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Lo scrittore Mario Biondi nel Sahara
Lo scrittore Mario Biondi
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Lo scrittore Mario Biondi racconta

Wilbur Smith
Wilbur Smith

Un’intervista (1987), Un incontro (1989), Un ritratto (1995), Consigli dal vivo. In Sudafrica con lui (1995) , Incontro e recensione: “Il settimo papiro” (1995), Presentazione: “Gli uccelli da preda” (1997), Incontro: “Figli del Nilo” (2001), Il mio vero patrimonio? Milioni di ricordi (2011), Non soltanto azione. Anche tanto amore (2013)



Nella foto: Wilbur Smith con Mario Biondi a Milano, gennaio 2013

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Un’intervista (1987)

Cielo! Dove sono l’abbigliamento da giungla, la giacca termica, la carabina da caccia agli elefanti, la bussola, gli stivaloni da pesca, le canne e le lenze? Come: neanche un po’ di acciarino e pietra focaia? Wilbur Smith - 54 anni portati splendidamente, completo blu, sobria cravatta bordò, scarpe lucidissime, barba perfettamente rasata, vago sentore di una colonia molto fine - scoppia a ridere. «Vede», replica, «da noi c’è la leggenda del "cimitero degli elefanti", non so se esiste anche qui.» Esiste, esiste. «Be’, tutte le cose di cui scherzava lei, ovvero tutto il buon abbigliamento sportivo e trasandato in cui mi trovavo tanto a mio agio in ogni momento della mia vita fino a qualche anno fa, è scomparso nel momento in cui nella suddetta mia vita è entrata quella donna. Sparito nel cimitero degli elefanti. Pardon: degli abiti.»

«Quella donna» - che partecipa con un sorriso dalla poltrona di fronte, nella luminosissima suite del Principe di Savoia a Milano - è Danielle, la sua terza moglie. Gli ha dato tre figli (più un quarto da lei stessa avuto in un precedente matrimonio), gli ha organizzato la vita, gli ha buttato via gli stracci folcloristici con cui amava travestirsi da scrittore di avventure e, con la sua collaborazione sapiente di ricercatrice e consigliera letteraria lo ha fatto diventare - come tutto il mondo riconosce - il «leader» degli scrittori d’avventura. Il più bravo. Il più letto, se le cifre valgono qualcosa: ventuno romanzi per un totale di più di quaranta milioni di copie vendute nel mondo (due milioni solamente in Italia, dei quattordici titoli usciti fino a ora). Tre di essi già ridotti in versione cinematografica, almeno altri tre pronti a esserlo. Citiamone qualcuno: Come il mare (forse il più famoso), Il destino del leone (forse il più bello), L’orma del califfo, La spiaggia infuocata, Quando vola il falco.

E in questi giorni, almeno in Italia, Il potere della spada, (Longanesi) quinto volume della saga della famiglia sudafricana dei Courteney. Per questo è qui, per il lancio, per farsi conoscere di persona anche dal nostro pubblico, che lo ama moltissimo ma non ha mai avuto il piacere di vederlo dal vivo. Wilbur Smith, infatti, non ama particolamente la pubblicità. Preferisce starsene al riparo nella sua bella casa ai piedi di Table Mountain, a Città del Capo, a trecento metri dal più magnifico e lussureggiante dei giardini botanici, oppure nel pezzo di isola che possiede alle Seychelles, oppure ancora in giro, ai comandi di un’aereo da turismo, della sua barchetta da pesca in alto mare, vestito alla vecchia maniera, a godersi le bellezze del nostro mondo e a raccogliere idee per i suoi romanzi. Non è certamente un animale da salotto. Ma finalmente è arrivato anche qui, non solamente in incognito, per informarsi sui dettami della moda, per comperare abiti e - soprattutto - scarpe, ma nella sua veste ufficiale di «leader» mondiale degli scrittori di avventure.

E’ arrivato da Londra, dove ha festeggiato l’uscita del ventunesimo romanzo, Rage (ovvero «Furore»), sesto e forse conclusivo volume della saga dei Courteney. «Ma», precisa, «non è affatto detto che finisca. Come faccio a sapere quali intenzioni hanno veramente i miei personaggi? I Courteney potrebbero persino, un giorno o l’altro, incontrarsi con i Ballantyne. Non si sa mai. Non mettiamo limiti alla provvidenza romanzesca.» I Ballantyne sono i protagonisti dell’altra sua granda saga, quella rhodesiana (finora in Italia sono usciti il primo e il quarto volume, Quando vola il falco e La spiaggia infuocata, mentre è annunciata la prossima uscita del secondo, Men of Men, che non ha ancora un titolo italiano ma significa “Uomini veri”.)

La vita di Wilbur Smith, infatti, da quando nel 1933 è nato in quella che allora era la Rhodesia del Nord e ora è lo Zambia, si è quasi tutta svolta nei territori meridionali dell’Africa: le due Rhodesie, Sudafrica, Namibia. E lì - con non poche fughe a New York, Londra, Roma, Atene, Tel Aviv eccetera - sono in larghissima misura ambientati i suoi romanzi, in questo secolo come in quello passato. Diamanti, oro, zulu, boscimani, leoni, gazzelle, navi negriere, petroliere oceaniche, jet da combattimento, ragazzi stupendi, fanciulle dolcissime, uomini poderosi, donne intrepide, spioni, traditori, amore, odio, sangue, vita e morte. Un miscuglio affascinante e travolgente. Ma com’è stata la sua vita in quelle terre remote?

«Mio padre era un allevatore, forniva bestiame da macello per il personale delle miniere di rame della Rhodesia del Nord. Era una persona benestante, e quindi ho avuto un’infanzia molto sicura. Ma nel paese non c’erano scuole, per cui ho frequentato quelle del Sudafrica, andandovi con il treno per quattro giorni alla settimana. Finita l’università, mi sarebbe piaciuto fare il giornalista, ma mio padre non ha voluto sentirne parlare. "Figlio mio", mi ha detto, "i giornalisti muoiono di fame." E ho dovuto fare il contabile. Il più triste dei contabili, sempre con il tarlo dello scrivere. Così, di notte e nei ritagli di tempo, ho scritto il mio primo romanzo, riempiendolo di tutti gli errori tipici della prima opera di un dilettante. L’ho mandato a non so quanti editori, che l’hanno respinto tutti. Bene, mi sono detto, evidentemente il mestiere dello scrittore non è il mio pane. Poi è successo una specie di miracolo. Una delle persone a cui avevo mandato il manoscritto era una agente letteraria di Londra, che dopo un anno circa mi scrisse per chiedermi se per caso ne avessi scritto un altro. Le risposi che mi era sembrato meglio smettere. Peccato, replicò, perché nel suo testo c’era molto di buono. Trovato nuovo entusiasmo - ingrediente fondamentale del successo letterario - scrissi Il destino del leone. Un editore mi rispose nel giro di una settimana. Da allora ho chiuso la mia attività di contabile. Faccio il disoccupato.»

E ride, beato. Quaranta milioni di copie, quanto vorranno dire, in termini economici? Proviamo a pensare soltanto a una media di mille lire a copia... Be’, meglio lasciar perdere. Ma com’è stato essere giovani, da quelle parti? «Vede, lo Zambia era un paese molto poco popolato, con pochissimi bianchi, e la mia gioventù l’ho passata essenzialmente all’aperto, nella foresta. Quando ero a casa da scuola, prendevo con me una coperta e un fucile, e andavo. Avevo due carissimi amici neri, partivamo assieme, stavamo via cinque, otto, dieci giorni, a caccia, dormendo di notte vicino al fuoco da campo, loro due sui lati e io in mezzo, per ripararmi nel loro calore. Faceva un freddo tremendo, ma era magnifico. E’ da lì che viene il mio grande amore per l’Africa, per la foresta, per gli animali. E’ così che ho acquisito la coscienza di essere africano.»

Ma i rapporti con altri bianchi? «In effetti a casa erano rari. Ma ho avuto la fortuna di frequentare le scuole pubbliche sudafricane di allora, identiche a quelle inglesi, con la stessa disciplina rigidissima e la stessa qualità di insegnamento. Ho avuto degli ottimi maestri, che mi hanno insegnato a leggere. A dodici, tredici anni, leggevo moltissimo, anche di notte, nascosto sotto le coperte. Viene da lì il mio amore per i libri, per la lettura. Bisogna leggere moltissimo e bene per imparare a scrivere. E’ quello che consiglio sempre agli aspiranti scrittori. E’ la condizione essenziale. La tecnica del romanzo si può apprendere soltanto leggendone sempre di più. E poi scrivendo, scrivendo tanto, senza perdere tempo al bar a parlare di scrittura, ma praticandola. A quindici, sedici anni, ho cominciato a sognare di diventare uno scrittore anch’io.»

