Scrive di: Anthony Burgess

Recensione di “La fine della Storia” (1986)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Qualche anno fa rimanemmo piuttosto perplessi leggendo una durissima stroncatura di Anthony Burgess a L'oscuro visibile del futuro Premio Nobel William Golding, romanzo che invece ci era parso di straziante potenza, e la perplessità risultava ulteriormente acuita dal fatto che fino a quel momento avevamo considerato Burgess e Golding come due grandi esponenti di una medesima scuola narrativa britannica: due cantori della «crudeltà» del nostro mondo, due spietati maestri di satira nei confronti della sua «ipocrisia». Il loro stesso aspetto fisico e modus vivendi quasi ci costringeva a considerarli apparentati nell'avventura letteraria oltre che umana: due omoni tonanti, due cittadini di un mondo senza frontiere culturali, due caustici dandy, capaci di atteggiamenti donchisciotteschi e al tempo stesso di satira bruciante nei confronti della normativa sociale elaborata dai loro simili. Così evidentemente non era, e leggendo con maggiore attenzione le loro opere successive ce ne siamo resi ragione. Golding andava sempre più affondando nel «dolore» come prodotto della crudeltà e dell'ipocrisia, ai limiti dell'afasia (o dell'a-grafia), al punto di concludere il suo ultimo romanzo (The paper men) con l'espressione tronca «gu...», prime due lettere della parola «gun», ovvero «fucile». Al contrario Burgess insisteva a rovesciare sul piatto con sempre maggiore furia la cornucopia corrosiva della sua satira.

Il suo ultimo romanzo, La fine della storia, si compone con felice espediente tecnico di tre parti, simili ad altrettanti spettacoli televisivi che un ipotetico lettore/spettatore sia in grado di seguire contemporaneamente, a spezzoni, per mezzo del telecomando. Un telespettatore a cui capiti in fortunata sorte di avere a disposizione, su tre canali diversi, un trittico di spettacoli composto - diciamo - da un'opera «alla» Strauss/Hoffmannstahl, da un testo teatrale «alla» Brecht/Weill e da un film di fantascienza dei più recenti, di quelli pieni di mutanti, replicanti, macchine infernali, raggi letali, gadget spaziali e mucillagini variopinte colanti da ogni dove, in un delirio di sfrenata paccottiglia costumistico-scenografica. Nella prima si racconta la storia di Sigmund Freud, nella seconda i fatti di Leone Trotzky e nella terza una vicenda spaziale futuribile. Psicoanalisi, socialismo e conquista dello spazio. Ovvero i tre eventi che più hanno fatto tremare il nostro secolo.

Così, con cadenze che sapientemente si alternano, in un perfetto gioco di incastri, di flash back e di salti in avanti o di lato, il lettore si trova a seguire la vicenda di Sigmund Freud e della sua scuola, con le successive e arzigogolate evoluzioni e scissioni, vedendo comparire in scena e agitarsi Jones, Adler, Jung, Ferenczi, Rank, Anna Freud, Marie Bonaparte e addirittura Krafft-Ebing - ovvero tutto lo staff dell'analisi di psiche e comportamento sessuale - fino all'avvento del nazismo e al cancro del Maestro. Ma intanto, su un altro canale letterario, sta assistendo alle gesta (queste a onor del vero assai poco chiare, probabilmente per effetto di un'epica brechtiana applicata in termini un po' metallici) di Trotzky a New York, prima della rivoluzione di ottobre. E intanto si appassiona e sgomenta davanti al dramma del Nostro Mondo che sta per scomparire a causa della collisione con un enorme corpo celeste. Avventurosamente e perigliosamente, sull'astronave destinata a salvare un campione di umanità riescono a introdursi uno scrittore di fantascienza e un attore, accomunati da un vivacissimo interesse per l'alcol. A loro spetterà la funzione di deus ex machina della situazione, di elementi di fusione delle tre parti. Infatti allo scrittore di fantascienza toccherà ovviamente il compito di registrare tutti gli eventi notevoli del viaggio nel futuro. Ma intanto l'attore avrà portato con sé sull'astronave due video con altrettanti spettacoli a cui aveva preso parte: appunto Freud e Trotzky. Saranno tutto ciò che ai membri della spedizione resterà della Vecchia Terra. Così si conclude una struttura romanzesca coraggiosa e di grande qualità. Recentemente il critico Beniamino Placido ha scritto che ormai il romanzo sarebbe possibile realizzarlo soltanto con il mezzo televisivo. Per elementare spirito di sopravvivenza, ma anche perché di romanzi (stranieri) ci capita di leggerne, recensirne, valutarne e tradurne diverse decine ogni anno, ci permettiamo di non essere affatto d'accordo, e questa notevole opera di Anthony Burgess ci conforta nella nostra opinione: le tecniche della televisione possono servire, oltre che per fare narrativa per immagini, anche per dare nuova linfa al vecchio (ma assai lontano dal morire) romanzo su carta.
Anthony Burgess, La fine della storia, Rizzoli. (Il giornale, aprile 1986)
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