Scrive di: Joan Haslip

Intervista su: Il Sultano. La dissoluzione dell'impero ottomano attraverso la biografia di Abdulhamit II. 1992

© Mario Biondi
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e obbligo di citazione (per cortesia...)

Abdulhamit II è stato l’ultimo grande sultano ottomano. Alla sua deposizione, avvenuta nel 1909, seguì il diluvio. Senza di lui l’impero che aveva sognato di ricostruire non poté che avviarsi alla definitiva disgregazione. Vennero inventati e finanziati i Giovani Turchi. Il vecchio sultano fu esiliato a Salonicco, rispedito sul Bosforo, umiliato, terrorizzato, fatto morire di dolore. E lui morì sognando di essere riabilitato dagli storici. Se non da quelli turchi, almeno da quelli stranieri. E’ avvenuto? Non pare. «Io comunque ho fatto del mio meglio» replica orgogliosamente dalla sua dimora fiorentina Joan Haslip, brava e fortunata divulgatrice di biografie, autrice di un’appassionante e appassionata vita dell’ultimo vero signore di Costantinopoli (Il Sultano, Longanesi). «Ma, certo, non so se possa bastare». In ogni caso, che il processo di riabilitazione sia stato avviato da una suddita del Regno Unito sembra un risarcimento della Storia. Per tradizione gli inglesi amano poco la Turchia ottomana, il «Malato d’Europa», il «Grande Tacchino», l’atavico nemico della Grecia di Byron. «Personalmente sono sempre stata affascinata dal crollo degli imperi per effetto della Grande Guerra» spiega l’affabile dama. «E soprattutto dalla catastrofe che esso ha rappresentato. Guardi ciò che è successo in Iraq e dintorni, cent’anni dopo. Ciò che sta succedendo ancora oggi in Bosnia.» Chi fu, dunque, Abdulhamit II? Quando nel 1867, venticinquenne, arrivò alla corte della regina Vittoria al seguito dello zio Abdulaziz, Califfo dell’Islam e Padiscià dei turchi, forse sognava ma certamente non immaginava di essere destinato a diventare il trentatreesimo (terz’ultimo) successore di Osman nella dinastia ottomana. Era gracile, scostante, malinconico, brutto. In disgrazia come in disgrazia era morta di tisi sua madre, una giovanissima danzatrice circassa favorita di Abdulmecit, fratello e predecessore di Abdulaziz. I sultani ottomani avevano un terrore ancestrale della malattia che fa sputare sangue. E la madre, si mormorava nell’harem, non era affatto circassa ma armena, se non addirittura ebrea. Un gâvur, dunque, un mezzo infedele. Alla larga. Ma soprattutto lo sparuto giovane turco non poteva immaginare che a dare il colpo di grazia all’impero di Maometto il Conquistatore e di Solimano il Legislatore sarebbero stati proprio questi inglesi che lo avevano invitato, così affabili e al tempo stesso efficienti, avanzati, moderni. Fulminee navi da guerra, treni a vapore, elettricità. Donne che mostravano impunemente il viso. Deglutiva, il giovane, con gli occhi sbarrati, dispostissimo ad amare con tutto il cuore il popolo di Albione o per lo meno i suoi rappresentanti politici, regina in testa, con l’appendice di Lord Disraeli. Aveva remote radici in Palestina, il Prime Minister, sapeva per istinto quanto siano volatili eppure radicate le questioni del Medio Oriente, zona dove è sempre meglio sedare che smuovere. E che cosa poteva esserci, ai tempi, di meno mobile dell’impero ottomano? Se ne difendesse a ogni costo lo status quo, lo si lasciasse a gravare come una cappa di trascuratezza e arretratezza su terre dove la minima fiammella avrebbe potuto far divampare inestinguibili, dilaganti fiammate. Terre, vedi caso, attraverso cui passavano i traffici originati o destinati a quell’India di cui la corona di Londra era sovrana. Qualche piccolo pedaggio qui, qualche limitata tangente là, un tacito consenso all’attività di due o tre predoncelli autorizzati, e il commercio tirava avanti florido. Morto il debole e irresoluto Abdulaziz, signore di Dolmabahce, autentica reggia barocca da Mille e una notte, corte dei miracoli affollata da decine di eunuchi, centinaia di servi, schiere incalcobili di mogli in carica, madri di eredi, ex mogli, favorite ancora in ascesa, nel pieno dello splendore o già ripudiate, nonne, zie, cugini, parenti poveri, medici greci, trafficanti armeni, pascià