Sia il lettore a districare lo sviluppo della vicenda, che è stata scritta con grande abilità compositiva perché sia lui ad arrivarci di persona senza farsela imbandire da un pedante recensore.

Dopo una quindicina di anni vissuti da nomade marinaio negli oceani, Abbas si stanzia finalmente in Gran Bretagna, fermatovi dall’amore per la giovanissima donna — una ex trovatella, Maryam — che sposerà e con cui vivrà fino alla fine della vita. Sempre nascondendo nell’intimo il penoso segreto di quella fuga, che fa di lui, fra le tante cose, un bigamo fuggito da un primo letto nuziale. Come Maryam riflette con orrore quando viene a scoprirlo. A parte la legge britannica, Abbas è musulmano, se volesse potrebbe avere fino a quattro mogli, ma lei è confusamente cristiana, battezzata con quello strano nome di Maryam.

Nome cristiano? No, caso mai Maria. Nome arabo? Forse. Ma forse anche ebraico. Sarebbe piuttosto Miryam, ma non si sa mai: una migrante ebrea polacca messa nei guai da un altrettanto migrante di pelle scura? Maryam è appunto scura di pelle, ma delle proprie origini non ha mai scoperto niente. Arriverà soltanto nell’estremo finale ad avere una vaga indicazione. Che questo recensore è incline a sospettare possa generare un’altra delle sue “foglie di fico d’India”, chissà. Vedremo nei romanzi successivi.

L’orrore africano di Conrad e soci è ormai alle spalle, se non altro di Abbas: Maryam è nata e cresciuta in Gran Bretagna, non ne sa niente. È ormai superato anche quello conseguente alla migrazione, o perlomeno Abbas se n’è fatto una ragione. A Conrad & Co. — e persino a Blake — si sostituisce la grande poesia di lingua inglese, Wordsworth, Keats. Ben integrato, Abbas è un rispettato tecnico di una fabbrica di componenti elettronici. E i due figli che ha avuto da Maryam sono arrivati brillantemente alla laurea: lei è insegnante media, lui studioso di storia appunto delle migrazioni (ma, se non si tratta di un ennesimo colpo di genio a livello redazionale, sembra confondere gli zayidi musulmani dello Yemen con gli yazidi “adoratori del diavolo” del Kurdistan).

I due giovani sono “darkie”, di pelle scura, quindi hanno ancora qualche problemino, ma niente di vitale importanza, non più sassate o botte, al massimo qualche sguardo che potrebbe essere equivocato, sebbene magari scoccato dai potenziali parenti di sangue britannicamente puro. Vivono ormai in un crogiolo di migranti di seconda e anche terza generazione. E non soltanto con origini africane, indiane o caraibiche: tanti dago, ovvero scuretti spagnoli, portoghesi o italiani, persino pallidissimi europei centro orientali.

Non sanno però quasi niente delle loro origini. Da dov’è venuto il padre, con i suoi cupi, misteriosi silenzi? E la madre trovatella? Arriveranno molto vicini alla soluzione del doppio enigma in conseguenza dell’ultimo dono (The Last Gift) lasciato loro dal padre alla morte prematura, seguita a una serie di infarti. Una registrazione in cui il morente Abbas ha inciso con voce sicura vicenda e motivi della sua fuga da Zanzibar.

Recensione: Gravel Heart

“Inadatto alla vita e alla morte, cuore di pietra!Gravel Heart, nono romanzo di A. Gurnah, prende il titolo da un’invettiva di Misura per misura, Atto IV Scena III. E non soltanto il titolo, ma l’intera ossatura. Grandi classici, dunque: Shakespeare dopo il Thomas Mann del Giuseppe-Yusuf (senza fratelli) che abbiamo visto in Paradiso, probabilmente l’esito più alto del premio Nobel, a cui il romanzo recensito qui non è pari. Scrittura impeccabile, certo, e vicenda sapientemente costruita, con tutte le cose al loro posto giusto, ma un’opera che comincia a esibire qualche grinza: una bella signora che dimostra tutta la sua età, più esperienza e belletto che freschezza e fascino.

Continuando con la figura retorica del “fico d’India”, una “foglia” che non è generata da un’altra — portando avanti la vicenda autentica o possibile di un personaggio già incontrato —, ma che procede direttamente dal fusto, dal nucleo dell’ispirazione di Gurnah. Quasi tutto ciò che capita al protagonista Salim, se non tutto, l’abbiamo già visto nei romanzi precedenti, in un quadro generale fatto dal solito misto di povera ma colorita Zanzibar (pre e post rivoluzione) e di ricca ma cupa Inghilterra dei migranti. Così rivediamo un giovanissimo sposo che fugge dal talamo nuziale, anche se, in questo caso, non per motivi misteriosi e nemmeno per un sospetto di tradimento, ma per un tradimento vero e proprio, per altro sempre noto a tutti gli interessati. Con lui una moglie fedifraga di fatto e non soltanto nel sospetto. E un figlio — questa volta non della colpa — che finisce a studiare in Inghilterra, sebbene non inviatovi in maniera avventurosa e tortuosa ma chiamatovi da uno zio che, “cuore di pietra”, abile nel servirsi della rivoluzione più che nel servirla, sta scalando con ottimo successo la carriera diplomatica.