E ora che lo è diventato, e con tanto successo, quando non scrive, che cosa fa? «Mi piace soprattutto andare a pesca. Ho una barca apposta, non molto grande, otto metri circa, in modo da poterla attaccare all’auto e correre dove ci sono le passate dei tonni. Ogni anno, poi, andiamo in Alaska, per i salmoni. A mia moglie, infine, piace moltissimo pescare la trota nei torrenti. E andiamo a farlo in Nuova Zelanda, in Sudamerica. E’ durante questi spostamenti che mi vengono gran parte delle idee che uso per i romanzi. Ne discuto con Danielle, che prima di tutto mi espone il lato femminile di vedere le cose e poi legge ogni pagina che scrivo, giorno per giorno, dandomi i suoi suggerimenti.»

Ma torniamo alla vita libera. «Ci piace molto anche sciare. Infatti proprio adesso siamo reduci da un periodo in Svizzera, a Davos, con neve magnifica. E poi ho ricominciato ad andare a caccia. Avevo smesso, non volevo più veder morire animali, ma ora mi sono convinto che la caccia controllata dal governo secondo principi rigidamente etici sia un’arma fortissima per la salvaguardia delle specie selvatiche africane. Quindi, dopo venti anni, ho ricominciato. Credo che sia addirittura una forma di amore nei confronti degli animali.»

Che cos’è l’amore, signor Smith? «In sé è la scusa mistica dell’esistenza. Senza amore tutto il resto non ha sapore. Amore non significa soltanto sesso, tenersi per mano, scambiarsi sguardi e altre simili bellissime cose. E’ fiducia. Sostegno. Capacità e possibilità di dividere con un’altra persona la più grande delle gioie come la più tremenda delle tragedie.»

(Max, maggio 1987)

Un incontro (1989)

Quando nell’autunno del 1979 Elena Spagnol tornò dall’Inghilterra portandosi dietro un robusto pocket della casa editrice britannica Pan, sapeva di avere con sé un libro dalle straordinarie possibilità: oltre che in immense pile in tutte le librerie, lo aveva infatti visto largamente in testa nelle classifiche di vendita; e poi lo aveva letto, che rimane sempre la maniera migliore per farsi un’idea precisa di un libro, anche se certi recensori, amanti del sentore e dell’umore più che della lettura (e magari della letteratura), si ostinano a fare finta di non saperlo. Non poteva tuttavia in alcun modo prevedere — Elena Spagnol — che nel giro di meno di dieci anni, ovvero dal 1980 al 1989, quel libro e il suo autore avrebbero portato a un fenomeno di massa valutabile, soltanto in Italia, in più di tre milioni e mezzo di copie. Il libro era il romanzo Hungry as the sea. L’autore, Wilbur Smith.

Il marito di Elena, Mario Spagnol, aveva proprio in quei giorni di fine ’79 provocato discreta sensazione giornalistica lasciando il ponte di comando di una portaerei dell’editoria, la Rizzoli, per prendere in mano il timone del "caicco" Longanesi, gloriosa casa ultratrentennale che da qualche tempo si trovava in grosse difficoltà: erano anni di vacche magrissime, le case editrici cosiddette "di famiglia" stavano una dopo l’altra passando la mano a nuovi assetti finanziari e manageriali. La Sansoni, la Vallecchi, la Longanesi. Sarebbero seguiti altri nomi, ben più rilevanti.

Hungry as the sea, nella sua economica e tozza veste tascabile Pan, approdò dunque alla rinnovata casa editrice di Via Borghetto, a Milano, dove sulle prime non suscitò reazioni particolarmente commosse. Quello di Wilbur Smith non era un nome nuovo. Già due case editrici italiane avevano cercato di lanciarlo sul mercato di massa in altrettante loro collane economiche: la Garzanti nei "Garzanti" (Ci rivedremo all’inferno) e la Mondadori nel "Cerchio Rosso" (Una vena d’odio e La rotta degli squali ). I risultati erano stati tutt’altro che incoraggianti. Sulle longanesiane considerazioni preliminari, inoltre, pesava fortemente il reciso giudizio con cui il libro era stato accolto dalla forza di vendita della casa editrice che aveva tentato il lancio di Smith in America. Riferito da Publisher’s Weekly (o da altra analoga pubblicazione, gli anni passati purtroppo sono parecchi) tale icastico e lungimirante giudizio era più o meno stato: «Uno scrittore che si chiama Smith, in America non diventerà mai famoso». Non è raro che le organizzazioni di vendita di tutto il mondo e di tutti i settori si abbandonino a pre-giudizi a dir poco perniciosi.

Colui che scrive qui, in quegli anni carichi più di fatiche che di gloria lavorava appunto alla Longanesi. A lui venne affidato in lettura il libro. Fu un autentico colpo di fulmine. Hungry as the sea ebbe un giudizio entusiastico e venne pubblicato dopo qualche mese — nella primavera-estate del 1980 — con il titolo Come il mare. Per il lancio si sapeva di non potere in alcun modo contare sulla critica, tradizionalmente e ostinatamente fuori sintonia rispetto al romanzo d’azione o di appassionante lettura, quand’anche di buona qualità. Non venne nemmeno fatto l’invio delle copie omaggio. D’altra parte i mezzi economici della Longanesi erano quelli che erano. Non si poteva certamente contare su un lancio pubblicitario in grande stile. Si puntò dunque sull’intelligenza dei librai e sull’effetto. Si inventò (merito di Luciano Mauri, skipper delle Messaggerie Italiane, azioniste di maggioranza della Longanesi) un gadget da vetrina che ebbe un risultato straordinario. Un ondeggiante marchingegno che simulava le onde del mare, esposto nelle migliori librerie italiane con sopra, a dondolare su e giù, il libro. Come il mare. Così, con tale travolgente effetto "mal di mare", iniziò in Italia il successo di Wilbur Smith. La lettura di altri suoi libri in edizione originale garantì poi che esso era assicurato anche a lungo termine, come confermò, dopo poco tempo, la pubblicazione del successivo thriller: L’orma del califfo.

In questi giorni, infatti, la Longanesi, divenuta ormai detentrice unica dei diritti italiani sui libri nuovi e inediti di Wilbur Smith, pubblica il quindicesimo, L’ombra del sole annuncia il sedicesimo, L’ultima preda, che con i tre sopra citati, pubblicati da Garzanti e Mondadori, porta il totale a diciannove, sui ventuno usciti in lingua inglese. Se l’aritmetica continua a non essere un opinione e se la memoria non fa difetto, tra quelli editi in Italia dovrebbero mancarne all’appello soltanto due (The sunbird e The diamond hunters), che sicuramente arriveranno a deliziare l’impaziente lettore smithiano nel giro di un paio di anni. Il ritmo di scrittura di Wilbur Smith, infatti, è da qualche tempo di un libro nuovo all’anno (il prossimo, Time to die, uscirà in inglese nell’aprile ’89). A esso, ogni sei mesi circa, la Longanesi ne alterna uno vecchio.

Venti romanzi per ben oltre diecimila pagine. Quarantatré milioni di copie vendute nel mondo. Quasi quattro soltanto in Italia. Traduzioni in quattordici lingue, dal finlandese al turco. Quale la "ricetta di fabbricazione" che sta alle base di un simile successo e di una simile "azienda", capace di un fatturato librario complessivo mondiale che può essere valutabile in ben più di 500 miliardi di lire, di cui un decimo soltanto in Italia? E’ stata la prima domanda, quasi d’obbligo, che gli ho posto — suo traduttore e caloroso estimatore — quando mi è capitato di conoscere Wilbur Smith in casa Spagnol nel corso di una sua visita a Milano nella primavera del 1987. Occasione già in sé abbastanza eccezionale.

Wilbur Smith, infatti, contrariamente a quanto si potrebbe pensare di un autore tanto rivolto al pubblico, ama pochissimo la pubblicità. Rilascia raramente un’intervista. Preferisce starsene al riparo nella sua bella casa ai piedi di Table Mountain, a Città del Capo, a qualche centinaio di metri da uno dei più magnifici giardini botanici del mondo, oppure nel pezzo di isola che possiede alle Seychelles, oppure ancora in giro, ai comandi di un aereo da turismo o della sua barca da pesca in alto mare, vestito di casuali stracci sportivi, a godersi le bellezze del nostro mondo e a raccogliere spunti per i suoi romanzi. Non è certamente un animale da salotto. Di lui, fino ad allora, era praticamente circolata una sola fotografia formato tessera. Dal canto mio, amante come sono dell’intrigo editoriale, delle succulente favole circa emaciati e formicheschi ghost writer al servizio delle multinazionali della narrativa d’evasione, mi ero addirittura spinto fino a ipotizzare che non esistesse affatto. Oppure che gli mancasse una gamba, come a uno dei due gemelli del Destino del leone. O che magari fosse gobbo, come il protagonista di The sunbird. Invece eccolo lì, giovanile cinquantaquattrenne in abito serioso e forma perfetta, luminosi occhiali dalla professorale montatura scura, un bicchiere di champagne in mano. Con entrambe le gambe, per fortuna. E senza gobba. Gli occhi della fedele moglie-collaboratrice Danielle — terza moglie, madre dei suoi tre figli, «preziosissima collaboratrice» — non lo mollavano un istante.

