Scrive di: Timothy Findley

Recensione di “A bordo con Noè” (1986)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Di quando in quando i lettori italiani vengono gratificati della pubblicazione del “più importante scrittore canadese”, e fino a qualche tempo fa l'esclusiva di tali gratificazioni pareva spettare alla vecchia Longanesi, editrice di una buona gamma di autori di quel paese, dall'avventuroso Farley Mowat alla tortuosa Margaret Atwood, attraverso l'estenuato Leonard Cohen, per lo più con l'avallo del gran maestro della critica militante Northrop Frye. Ora per un attimo l'impegno sembra essere passato alla Garzanti, che pubblica A bordo con Noè, quinto romanzo di Timothy Findley, che il risvolto di copertina dice godere dell'incondizionato sostegno di Frye e poi definisce «unanimemente riconosciuto come il maggior scrittore canadese vivente». Non saranno un po' pochi cinque romanzi per diventare all'unanimità (di chi?) il maggior scrittore, sia pure vivente, di una letteratura nazionale?

A bordo con Noè rivisita in tono fiabesco-grottesco il mito del Diluvio Universale, e quest'idea di confrontarsi con Miti e Scritture per riscriverli in chiave fantastica ci fa sempre un'impressione vagamente macabra. Non sono già abbastanza fantastici e inquietanti quelli? Comunque sia, in scena - in un tempo narrativo che spazia tra l'antichità e il nostro tempo - compare con tutta la sua famiglia il dottor Noè, un vecchio prepotente e abbastanza asino, nonché insopportabilmente violento e maschilista, dedito unicamente ai suoi sacrifici in onore di Dio e a maltrattare spudoratamente le femmine di casa, compresa la gatta, a cui cava addirittura un occhio. Per fortuna a opporsi ai suoi piani c'è un' energica signora Noè, che mette a soqquadro tutta l'Arca e il relativo viaggio.

In scena poi compare persino Dio, l'ineffabile Geova, nella parte di un vecchiaccio scarmigliato e distratto, seccatissimo dei peccati di questo mondo e straccamente vendicativo: si porta dietro una specie di circo, che sarebbero poi gli animali da salvare a coppie sull'Arca, e rimpinza di istruzioni e terrori Noè. La signora Noè, invece, siccome a rigore di Scritture una povera handicappata in forma di scimmia (il famoso anello di congiunzione mancante tra la scimmia e l'uomo?) e la sua gatta cieca non avrebbero diritto a venire salvate per i posteri, diventa una campionessa antidiluviana della causa femminile e fa un gran putiferio. L'handicappata anello-di-congiunzione non ce la fa, ma la gatta viene felicemente contrabbandata clandestina a bordo. Nelle sue trame, poi, la signora Noè viene aiutata addirittura da Lucifero, travestito da tale Lucy, alta due metri e passa, che riesce truffaldinamente a farsi sposare da un Cam di pelle scura e sessualità evidentemente molto incerta. Sem, invece, è grasso, pigro e maneggione, mentre Jafet è un ragazzino disturbato che, non riuscendo ad avere rapporti regolari con la propria sposa bambina, diventa un violento guerrafondaio, sempre con la mano sulla lancia (ah, l'arguta profondità dei simboli psicoanalitici!)

E così via che si svolge il viaggio sotto il Diluvio, con la partecipazione anche di alcuni tra i «non desiderati» (il titolo in inglese infatti è Non desiderati nel viaggio) e quindi con una lunga serie di disastri e una violenta ribellione delle nostre (signora Noè, gatta Mottyl, Lucifero-Lucy, moglie di Jafet e incerto Cam, contro Noè, Jafet e Sem), a seguito di cui l'Arca toccherà regolarmente la sua terra, ma dopo aver perduto alcuni degli esseri viventi più graziosi e preziosi (le «forze inventive» del Mito?). Per esempio i ridanciani e utilissimi demoni a una testa (nonché quelli a più teste), stolidamente buttati fuori bordo. E l'Unicorno, che muore in maniera veramente indegna: sapete per che cosa lo adopera il pessimo Noè? Per far diventare donna la sposa bambina di cui sopra e renderla disponibile al bellicoso Jafet. Usando che cosa? Be', il corno. Probabilmente è un riferimento letterario a Faulkner, ma quanto greve! Giustamente la Dama Unicorna si lascia morire di fame e di vergogna.

Il lettore non me ne voglia, ma il grottesco chiama altro grottesco, (e di questi tempi la letteratura di lingua anglosassone ne pare pervasa da un'ondata vagamente eccessiva: si pensi ad Angela Carter, a Salman Rushdie, a John Irving, a Fay Weldon, a Tom Robbins e a Tom Sharpe, per fare soltanto qualche nome recente, a braccio). Tuttavia quello di Timothy Findley mi sembra mordere poco - è scarsamente gnomico (che cosa insegna? che il Mito va preso con le molle? lo aveva già detto Talete) e non è comico (non fa ridere) - riducendosi pertanto a esercizio letterario assai freddo, pur nella sua innegabile eleganza formale e capacità di invenzione.

Un' ultima considerazione, interessata ma riteniamo anche interessante: nei «Ringraziamenti» posti in chiusura del romanzo, Findley esprime la propria gratitudine al Canada Council «per l'appoggio ottenuto nel corso di questo lavoro». Un simile ringraziamento mi è capitato di leggerlo pochissimo tempo fa (rivolto a tre diverse istituzioni, «per il sostegno offerto durante la stesura di questo libro») in apertura del bellissimo e dolente Sogni meccanici della giovane statunitense Jayne Anne Phillips (Mondadori). Insomma: capita di frequente che gli scrittori nordamericani abbiano da ringraziare qualche istituzione che li ha aiutati (supponiamo non a vivere di sogni nel cassetto). Capiterà mai anche a uno scrittore italiano?

(Il giornale, 24 novembre 1985)
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