L’adolescente è assennato e sa lavorare sodo, come tutti gli autobiografici adolescenti di Gurnah: lo zio lo vorrebbe laureato in scienze economiche ma lui sente un’attrazione irresistibile verso la letteratura. Era uno zio che assomigliava a quello benefico di Paradiso, e invece si rivela uno spietato calcolatore come quello di Memory of Departure. Le strade dei due si divaricano, Salim abbandona la vita dorata del palazzo londinese dove abitava con la famiglia dello zio e affronta quella durissima del migrante solitario (la parte migliore del romanzo). Ce la fa, nel senso che riesce a concludere gli studi e a trovare un buon lavoro, si invischia persino in più di un amorazzo — è molto bello, come tutti gli autobiografici adolescenti di cui sopra… —, ma niente di definitivo e, anzi, quando crede di aver trovato il vero amore della sua vita si deve scontrare con un altro tipo di furibondo razzismo, quello degli indù nei confronti dei musulmani. In sostanza non riesce a emergere dal grigiore della vita del migrante di colore.

Seguita alla disperazione per l’amore proibito dagli stupidi motivi razziali, la notizia della morte della madre lo induce a tornare alla patria abbandonata, sia pure soltanto per una visita, nel cui corso rende polemico onore alla memoria della defunta fedifraga ma soprattutto ritrova il padre. Il quale, tornato a sua volta in patria dopo un esilio in Malesia, non è più il silenzioso e disperato uomo tradito dalla moglie e transfuga dal talamo matrimoniale, che parlava a stento con il figlio e soltanto per massime e aforismi, ma è divenuto di una loquacità sorprendente e racconta per filo e per segno — anche troppo filo, temo, e con un’impressionante mancanza di ritegno — la vicenda del tradimento coatto della donna, che è stata costretta a violare il patto matrimoniale soltanto per salvare il “cuore di pietra” del calcolatore fratello Amir, spianandogli tra l’altro davanti la luminosa carriera di diplomatico e ambasciatore.

Quasi come succede in Misura per misura, conclude Salim prima di tornare al suo grigiore inglese. Il padre ne prende atto, per il poco che può servire: tra l’altro Shakespeare gli è sempre risultato piuttosto ostico e quel dramma non lo ha mai letto. Romanzo interessante, ma Gurnah ha scritto di molto meglio.

Recensione: Afterlives (Voci in fuga)

Afterlives (Voci in fuga), decimo e per ora ultimo romanzo di Abdulrazak Gurnah, ci regala un nuovo e ben definito risultato della tecnica a “foglie di fico d’India” secondo cui la narrativa dell’autore procede (a parere di questo recensore, ovviamente). Alla fine di Paradiso il lettore ha visto il giovanissimo protagonista avviarsi verso la libertà accodandosi a un manipolo di soldati della “schutztruppe”, la “forza di protezione” formata dai tedeschi con combattenti indigeni del loro giovane impero coloniale in Deutsch-Ostafrika e, nel suo ambito, in Tanganyka. Si chiama Yusuf, quel giovanissimo e bel protagonista: nientemeno che un calco in veste coranica del Giuseppe non soltanto biblico ma protagonista romanzesco di Thomas Mann. Germania chiama Germania: se ad altri romanzi di Gurnah presiede la grande letteratura britannica, qui è d’obbligo il riferimento a quella tedesca. Ma, ancora una volta, procediamo con ordine.

Quando lascia l’ultima pagina, l’ammirato lettore di Paradiso non è sicurissimo di aver capito bene. Di aver cioè capito se il ragazzo Yusuf ha soltanto scelto la libertà dalla vita di sottomissione (anche erotica) in cui viveva, o se ha davvero deciso di arruolarsi negli “askari” germanici. Ed ecco che questa nuova “foglia” fuoriuscita da un’altra del “fico d’India” racconta pari pari la storia di un ragazzo africano che si arruola nella “schutztruppe”. Ma, come detto, si tratta di procedimento “a foglia di fico”, non “a cannocchiale”: il nuovo protagonista, o meglio personaggio di primo piano di una vicenda pullulante di vivacissime figure, non si chiama Yusuf ma Hamza. Insomma, è quello di prima ma allo stesso tempo non lo è. Nella prima gioventù gli è capitato precisamente tutto ciò che è capitato a Yusuf, però si chiama in un altro modo. È un altro. Non uno scatto di “cannocchiale” ma un’altra “foglia del fico d’India” narrativo.