«Entusiasmo e disciplina», è stata la risposta, immediata. «Tanto entusiasmo. E’ da esso che dipende tutto il resto: la forza di mettersi ogni giorno al lavoro, la voglia di cercare storie sempre nuove da raccontare. I lettori lo avvertono. E tanta disciplina. Ogni giorno bisogna mettersi al tavolino e starci diverse ore. Si può incappare nella giornata storta, capita a tutti, qualunque attività si svolga, ma bisogna tenere duro, continuare a lavorare, anche se poi magari quello che si è prodotto lo si butta via. Altrimenti il libro non viene. Non si può sperare che si scriva da sé. L’ispirazione non piomba sulla testa come un bel regalo: bisogna stimolarla .»

E come? Semplicissimo: lavorando. Ovvero scrivendo e studiando nei minimi dettagli ogni componente del romanzo: ambienti, personaggi, situazioni storiche e sociali, luoghi, cose, nomi. Procedendo ad accuratissime ricerche di biblioteca e archivio, a precise esperienze sul campo. Per scrivere Come il mare, per esempio, Wilbur Smith ha passato diverse settimane a Londra, a studiare i meccanismi degli assicuratori Lloyds, e poi in Francia, a vedere come si costruiscono navi e petroliere, e poi in America, per imparare tutto su venti, correnti e coste dei mari caraibici (sapendo già ciò che bisogna sapere su quelli della punta meridionale dell’Africa e ancora più giù, verso l’Antartide: casa sua). Infine, giorni e giorni su alcune superpetroliere, quando il Canale di Suez era chiuso ed esse erano costrette a passare per il Capo di Buona Speranza.

Ma fa tutto da solo o ha uno staff di collaboratori?
«Certo che ho uno staff», è stata la sorridente risposta. «Naturale. Eccolo lì davanti a lei: Danielle. È stata insegnante, sa leggere a una velocità incredibile, ha una straordinaria abilità nel fare ricerche. E anche nel dare consigli. A un certo punto la vicenda del romanzo mi prende la mano, mi suggerisce nuove idee, nuovi sviluppi. E’ allora che, in veste di consigliera e per le ricerche, entra in funzione mia moglie. Altre volte, davanti a qualche mio personaggio maschile eccessivamente macho, o a qualche donna della cui psicologia le sembra che io non abbia capito nulla, inorridisce letteralmente. E io ascolto il suo parere. Non sbaglia mai.»

D’accordo. Ma pilotare un caccia supersonico sopra le alture del Golan e dintorni, tra Israele e Siria, come in Un aquila nel cielo?

Il sorriso di Wilbur Smith è molto franco, molto simpatico. «Come le ho già spiegato», ha risposto, «io amo scrivere di cose che conosco direttamente. Ne discende come corollario che, in casi come questi, faccio personalmente uno studio sul campo. Ho il brevetto di pilota, ma naturalmente non quello per i jet da combattimento, e allora, in quell’occasione, siccome si trattava precisamente di un Mirage israeliano e non di un altro jet, ho passato ore e ore nel simulatore di volo di un aereo di quel tipo.»

La vita di Wilbur Smith, da quando nel 1933 è nato in Rhodesia del Nord (ora Zambia), si è quasi tutta svolta nei territori meridionali dell’Africa: le due Rhodesie, Sudafrica, Namibia. E lì — con non pochi excursus a New York, Londra, Roma, Atene, Tel Aviv eccetera — sono in larghissima misura ambientati i suoi romanzi, in questo secolo come in quello passato, su uno sfondo storico-sociale sempre ricostruito con la massima precisione. Parallelamente alla (fino a ora) "eptalogia sudafricana" (o "Ciclo dei Courteney"), la (fino a ora) "tetralogia rhodesiana" (o "Ciclo dei Ballantyne"), anch’essa splendida, almeno fino al terzo romanzo. Oro, diamanti, esploratori, cacciatori, cercatori, zulu, boscimani, leoni, gazzelle, navi negriere, petroliere oceaniche, aerei da combattimento, adolescenti stupendi, fanciulle dolcissime o proterve, amori appassionati, amicizie imperiture, uomini poderosi, donne intrepide o tenere, terroristi, mercenari, spioni, traditori, furfanti, amore e odio, linfa e sangue, vita e morte. Un miscuglio travolgente. E assai spesso affascinante. Sempre coinvolgente. Quasi sempre di grande credibilità, almeno fino a un certo punto nella produzione narrativa di Wilbur Smith, ovvero fino a quando la smisurata dilatazione della vicenda e l’esigenza di tenere viva l’attenzione mediante il tambureggiare dei colpi di scena non ha portato a un certo barocchismo dell’azione accompagnato da una qualche farragine nel concatenamento degli eventi, oltre che a un sostanziale abbassamento del livello della scrittura.

Nessun altro collaboratore, dunque? E la funzione di Rachel Monsarrat, suo "fedele editor" da diciotto anni? «Rachel è una cara amica e una collaboratrice insostituibile. I suoi compiti sono fondamentalmente di uniformazione generale, di "controllo dei fatti": nomi, luoghi e soprattutto date. Quando la vicenda si sviluppa così a lungo nel tempo, è sempre possibile commettere uno scambio di persona o un altro errore del genere.»

Ma com’è stata la vita di Wilbur Smith nelle remote terre africane in cui si è svolta?

«Mio padre era un allevatore benestante, quindi ho avuto un’infanzia molto tranquilla. Ma nel paese non c’erano scuole, per cui ho frequentato quelle del Sudafrica. Poi, finita l’università, mi sarebbe piaciuto fare il giornalista, ma mio padre non ha voluto sentirne parlare. "I giornalisti muoiono di fame, figliolo", mi ha detto. Così ho dovuto fare il contabile. Il più malinconico e annoiato dei contabili, sempre roso dal tarlo dello scrivere. È stato allora che, di notte e nei ritagli di tempo, ho scritto il mio primo romanzo, riempiendolo di tutti gli errori tipici della prima opera di un dilettante. Una gran confusione. E parecchia presunzione. L’ho mandato a non so quanti editori, che l’hanno respinto tutti. Bene, mi sono detto, evidentemente il mestiere dello scrittore non è my cup of tea, il mio pane. Poi è successo un miracolo. Una agente letteraria di Londra, a cui avevo mandato il manoscritto, dopo un anno circa mi ha mandato una lettera per chiedermi se per caso avessi scritto qualcos’altro. Le ho risposto che mi era sembrato meglio smettere. Peccato, ha replicato, perché nel suo testo c’era molto di buono. Allora, trovato nuovo entusiasmo — spezia fondamentale dell’attività letteraria, come ho già detto — ho scritto Il destino del leone. E a quel punto è successo un altro miracolo. Un editore mi ha ha risposto nel giro di una settimana.»

E da allora Wilbur Smith è immerso in un grande fermento di vivere e fare, una tensione da cui esula totalmente l’idea che l’attività dello scrittore possa essere sofferta come una tetra miscela di infelicità e solitudine. Solitudine forse sì, ma — nella filosofia di Wilbur Smith — soltanto per mettere meglio a profitto le mille sfaccettature dell’ispirazione narrativa visionaria.

Singolarmente, nello humus sudafricano-rhodesiano che costituisce il tessuto connettivo di così larga parte dei mastodonti narrativi di Wilbur Smith, compare una grande quantità di personaggi che scrivono memoriali o testi di storia, se non addirittura romanzi. Come mai? Dipende solamente dal fatto che il narratore in tali personaggi riflette se stesso, oppure in quella cultura l’attività scrittoria è un fatto veramente tanto diffuso, che suscita tante aspirazioni e tanto rispetto?

«Molti di coloro che si sono inoltrati nei territori dell’Africa meridionale erano consapevoli di stare compiendo un atto rilevante sotto il profilo storico. Quindi mettevano tutto per iscritto, probabilmente anche sperando nel successo letterario, certamente per lasciare traccia della propria attività a futura memoria, ma se non altro per ricordare a se stessi e fornire agli altri le coordinate geografiche dei luoghi che scoprivano. Così in quella gente, la mia gente, è rimasto il grande gusto per la scrittura (e per la lettura) che ho anch’io e che attribuisco a tanti miei personaggi.»

Wilbur Smith frequenta gli altri scrittori sudafricani?

Li conosce, naturalmente. Cita Nadine Gordimer, Andre Brink, Etienne Le Roux, J. P. Coetzee, Elsa Joubert tra i bianchi. E Credo Mutwa tra i neri. Dice di conoscerli e di stimarli. Soprattutto i giovani e i neri, molto impegnati sul piano politico. Ma non li frequenta un granché. «Come lei certamente sa», mi ha spiegato, «noi scrittori amiamo molto parlare della nostra tecnica. Tuttavia questi autori fanno cose molto diverse da me e non credo che le loro idee servirebbero molto a chiarire le mie. Temo, al contrario, che rischierebbero di alterare il mio stile. E’ mio, me lo sono costruito in anni di lavoro, e ci tengo. Preferisco frequentare gente comune — coltivatori, medici, professionisti —, che è quella cui mi rivolgo e su cui modello i miei personaggi e le mie storie.»