impiccioni, governatori ladri, predicatori logorroici, mistici dementi, saltimbanchi gobbi, buffoni storpi, giardinieri ruffiani e guardiani prezzolabili, e messo abilmente in un angolo anche l’erede designato, il debole Murat V, nel 1876 sul trono di Osman salì proprio l’anglofilo Abulhamit. Gli inglesi (che non erano stati a guardare) ebbero dunque più di un motivo per rallegrarsi. Non soltanto le terre attraversate dalla Via per l’India rimanevano sotto il trascurato dominio di un fedele amico, ma lo stesso amico si sarebbe anche incaricato di complicare le mire dei Russi sulle diramazioni più nord orientali della medesima, oltre a quelle dei francesi su Terra Santa e dintorni, per non parlare del sollevarsi della cresta dell’ultimo venuto, il Kaiser di Germania. Ci sarebbe mancato altro che facesse capolino all’orizzonte un pasticcione impetuoso come Mahmut II, sterminatore dei giannizzeri, esagerato modernizzatore: un generoso confusionario capace soltanto di farsi battere dai russi e persino in Egitto. Qualcuno però aveva fatto i conti senza l’oste: nonostante l’aspetto fragile, Abdulhamit era un fine politico. L’impero ottomano gli era stato assegnato dal volere di Allah in tutta la sua sterminata estensione – dai Balcani alla Mecca, dal Mar Nero alla Libia – e lui aveva tutte le intenzioni di riportarlo agli splendori di un tempo. Mettere ordine, certo, modernizzare, democraticizzare, ma con lento piede. A fare in fretta i micini nascono ciechi. Occorreva procedere con calma. Sotto il suo dominio di Sultano ottomano e di Califfo dei Credenti vivevano, coltivavano, allevavano, commerciavano, si agitavano, si azzuffavano e facevano la pace un turbine di etnie, si parlava un’intera Babele di lingue, si praticava una quantità non censibile di religioni, dai sunniti agli sciiti, dai cristiani greci a quelli armeni, dagli ebrei spagnoli a quelli russi, dai cattolici albanesi del nord agli ortodossi serbi e bulgari, dai giacobiti ai nestoriani, dai devoti del diavolo (a Erzurum) a quelli della luna (a Urfa). Anni durissimi, di spietata conquista. Il prudente Lord Disraeli muore, lo sostituisce Gladstone. Il despota di Costantinopoli (un «assassino» secondo il nuovo premier britannico, un «mostro» secondo Clemenceau, un uomo solitario e sfortunato secondo chi lo va a trovare nel villino di Yildiz) viene accusato di essere incapace di tenere sotto controllo le infide terre medio orientali (quelle non soltanto della Via per l’India ma, in prospettiva, del petrolio). E soprattutto di consentire che i cristiani dei Balcani (principalmente i serbi) vengano molestati dai musulmani di Bosnia e dintorni. Tenerlo d’occhio, dunque, piazzargli navi stazionarie sotto casa, fargli attentati, rivolte, guerriglie, guerriciattole, guerre vere e proprie. La situazione precipita quando il colossale affare della ferrovia Costantinopoli-Bagdad viene da lui affidato, un po’ per calcolo e un po’ per rabbia, ai parvenu tedeschi del giovane e invadente Kaiser Guglielmo II, già responsabili di avere allacciato il Bosforo con tutta l’Europa. Nel giro di qualche anno si rischia che i porti di Amburgo e Lubecca siano collegati via treno al Golfo Persico. Con il che, secondo ferrea logica economica, sarebbe da lì che si metterebbero a transitare i traffici indiani, disertando il porto di Beirut, Suez, i contrabbandieri russi, le banche francesi e inglesi. Bisognava agire. Quando i tecnici prussiani raggiunsero un sonnolento villaggio sul Golfo Persico al fine di realizzare i progetti del terminal ferroviario, si trovarono di fronte le tergiversazioni, l’imprevista ostilità del locale imam, forte di nebulose prerogative carismatiche. Quando le truppe prontamente (si fa per dire) inviate da Costantinopoli si affacciarono sulle ultime dune del deserto iracheno, si videro inopinatamente puntati addosso i cannoni a lunga gittata di una nave più prontamente inviata da Lord Curzon, Viceré dell’India. Nasceva in tal modo la polveriera denominata Kuwait. Niente di nuovo sotto il sole. La storia continua. Abdulhamit ne morì.

Joan Haslip, Il sultano. (Pubblicato su Corriere della sera, giugno 1992)
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