Si chiama Hamza, ma, prendendo le mosse precisamente da dov’era arrivato Yusuf, si arruola a diciassette anni nella “schutztruppe” formata dai tedeschi con feroci combattenti africani. Lui non è affatto feroce, e tende anzi molto a meditazione e poesia, ma compie il suo dovere con assoluta lealtà. Essendo molto bello — eh, be, è un quasi adolescente di Gurnah — attira l’attenzione di un ufficiale, che lo vuole sempre accanto a sé, come attendente ma in definitiva come compagno su cui scaricare le pene di un animo esacerbato, a sua volta tendente alla poesia ma costretto a fare il soldato. Gli insegna il tedesco e per farlo gli legge Schiller e gli suggerisce Heine. Lo costringe a passare le notti allungato su una stuoia al suo fianco, ma, perfetto gentiluomo, non allunga mai le mani in maniera sconveniente, in guisa del tutto diversa da come facevano quasi tutti gli adulti (indigeni) con cui la sorte costringeva il ragazzo Yusuf a convivere. Yusuf si sottraeva con ferma eleganza, Hamza, seppure perplesso, non ha bisogno di farlo. I freni tedeschi sono migliori di quelli est africani.

La situazione provoca comunque molto pettegolezzo e astio, e Hamza finisce per pagarne le spese, ferocemente preso a colpi di sciabola da un sergente maggiore isterico più che omofobo, ridotto in fin di vita e salvato prima dal suo ufficiale, che invece di abbandonarlo nella giungla lo fa trasportare in barella fino alla missione di un pastore luterano, e poi dal pastore stesso. Si salva ma rimane menomato per la vita. È comunque un giovane pieno di risorse, alle quali gli insegnamenti del tedesco hanno aggiunto molto: ha imparato a leggere e scrivere bene, anche in quella lingua. Nel suo Tanganika tedesco, che alla fine della Grande guerra diventa britannico, è una dote importante. Infatti, forzato a lasciare la missione luterana, che viene chiusa dai vincitori britannici, riesce a tornare nella cittadina sulla costa da dov’era partito. Non vi trova più niente di ciò da cui è avventatamente fuggito, persone, amici, casa, oggetti, niente, ma vi conquista la fiducia prima di Khalifa, factotum di un facoltoso mercante e poi del mercante stesso. Si crea una professione, sposa la figlia adottiva di Khalifa, ha un figlio, che riceve il nome di Ilyas: Elias, Elia.

Parallela alla vicenda di Hamza si è infatti svolta quella dell’arruolamento nella “schutztruppe” di un altro giovanissimo africano, fratello maggiore della sua sposina, anche lui di nome Ilyas. Di qui il nome del figlio. Nel finale emerge che Hamza e Ilyas senior si sono trovati a combattere più di una volta quasi fianco a fianco, anche se non si sono mai incontrati. Ma la trasmissione del nome dal fratello scomparso all’innocente nipote provoca una sorta di maledizione. Il bambino è posseduto dallo spirito di una donna, che attraverso il suo corpo lamenta lo straziante dolore della perdita. Vicenda all’apparenza poco credibile e forse addirittura risibile — e infatti il navigato e laico Khalifa ne ride —, ma calata nell’ambiente africano in cui si svolge, con in aggiunta l’eleganza del modo come Gurnah la racconta, risulta credibilissima. Anzi, è bella, come tutto il romanzo, che costituisce probabilmente la seconda miglior prova dell’autore.

Tant’è vero che questo recensore prova notevole piacere nell’apprendere che il ragazzino Ilyas junior è finalmente liberato dall’ossessione tramite un colorato e chiassoso esorcismo condotto da una credibilissima sciamana locale. Per larghi tratti, inoltre, il recensore pensa anche che Afterlives sia una “foglia” di transito da Paradiso a Sulla riva del mare: tra i vari mestieri che Hamza si ingegna a imparare vi è infatti quello di ebanista, un’arte che acquisisce un’importanza del tutto particolare in quest’ultimo romanzo. Invece no: l’ebanisteria per adesso rimane lì.

Il finale di Afterlives procede un po’ a rotta di collo — un vero romanzo nel romanzo, suscettibile chissà di produrre un giorno un’altra romanzesca “foglia” —, con Ilyas junior che cresce, si stacca dalla famiglia, inizia e si inoltra in una carriera di giornalista radiofonico da cui sarà portato a inseguire le tracce dell’omonimo zio, che si scopre essere riuscito a raggiungere la sua amata Germania nazista (lui, nero!). Con un esito che sarà il lettore a scoprire.
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