Arriveranno mai a incrociarsi le vicende dei protagonisti dei due grandi cicli africani, i Courteney e i Ballantyne, o dei loro comprimari e discendenti? «Non posso rispondere. Come faccio a sapere che intenzioni hanno veramente i miei personaggi?»
E con quale strumento vengono elaborati tali vicende e simili imprevedibili personaggi? Penna, macchina, wordprocessor? La risposta è arrivata senza parole. Infilatosi una mano nel taschino interno della giacca, Wilbur Smith ne ha estratto una bella, panciuta, antiquata penna stilografica.

Un ritratto (1995)


Che cosa spingeva i faraoni egizi a farsi costruire gli inaccessibili monumenti funerari che conosciamo, a farsi condizionare le spoglie mortali in modo da poter affrontare l’eternità? Non c’è dubbio: una ferrea volontà di autoproclamarsi dio. È probabilmente l’assunto da cui è partito Wilbur Smith per la sua ultimissima fatica letteraria, Il settimo papiro, che la Longanesi pubblica in questi giorni. In prima edizione mondiale, si badi bene! La vicenda delle fortune di Wilbur Smith, infatti, è veramente singolare. Acclamato in tutto il Commonwealth come leader degli scrittori di avventure, (ma non negli Stati Uniti, dove pare qualcuno avesse dichiarato: "Uno che si chiama Smith non potrà mai diventare famoso"), negli anni '70 venne pubblicato da due importanti editori italiani. Ma l’esito fu di scarsa soddisfazione, tant’è vero che l’autore venne lasciato cadere. Così, nel '79, Mario Spagnol poté ottenere per la sua Longanesi, con un anticipo praticamente nominale, il romanzo che sarebbe diventato il boom-seller Come il mare. E da allora il successo non è mai cessato, se è vero che la stessa Longanesi può vantare che, dei suoi venti romanzi pubblicati in Italia, siano state vendute circa 6 milioni e mezzo di copie, dalle 40.000 di Come il mare alle 162.000 di Il dio del fiume. Con il passare del tempo, quello italiano è con ogni probabilità diventato il suo massimo mercato.

È appunto dai fasti di Il dio del fiume, immaginifico romanzo storico ambientato in un antico Egitto a metà tra storia e visionarietà, che prende le mosse Il settimo papiro. È largamente noto: Smith ama procedere per opere che si collegano l’una all’altra in un unica, sterminata narrazione, dalla saga dei Courteney (8 romanzi) a quella dei Ballantyne (4 romanzi) a quest’ultima, arrivata al secondo volume e presumibilmente destinata a proseguire, visto che si chiude con un matrimonio in cui si può prevedere che gli sposi vivranno a lungo, felici e avventurosi. Parlare di questa chiusa del libro non significa rivelare niente, perché Il settimo papiro, come tutti i romanzi di Smith, è un autentico fuoco d’artificio di trovate, colpi di scena, espedienti narrativi, battaglie, esplosioni, catastrofi, sangue, carne, amore e morte. Se nel romanzo precedente si ipotizzava che uno schiavo-scriba di profonda cultura e astuzia avesse fatto sparire il corpo del suo amato faraone in una tomba celata chissà dove sull’alto corso del Nilo, in questa seconda sezione si parte alla scoperta della tomba. La si trova? È questo il vero finale, e dunque non si può svelarlo. È proprio nelle asperità e nelle delizie della ricerca (in terra di Etiopia, tra le sponde impervie e sulle rapide tumultuose dell’Alto Nilo) che corre il flusso inarrestabile della vicenda.

Va tuttavia detto che non soltanto i re e faraoni del mondo antico desideravano strenuamente porre se stessi come divinità: è un’aspirazione propria di tanti esseri umani. È un peccato di immodestia di cui, per esempio, chi più chi meno, si rendono responsabili tanti romanzieri. Quando si accinge a scrivere un romanzo, lo scrittore, con maggiore o minore consapevolezza, ritiene di levare una sfida a Dio, di porsi come creatore di un mondo "altro", "parallelo" a quello già creato. Lo dichiarava senza mezzi termini in un’intervista, qualche anno fa, il maestro del techno-thriller Thomas Clancy. Molto più sommessamente, invece, e con ben superiore sottigliezza, Isaac B. Singer scriveva in uno dei suoi ultimi romanzi: «Dio è un romanziere, e il mondo è il suo romanzo». Un concetto immediatamente speculare all’altro. Da un simile peccato non poteva certamente rimanere immune Wilbur Smith, che del romanzo contemporaneo è uno dei massimi fenomeni.

Nella sua mente, realtà e fantasia, storia e leggenda, informazione e visionarietà vanno intimamente a braccetto, con immenso vantaggio dell’universo-libro. Leggendo questo suo ultimo romanzo, per esempio, il lettore appena avvertito non può fare a meno di andare a documentarsi per controllare come minimo chi erano gli hyksos, che cos’è stata la biblica Cush, come diavolo è fatto il Nilo tra Etiopia e Sudan, su quali dati reali sono basate le figure romanzesche del faraone Mamose e dello scriba Taita. Libri che nascono da libri, dunque, e che rimandano ad altri libri, in un processo interattivo che può essere soltanto benefico. E lassù, al vertice della Piramide, ecco assiso lui, l’aspirante dio del romanzo d’avventura: Wilbur Smith. Nella realtà dei sessanta milioni di copie vendute come nella finzione romanzesca.

Lo avevamo già riconosciuto in diversi personaggi, e in particolare nel protagonista di La notte del leopardo, lo scrittore Craig Mellow, una delle tante figure romanzesche sotto cui — con adeguate pennellate di colore e ritocchi saporosamente gaglioffi — Smith ama nascondersi. Ma con Il settimo papiro Wilbur supera addirittura se stesso. Qualche critico ha storto il naso per la ricostruzione storica di Il dio del fiume, dimenticando che un romanziere non è un papirologo e dunque ha diritto alla libertà della sua fantasia? Benissimo, nell’ultimo romanzo Wilbur Smith inserisce addirittura se stesso: facendo parlare animatamente i suoi protagonisti, lo scrittore Wilbur Smith espone le critiche a lui dirette (cioè, da lui stesso ricevute) e le smantella a una a una. Chi può criticare credibilmente una divinità, infatti, se non la divinità stessa? Il cerchio si chiude, Wilbur si cela accigliato dietro le nubi dell’Empireo.

A che cosa è dovuto il suo immenso successo? Anzitutto a una ferrea coscienza professionale, a un rispetto assoluto per i lettori, alla chiarissima consapevolezza che da loro e soltanto da loro derivano le fortune di chi scrive. Poi a una capacità perlomeno eccezionale di elaborare autentiche macine narrative, in cui una ridda di personaggi, una volta completata una vicenda, è spesso già pronta per un’altra. È così che sono nati i suoi celebri cicli narrativi. Un successo, ancora, dovuto a una straripante capacità di ambientare personaggi e vicende. Lui sostiene con vigore di no, ma nel tempo Wilbur Smith deve essersi creato uno staff di collaboratori di primissimo ordine, capaci di effettuargli ricerche di ogni genere, mettendolo in grado di informare minuziosamente il lettore su tutto: sulle scuole di medicina inglesi dell’800 come sulla corsa ai diamanti e all’oro nei territori africani, sull’attrezzatura e le tecniche di guida del modernissimo Mirage come su quelle del Sopwith Pup della Grande guerra, sulla legislazione antischiavista come sulle superpetroliere giganti, sulla storia e il folclore di zulu e matabele come su quello di egizi e hyksos, su una cerimonia religiosa copta etiope come su una festa di nozze in Israele. Un’abilità inesorabile, che fa stagliare personaggi, oggetti e luoghi davanti agli occhi del lettore come in un film coloratissimo. Più di un film, anzi, come si vedrà.

A chi sono destinati i suoi romanzi? A tutti, si direbbe, a giudicare dai numeri. Ma con un deciso mutamento di rotta. Un tempo Wilbur Smith si rivolgeva anzitutto al pubblico dei lettori maschi. Le sue vicende di caccia al leone, ai diamanti e all’uomo nei selvaggi territori africani lasciavano poco spazio alle donne. I maschiacci protagonisti preferivano stare virilmente tra loro, prendersi a fucilate, scannarsi e sbudellarsi a vicenda con turpe soddisfazione di macho, ma anche dormire stretti l’uno all’altro nel corroborante afrore di un bivacco notturno. Ma con il tempo qualcosa (sua moglie, la scrittrice Danielle Thomas?) deve averlo avvertito che il sistema non funzionava più così bene. L’altra metà del cielo — le donne — incalza. E i romanzi li leggono essenzialmente loro. Così, le tremende virago dei suoi primissimi romanzi — femmine senza cuore, capaci soltanto di tradire quegli onestissimi babbalocchi dei loro uomini —, e le insopportabili rompiscatole a metà tra l’esploratrice indomita e la missio-pasionaria integralista, a poco a poco si sono trasformate in donne superlative nell’azione come nell’amore, da Centaine de Thiry di La spiaggia infuocata fino a Royan Al Simma di Il settimo papiro. Ancora una volta l’ottimo Wilbur ha capito il trend giusto, e il suo pubblico si è moltiplicato.

Ne ha capito anche un altro, di trend, con fatale anticipo. I suoi romanzi, infatti, mostrano un’eccezionale capacità di muoversi contemporaneamente su diversi piani narrativi: mentre in alcune pagine il lettore sta seguendo con passione la decifrazione di una specie di partita a scacchi con l’antichità dei faraoni, in altre pagine appena contigue ci sono i cattivi che organizzano la loro perfida offensiva armata; e in altre ancora i buoni che si apprestano alla difesa con tutti i mezzi possibili: la geografia si affianca alla storia, la scienza corre in soccorso della tecnica; ti sembra di essere lì a costruire una diga sul Nilo, a far volare un Hercules sul deserto, a usare con precisione millimetrica un teodolite o un raffinato fucile da caccia grossa. Ti sembra, insomma, di assistere non a uno solo ma a tre o quattro film in contemporanea.

Tutto questo, nel gergo odierno della comunicazione, si definisce con un termine preciso: multimedialità. Sì, forse Wilbur Smith non ce l’ha ancora fatta a diventare il dio del romanzo di avventura; di sicuro, però, è l’inventore di un genere letterario del tutto nuovo: il romanzo multimediale.

Consigli dal vivo. In Sudafrica con lui (1995)

Andare a pesca fa evidentemente bene all’umore e persino alla pelle. Ne è una dimostrazione vivente l’allegrissimo Wilbur Smith con cui pranzo in un esclusivo ristorante milanese. È appena tornato da un soggiorno in Oregon dove è andato a pescare "sea run trout", che è la "trota di risalita" dal mare verso il fiume d’origine. Deve averne prese tante, a giudicare dalla luce che gli brilla nell’occhio furbo, appena sotto la $ dei dollari. Si è preso una non breve vacanza di pesca approfittando dell’invito a tenere un discorso a una convention dell’International Safari Club, tra le miriadi di slot machine e le statue greco-romane rifatte di Las Vegas. Altra località che gli fa brillare gli occhi.

Grande viaggiatore, Wilbur Smith, come del resto si capisce chiaramente dai suoi romanzi. Mari, monti e deserti per lui non hanno segreti. Approfittiamone dunque per farci dare qualche indicazione. Leggere i suoi romanzi significa, a poco a poco, farsi prendere una specie di culto dei territori sudafricani. Una gran voglia di visitarli. Foreste vergini, monti altissimi, mari esotici, animali selvatici, laghi, fiumi, miniere. Allora, Wilbur, ci dai qualche consiglio? Lui, nato in Rhodesia del Nord — ora Zambia — ma cresciuto e residente in Sud Africa, ama appassionatamente la sua terra. Quando non è in giro per il mondo, o a caccia "ecologica" nella sua tenuta di 27000 acri nel cuore selvatico del Sud Africa, o a riposare nella casa delle Seychelles, vive a Cape Town, sulle pendice di Table Mountain. Non si fa pregare per rispondere.

«Sì», dice, «è veramente diventato un paese di grande interesse. Ma il primo consiglio che mi sento di dare è di non illudersi di poterlo visitare tutto in un viaggio solo. Non fidatevi più di tanto dei "package" offerti dalle agenzie. Il paese è troppo vasto, un’immensa estensione di quella che in Sud Africa chiamiamo MMBI.»

Cioè? «"Miles and miles of bloody Africa"», risponde Wilbur Smith, abbandonandosi a una delle sue risate contagiose. Miglia e miglia di schifosa Africa. «Quindi», riprende, «dieci o quindici giorni possono bastare soltanto per vederne una piccola parte.»

Be’, avviamoci a visitare almeno questa. Dove si va? «I centri urbani sono molto distanti l’uno dall’altro, e in mezzo non c’è un granché da vedere. Voglio dire, paesaggi magnifici se visti dall’aereo o dal treno, ma un po’ ostici da percorrere con mezzi propri. Secondo me i posti più belli e verdi sono lungo la costa a est di Cape Town, sull’Oceano Indiano.» Dove, naturalmente, lui ha un’ennesima casa. «Eh, be’, sì, però ci va soprattutto mia moglie. Lei lì a fare surf e io a caccia nel ranch. Il nostro cottage è su una spiaggia di sabbia bianca lunga 15 chilometri. Quando ci si vedono tre persone in tutto pensiamo che c’è una folla tremenda. Siamo a circa 300 chilometri da Cape Town, ma è soltanto una delle moltissime spiagge che ci sono su quella costa. Tutte bellissime. Quindi il mio consiglio è di visitare Cape Town, che è una città gradevole, di taglio e impianto mediterraneo, e poi noleggiare un’auto e avviarsi in quella direzione. Senza rimanere soltanto sulla strada maestra — la Garden Route —, ma prendendo le molte traverse che scendono al mare. Si incontrano moltissime piccole località di soggiorno. Belle spiagge, baie incantevoli, vegetazione insolita, alberi esotici, aiuole di fiori mai visti. Non c’è nessunissimo rischio. È come viaggiare in Europa. I rischi si possono incontrare, e gravi, in certi spaventevoli agglomerati urbani come Soweto, posti che è meglio evitare, ma non certamente lì e nemmeno nell’interno.

«Il quale interno significa belle montagne, come il Drakensberg, i Monti dei Draghi", così chiamati perché sono come una lunga coda scagliosa che scorre trasversalmente per 1100 chilometri, dal Transvaal fino alla provincia del Capo; picchi innevati che raggiungono quasi i 3500 metri, paesaggi stupendi. Al di là, l’interno vero e proprio è un po’ tetro. Johannesburg, dal canto suo, è una città terribile, che è nata e vive unicamente in funzione delle miniere d’oro. Non vale la pena di perderci molto tempo. Certo, gli aerei arrivano lì, dopo un volo di otto, nove ore dall’Europa, ma conviene andarsene subito. Per Cape Town sono un altro paio di ore di aereo. Però, per questo itinerario, io consiglio un’altra cosa. Il viaggio con il Blue Train. Un vecchio treno coloniale le cui carrozze sono state completamente ristrutturate. Un percorso di diciotto ore, più o meno, molto comodo e scenograficamente bellissimo. Si guarda il paesaggio, si cena con ottimi vini, si dorme in carrozza letto e il mattino dopo si è a destinazione.»

Quindi il consiglio sarebbe di andare a Johannesburg in aereo, proseguire da lì per Cape Town con il Blue Train e poi girare in auto sulla East Coast? «Esattamente.»

Si trovano facilmente posti dove fare tappa? «Con estrema facilità. La zona è piena di locande e alberghetti.»

E i costi? «La vita è molto economica.»

Molto? «Sì, molto. Suppergiù un quinto di quello che si può spendere in Europa per avere le stesse cose. Con un rand, che vale circa un quinto di sterlina, si può infatti consumare l’equivalente di una sterlina. L’unico vero costo che si deve affrontare è il volo dall’Europa a lì.»

E la caccia? «C’è un’infinità di posti. In effetti il Sud Africa esercita una grande attrazione sui cacciatori. E la caccia rappresenta una grossa fonte di reddito per il paese. Quindi, almeno da qualche tempo, il governo la tiene sotto uno stretto controllo, facendo in modo che vengano eliminati soltanto gli animali in eccesso, che costituiscono un danno irreparabile per le colture e non servono più per la riproduzione, e occupandosi del ripopolamento. Ma non è sempre stato così. Il mio ranch, per esempio, quando l’ho comperato era praticamente spopolato di uomini e animali. L’ho ripopolato io. Adesso ci vivono ventitré varietà di animali africani, tenuti costantemente sotto controllo da dodici famiglie alle mie dipendenze. Però ci vado a caccia soltanto io, con mio figlio medico. I visitatori vengono tenuti cortesemente a bada. Fuori di lì, però, si può andare a caccia praticamente ovunque.»

Qualche nome di località? «Sono migliaia. Ci metterei mesi a dirle tutte. Ma qualsiasi ufficio per il turismo in Sud Africa, anche qui a Milano probabilmente, è in grado di dare tutte le indicazioni del caso. Per quanto concerne la pesca, direi invece proprio che ci sono posti migliori.

Come l’Oregon? «Certo. O la Scandinavia. O la Russia, se si ha un particolare gusto per il pesce radioattivo. Il Sud Africa, invece, è un paese arido, i fiumi si asciugano, quindi il pesce muore. No, consiglierei proprio di andare a pescare altrove.»

Tanto più che pare proprio che le cose da fare, nel paese, non siano poche. Ma qual è la stagione migliore per andarci?

«Attorno a Pasqua, senz’altro, che è il nostro autunno. O anche nel vostro autunno, tenendo conto del ribaltamento delle stagioni nell’altro emisfero. Il nostro inverno, che è la vostra estate, può essere discretamente freddo. In montagna nevica, soffia un vento molto freddo.»

All right, Wilbur, grazie mille, verrò a trovarti a Table Mountain a Pasqua. «Benissimo, però quella del ’96, quando sarò lì a scrivere un nuovo libro. Il ’95 lo dedico al riposo e ai viaggi.»

Incontro e recensione: “Il settimo papiro” (1995)

A (Incontro per "Il settimo papiro")

Madame Bovary sono io, diceva Gustave Flaubert. Scherzava, ma non troppo. Intendeva dire che, come i grandi attori in scena, anche il bravo scrittore dev’essere capace di entrare alla perfezione nei panni di tutti i suoi personaggi. Ne va della sua credibilità. Di conseguenza, quanto più vasta e articolata è la vicenda che racconta, tanto più lo scrittore deve saper essere Proteo e camaleonte, uomo e donna, giovane e vecchio, benefattore e furfante, oggi e in ogni tempo. E quali vicende più vaste e articolate capita di leggere nel romanzo di oggi di quelle che inventa la mente febbrile di Wilbur Smith? Grande cacciatore e spericolato lupo di mare, scrittore e pilota di jet da combattimento, cacciatore di diamanti e di leoni, combattente di un’intera sfilata di guerre da quelle mondiali a quella dei Boeri, corsaro schiavista e comandante di Sua Maestà Britannica... Dei panni di tutti questi personaggi e di altre decine ancora ha saputo vestirsi nel tempo Wilbur Smith. E, parallelamente, di quelli di decine di donne, ardimentose e dolci, spietate e amorevoli, intrepide e trepidanti. Nel penultimo romanzo, Il dio del fiume, che per ora rimane il suo massimo successo mondiale (162.000 copie vendute soltanto in Italia), ha indossato probabilmente i panni più complicati, quelli di uno scriba egizio di qualche millennio fa. Un artificio che gli ha consentito di reinventare un mondo quasi sconosciuto. Infilatosi nei panni dello scriba Taita, e raccontandoci una vicenda come sempre affascinante, Wilbur Smith ha fatto rivivere un mondo scomparso da millenni. Come se lo avesse visto lui, con i suoi occhi di viaggiatore incantato.

Adesso il viaggiatore incantato è qui davanti a me, in carne e ossa, con una bella aria soddisfatta e distesa, pronto ad affrontare un ennesimo gioco di travestimenti. Gliel’ho proposto e lui ha immediatamente accettato, con il suo tipico entusiasmo e una delle sue franche risate. Wilbur, gli ho detto, per scrivere Il dio del fiume (e poi Il settimo papiro) ti sei (e ci hai) fatto rinascere davanti agli occhi l’antico Egitto con la sua cultura, i suoi riti, le sue usanze quotidiane. Adesso facciamo il contrario. Trasformati ancora una volta nello scriba Taita e guarda il "nostro" mondo con gli occhi di un egizio. Insomma, se Taita, aggirandosi per le diaboliche tombe di faraoni che sapeva escogitare, inciampasse per avventura in una macchina del tempo e fosse catapultato oggi nel nostro tempo tumultuoso, che reazione avrebbe?

«Di confusione, credo, prima di tutto. Sarebbe frastornato dalla velocità che abbiamo saputo imporre a ogni cosa. La trasmissione delle informazioni, per esempio. Lui, che i suoi papiri, scritti per lasciare ai posteri una traccia del suo mondo, li componeva pazientemente a mano, lettera per lettera. Adesso, invece, sulle autostrade elettroniche dell’informazione i dati corrono a miliardi nel giro di qualche microsecondo. Tutte le nozioni raccolte dal mondo antico in secoli e secoli di laborioso impegno amanuense possono essere trasmesse tra un computer e un altro ai due capi del mondo in un battito di ciglia. La velocità della nostra vita credo che gli farebbe perdere la testa. Il proliferare di ogni cosa — strade, edifici, persino gli individui — andrebbe totalmente al di là delle sue capacità di immaginazione, ne sarebbe sconvolto. Io stesso, nei miei panni, sento di quando in quando l’urgenza di ritirarmi nel mio ranch sudafricano, tra gli animali selvatici, per rimettermi in sesto dallo stress delle trasformazioni quotidiane che subisce il nostro mondo. Secondo me, questo dilatarsi a dismisura di informazioni e nozioni genera in noi uno stress grave quasi come le peggiori malattie incurabili. Figurarsi per uno scriba venuto dall’antico Egitto. Credo che se Taita capitasse qui, il suo primo impulso sarebbe di precipitarsi di nuovo nel suo mondo, dove la vita era infinitamente più facile, più semplice, di una qualità migliore.»

Infatti, a proposito di quella vita, della sua qualità e delle sue usanze, nel Settimo papiro si legge per esempio: «Io pianto il seme e vendemmio l’uva e raccolgo le spighe... seguo il ritmo delle stagioni e coltivo la terra». Espressioni delicate ma accompagnate da altre, ardite, ambigue. Per esempio: «Egli giace nella valle dei mille congiungimenti, dell’infante con la madre, dell’uomo con la donna, dell’amico con l’amico, del maestro con l’allievo, del sesso con il sesso». Espressioni che fanno pensare a un mondo privo di ipocrisia e quindi di vere complicazioni sessuali. Che cosa penserebbe Taita di fronte alle nostre contorte usanze sessuali?

«Penserebbe con ogni probabilità che non è cambiato niente. Tutto sommato, per quanto ci si possa sfrenare con la fantasia, dal punto di vista fisico e meccanico l’attività sessuale è piuttosto limitata nelle sue manifestazioni. Sono quelle e sono sempre state quelle. Certo, nel Dio del fiume e poi nel Settimo papiro io attribuisco al mondo egizio una libera e serena trasgressività sessuale che da noi non è probabilmente più concepibile se non in termini di grave pericolo. Il genere umano è arrivato a rischiare l’estinzione per colpa di certe orribili malattie che si diffondono fulmineamente anche attraverso i rapporti sessuali. Siamo stati costretti a diventare più prudenti. Comunque, non credo che Taita avrebbe il minimo motivo di sorprendersi. Anche senza risalire all’antico Egitto, basta andare a vedere certi dipinti delle case di Pompei. Leggere Petronio Arbitro o l’Antologia palatina. La trasgressione è sempre stata praticata, e probabilmente con molto più entusiasmo di oggi. Lo stupirebbe probabilmente molto di più il profondo modificarsi di ruoli che c’è stato. Non ne capirebbe il senso. Donne in carriera e uomini in casa. Uno scambio di ruoli che, diffondendosi, allargandosi, facendosi più sentito, potrebbe portare a una profonda crisi della nostra cultura. Tante donne che hanno abbandonato le attività tradizionali del ruolo femminile cominciano ad avvertire un vuoto nella loro vita. E, allo stesso titolo, tanti uomini che si sono imposti di sacrificare il loro impulso a essere colui che provvede alla famiglia, che procura il cibo, i mezzi di sostentamento, la difesa, soffrono una crisi profonda.»

Questo lo pensa Taita, naturalmente. «Ah, sì, sì, certo, lo pensa Taita.» E, sempre il nostro scriba, come reagirebbe di fronte al ruolo assunto dalla lotta per il potere nella nostra società? «Credo penserebbe che non è niente in confronto a quelle di un tempo. La vicenda che racconto nel Dio del fiume, per esempio, la guerra degli egizi contro gli invasori hyksos: un intero popolo, un’intera civiltà minacciati di distruzione totale. Nel nostro mondo, per quanto controllata o compressa, la voce della gente, dell’uomo comune, arriva a farsi sentire, è una forza autentica. Chi governava, allora, invece, deteneva il potere assoluto di vita e di morte, era un dio in terra.» Per questo, infatti, si faceva costruire un monumento funebre destinato a sfidare il tempo. «Esattamente. Quindi, sotto questo profilo, Taita potrebbe soltanto pensare che c’è stato un grande progresso.»

E il denaro? L’idea che ne abbiamo, l’uso che ne facciamo, il ruolo che ha assunto nel nostro mondo. «Il denaro è una grande invenzione. Uno strumento straordinario. Pensa a com’è diventato più facile accumulare la ricchezza, rispetto a una volta, e nasconderla. Un tempo essere ricchi significava possedere grandi masse di oro, avorio, pietre preziose, greggi, mandrie, roba visibilissima, difficilissima da nascondere e quindi facile da saccheggiare. Adesso basta un rettangolino di carta, una semplicissima operazione elettronica per trasferire o nascondere ricchezze un tempo impensabili.» Però Taita rimarrebbe forse perplesso davanti al diverso rapporto che esiste oggi tra ricchezza e potere. Avere l’oro, un tempo, significava di per sé comandare. Avere denaro, adesso, non lo implica necessariamente. «No, Taita non sarebbe affatto d’accordo. Un’immensa quantità di denaro — mai al di fuori delle possibilità di un uomo, per quanto imponente — consente tutto. Di comperare ciò che si vuole, qualsiasi amore, qualsiasi sfizio, qualsiasi personaggio politico.» Come fa, per esempio, il supercattivo del Settimo papiro. «Infatti. E come avrebbe potuto fare, un tempo, chi disponeva di una grossa quantità di oro. Senti, a scuola mi è stato insegnato che le monete sono piatte proprio perché le si possa accumulare una sull’altra e rotonde proprio perché possano circolare. Quindi, ripeto, il denaro è forse una delle più grandi invenzioni di tutti i tempi.»

E se lo dice lui, che avendo venduto nel mondo sessanta milioni di copie dei suoi libri appartiene di diritto all’ambito degli individui aureolati da undici zeri in banca, c’è da crederci. Anche se, ovviamente, a partecipare al nostro gioco del tempo non era lo scrittore sudafricano Wilbur Smith ma lo scriba egizio Taita.

B (Recensione "Il settimo papiro” - Corriere della sera, 13 marzo 1995)

Come piace, al lettore di Balzac, ritrovare di romanzo in romanzo lo scettico Rastignac, o il proteiforme Vautrin, o l’infelice Lucien. Nonché tutta la sequela di dame, damazze, bottegai e piccoli funzionari che costituiscono la tessitura della Commedia umana. E il capitano Nemo, che ricompare nell’Isola misteriosa? E lo sfuggente Marlow di Conrad? Il romanziere "di lunga distanza", lo scrittore "onnisciente", il "dio" della narrazione, impegnato a creare un mondo "altro", "parallelo" a quello della realtà, rimane affezionato ai suoi personaggi, sa sempre dove sono, di libro in libro, che cosa stanno facendo o pensando, godendo o soffrendo. I narratori veri, nella loro coazione a inventare storie, fanno così, se li portano dietro come una folla di amici. Per loro, la realtà inventata vale almeno quanto quella autentica. Anche se, ovviamente, "vero" non significa necessariamente "grande: sono giudizi che è meglio lasciare al tempo.

Narratore vero per eccellenza, in ogni caso, autentico demiurgo di un mondo fittizio (da fiction) parallelo a quello reale, incontenibile romanziere "di lunga distanza" è Wilbur Smith. Le sue storie dilagano a macchia d’olio per trilogie, quadrilogie e oltre: otto romanzi (fino ad adesso) per la saga del sudafricano Sean Courteney con parenti, amici, nemici, discendenti, fuochi, tuoni e leoni; quattro per le infinite complicazioni della rhodesiana famiglia Ballantyne. Sempre in un profluvio di oro, diamanti, avorio, jet, petroliere, velocissimi schooner, in un groviglio di sterminate ricchezze perdute e riconquistate in un batter di ciglia, a fucilate o con straordinari colpi d’ala in borsa. Procedimento rozzo, secondo qualcuno. Strepitoso, a giudizio di un’imponente massa di lettori (60 milioni nel mondo). E, comunque, nobilitato da straordinari squarci di antropologia narrativa o di descrizione naturalistica. Sta di fatto che mollare un libro di Smith una volta che si è cominciato a leggerlo è impossibile. (Dopo di che si prosegue fatalmente con i seguiti.)

A dare corpo a un nuovo, fluviale ciclo narrativo sembra destinato il recentissimo Il settimo papiro — pubblicato in anteprima mondiale in Italia — insieme al suo predecessore, Il dio del fiume. Là, qualche migliaio di anni fa, un raffinato scriba egizio salvava dalla furia dei nemici e nascondeva in una tomba misteriosa e inaccessibile il corpo del suo faraone. Qui, oggi, una spavalda, giovane e bella archeologa parte alla riscossa, ovvero alla ricerca non già dell’Arca perduta ma della Tomba scomparsa, che non si sa bene se esista davvero: dal semidecifrato papiro sembrerebbe proprio di sì, ma dove l’avranno ficcata, lassù sull’Alto Nilo, nel cuore di quella che era la biblica Cush, a cavallo tra Sudan ed Etiopia?

Esplode il solito conflitto titanico — con il consueto pirotecnico sfoggio di documentazione su tutto, dalle tecniche di decifrazione dei geroglifici al disegno del manto di un animaletto selvatico, e con la consueta ridda di comprimari — tra i buoni e i cattivi, i primi rappresentati dall’indomita archeologa con il suo amato Lord inglese (un giovane gran signore di mira infallibile e cultura enciclopedica), i secondi da un livido megamiliardario tedesco, eroticamente flaccido e demenzialente maniaco delle antichità. I morti si sommano ai morti, le turpitudini alle turpitudini, le scoperte alle scoperte, i rischi fatali ai rischi fatali, gli amori agli amori. La posta in palio è di 50 miliardi soltanto per due gioielli dello scomparso faraone. Vale certamente la pena di mettere in piedi una specie di conflagrazione mondiale, con tanto di deviazione del letto del Nilo per mezzo di una rudimentale diga di macigni. Riusciranno i nostri eroi nel loro intento? Naturale: si può dare il caso di un romanzo di avventure privo di lieto fine? Il tipo di struttura narrativa non lo consente. Ma, prima, quanti colpi di scena, quanti tuffi al cuore, quanto fiato bloccato in gola. Un po’ grezzo, poco sottile? Sì, certo, a voler essere pignoli, ma è un tributo ineluttabile all’ansia visionaria di creare la famosa "meraviglia", che dovrebbe essere il fine irrinunciabile di ogni "poeta", ciascuno nella sua specificità.

Wilbur Smith, Il settimo papiro, Longanesi

Presentazione: “Gli uccelli da preda” (1997)

A chiunque aspiri a fare, a diventare qualcosa, succede di vivere un momento di grande incertezza: il timore di non farcela, di essere inadeguato all’impresa. Il sospetto, anche, di non avere ottenuto un sufficiente riconoscimento per il proprio impegno. Succede anche, ovviamente, agli aspiranti scrittori, con il risultato di vivere uno stato di delusione, di frustrazione. È successo a tutti gli scrittori alle prime armi, anche ai più grandi. E non soltanto quando erano alle prime armi.

Alla fine degli anni Settanta, per esempio, nel mondo, esclusa la componente formata dagli ex stati del Commonwealth Britannico, si aggirava un fantasma, che non era già quello del vecchio, ormai malandato comunismo di marx-engelsiana memoria, ma quello di uno scrittore che sembrava non avercela fatta, almeno a livello internazionale.

I venditori della casa editrice americana che stava tentandone il lancio negli Stati Uniti, mercato fondamentale per un’autentica affermazione a livello mondiale, se ne erano usciti con un parere perlomeno singolare: «Uno che si chiama Smith», avevano sentenziato sommariamente, «non diventerà mai famoso come scrittore». Di criteri critici o commerciali strampalati, chiunque viva in mezzo ai libri è costretto a sentirne moltissimi, e dei più disparati, ma questo è probabilmente il più balordo di tutti. Ci ha poi pensato la storia, come spesso succede, a smentirlo clamorosamente. Basti pensare ai due Smith perennemente in testa alle classifiche di vendita: Martin Cruz e Wilbur.

Alla fine di quegli anni Settanta, però, Wilbur Smith sembrava uno scrittore finito non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Italia (e in tutta l’Europa, Inghilterra esclusa). Tre suoi romanzi erano stati pubblicati da due importanti editori italiani, ma senza alcun successo. E l’insuccesso di tre libri è un risultato tale da rendere perlomeno problematica qualsiasi ipotesi di rilancio. Ma, come si dice, la fortuna aiuta gli audaci, e soprattutto chi tiene duro con coraggio e disciplina. Infatti...

Nell’estate del ’79 una acuta e fine lettrice, Elena Spagnol, tornò in Italia dall’Inghilterra portando con sé un corposo tascabile della casa editrice Pan. Spiegò di essersi incuriosita per averlo visto esposto in altissime pile ovunque: librerie, edicole, drugstore, supermercati, stazioni, aeroporti. L’aveva dunque comperato e letto, trovandolo un ottimo romanzo di avventura. Lo consegnò pertanto al marito, l’editore Mario Spagnol, che proprio in quei giorni si era messo al timone della Longanesi, consigliandolo di farlo leggere a un altro lettore onde valutarne a fondo le possibilità di pubblicazione in Italia.

In quegli anni io lavoravo appunto alla Longanesi e fui incaricato da Spagnol di leggere il romanzo, che era intitolato Hungry as the Sea. Lo lessi e rimasi fulminato. Mai mi era capitato di leggere in un romanzo contemporaneo un simile concentrato di avventura e tensione narrativa. Diedi il mio parere positivo: anzi, entusiastico. Nonostante i timori provocati dai cattivi risultati ottenuti in precedenza da Wilbur Smith, il romanzo fu pubblicato con il titolo Come il mare. Mai scelta avrebbe potuto essere più positiva. Ancora adesso, dopo diciassette anni dalla prima pubblicazione, Come il mare, in un suo ennesimo avatar di ristampa, campeggia ai primi posti nelle classifiche italiane dei tascabili e sembra intenzionato a rimanervi per chissà quanto tempo. Quante copie avrà venduto: impossibile ormai calcolarlo.

Alla Longanesi dirigevo l’ufficio stampa, ero incaricato di promuovere libri e autori, e in quanto tale provvidi al lancio anche di Come il mare e al rilancio di Wilbur Smith. Mi feci dunque mandare dalla casa editrice inglese i ritagli di stampa in quella lingua, per vedere se potevo trarne qualche spunto per il mio lavoro. Non mi servirono quasi a niente: il mercato librario italiano è molto particolare e richiede tecniche molto specifiche. Ma leggendo quei ritagli mi imbattei in una frase che feci mia e che poi è rimasta appiccicata indelebilmente addosso a Wilbur Smith: "Il leader mondiale degli scrittori d’avventura". La frase è successivamente stata modificata in "Il più importante scrittore d`avventura del mondo", ma io preferisco rimanere fedele alla versione originale. "Il più importante" è il più importante, ma il "leader" è colui che guida tutti gli altri, che apre loro la strada, che indica la direzione. E Wilbur Smith è precisamente questo: la guida di tutti gli scrittori d’avventura.

Ne ero talmente convinto che tra me e me esclamai: «Ma quale leader, questo è il Dio dell’avventura». Amo esprimermi per paradossi e frasi forti, ma in questo caso non è che fossi stato folgorato da una folle passione. Usando l’espressione Dio non facevo che connettermi alla mia convinzione personale circa l’attività di romanziere e il "fare" il romanzo. Ero e sono fermamente convinto che il romanziere, quando si accinge a creare una sua opera, leva più o meno consapevolmente una sfida a Dio.

«Tu hai creato l’Universo, e quindi la realtà che viviamo e percepiamo, la realtà- reale. E adesso io voglio dimostrare che sono capace di creare una realtà-altra, totalmente inventata, "fittizia" (dall’inglese fiction), perfettamente parallela alla prima e altrettanto credibile.» Credibile al punto che le due possono essere mescolate, a fini di romanzo, in un miscuglio tale da renderne indistinguibili le componenti. È un concetto che, in anni più recenti, ho visto esprimere, ai livelli più disparati, da altri scrittori di grande fama, dal "basso", popolarissimo Tom Clancy all’ "alto", eccelso Premio Nobel Isaac B. Singer.

E in questa capacità di creare una realtà-altra, parallela a quella "reale", emulsionandole in un miscuglio esplosivo e non più scindibile nelle sue componenti, Wilbur Smith riesce a raggiungere vette difficilmente pareggiabili. Si pensi soltanto al grande filone narrativo della famiglia Courteney, a come si mescolano gli uni agli altri i personaggi della Storia a quelli inventati dall’autore, alla totale credibilità di questi miscugli. Chi potrebbe mai sollevare obiezioni, per esempio, al fatto che il personaggio fittizio Garrick Courteney — fratello di Sean, il protagonista di ormai non so più quanti romanzi di Smith, in prima persona o attraverso i suoi discendenti — diventi "segretario particolare" del realissimo e storico Cecil Rhodes, avventuriero, esploratore e governatore britannico dei territori sudafricani? Sembra tutto verissimo.

Garrick Courteney è un segretario talmente "particolare" da essere addirittura l’amante di Cecil Rhodes. Chi potrebbe dire che la vicenda romanzesca non è verosimile? Ecco un esempio di come un vero scrittore piega la Storia alle proprie esigenze romanzesche, aprendovi addirittura oscuri squarci di ambiguità e revisione. Così fanno gli dei del romanzo non soltanto d`avventura, e così fa il dio del romanzo Wilbur Smith.

Ma a un certo punto, un angiolotto malizioso, di quelli che rischiano a ogni momento di inciampare in una nuvola e cadere a capofitto a far compagnia a Lucifero, deve essersi accostato al dio dell’avventura e deve avergli mormorato in un orecchio: «Scusa, Wilbur, ti rendi conto che, nelle tue saghe, hai finito con il privilegiare sfacciatamente la famiglia dei sud-rhodesiani Ballantyne a spese dei sudafricani Courteney?»

Nomi che il lettore di Smith conosce alla perfezione, come conosce l’autentico turbine di vicende a essi collegato in una doppia sequela di saghe romanzesche. I Ballantyne, infatti, vengono seguiti amorevolmente dall’autore fin dal loro arrivo nei territori sudafricani dalla madre patria britannica, sotto forma di un’impavida e severa giovane medichessa e di suo fratello: rappresentano la nobiltà di quei territori, sono come i Padri Fondatori arrivati in America con il Mayflower.

I Courteney, invece, non hanno origini "nobili", o perlomeno non se ne sa niente: nascono romanzescamente già in quei territori, nella persona del ragazzo Sean, il massimo di bellezza, onestà, franchezza, coraggio, intraprendenza che sia dato conoscere. Ricordate? Io ricordo perfettamente, perché la nascita romanzesca di Sean Courteney ho fatto da zio italiano, traducendo nella nostra lingua Il destino del leone. Come potrei dimenticare? Ma anche gli altri lettori non hanno dimenticato di sicuro...
Be’, dio Wilbur ha evidentemente ascoltato l’intrigante angiolotto (presta sempre orecchio a chiunque gli suggerisca buone idee), e i risultati li vediamo nel suo ultimo, recentissimo romanzo (naturalmente subito al vertice delle classifiche): Gli uccelli da preda. Basta aprirlo, leggere le prime pagine, e ci troviamo davanti un altro Sean, anticipato di circa due secoli, alla metà del ’600. Il ragazzo Hal Courteney, altrettanto bello, franco, leale, coraggioso e chi più ne ha più ne metta. Basta "vederlo" e immediatamente si riconosce in lui un antenato di Sean, il capostipite dell’eroica stirpe.
È arrivato sulle coste meridionali dell’Africa sulla nave del padre, corsaro con regolare patente rilasciata dal re d’Inghilterra, legato agli ordini templari, anch’egli uomo di cristallina onestà e lealtà. Si è mai visto un Courteney diverso?

Il padre pagherà con la vita la propria onestà, e il ragazzo Hal, rimasto solo, assumerà su di sé l’onere di proseguire la sua missione. Dovrà scontrarsi con angustie e prove di ogni genere, combattere contro tutti. Contro le asperità di territori e mari sudafricani, contro insidie, tradimenti e ferite mortali, contro gli atavici a subdoli nemici olandesi (allora proprietari di Città del Capo e originatori della popolazione boera), contro la più terribile delle ferite, la subdola perfidia della donna.

Capiterà un giorno anche a Sean, sono due fanciulli puri e ingenui, anche se, a differenza del pronipote, Hal trema virtuosamente ma non arretra sdegnato di fronte agli impulsi naturali del corpo. Gli anni sono passati, la pruderie di editori e censori ha lasciato aprire larghe maglie. Dunque il ragazzo Hal usa alacremente la mano e non teme di diventare cieco, come Sean... Finché la mano non sarà sostituita dalla più perfida delle donne traditrici...

Sofferente e tormentato ma impavido, Hal supererà questa e ben altre difficoltà, incontrando amore vero e vera gloria. Nel suo destino è scritto che sarà lui a restituire il Santo Graal ai cristiani. Sulle sponde del Corno d’Africa divampa infatti la guerra di religione tra i musulmani del Gran Mogol e i copti del leggendario etiope Prete Gianni (e qui la storia fa veri salti mortali per piegarsi alle esigenze del romanziere): i musulmani hanno strappato ai copti il Sacro Graal, ma ciò che sta scritto nelle stelle è ineluttabile. Il giovanissimo e puro guerriero-marinaio Hal Courteney riparerà a ogni torto e restituirà la preziosa reliquia ai suoi legittimi proprietari.

Poi, bello di fama e di sventura, veleggerà verso quelle coste più meridionali e occidentali dell’Africa dove lo aspetta un tesoro nascosto dal padre ma dove, soprattutto, lo aspetta il "Destino del Capostipite", il nobile onere-onore di fondare la stirpe dei Courteney d’Africa.

A questo punto, però, sono i Ballantyne a essere in credito di un secolo e passa rispetto ai Courteney. Come si dice alla fine di ogni feuilleton che si rispetti: "Il seguito alla prossima puntata". Si possono nutrire pochi dubbi che il Dio dell’avventura Wilbur Smith non provvederà in merito, ripianando ancora una volta i conti tra i suoi amati Courteney e Ballantyne. Inoltre, tra Hal e Sean corrono un paio di secoli. Possiamo aspettarcene di belle.

Wilbur Smith, Gli uccelli da preda, Longanesi
[Stralcio dalla presentazione tenuta il 18 marzo 1997 a Milano presso il Teatro Verdi]

Incontro: “Figli del Nilo” (2001)

I librai italiani sembrano gradire molto poco che uno scrittore di romanzi cambi genere da un libro all’altro. I suoi lettori, dicono, rimangono disorientati e non si fidano, e lui li perde. Se uno ha scritto un romanzo d’amore, o storico, o un giallo, e ha avuto fortuna, continui così per sempre, senza uscire dal seminato. È una logica da rispettare, e infatti gli editori vi si adeguano, più o meno volentieri. Ma probabilmente la stessa cosa succede in tutto il mondo. Così, ai nostri tempi, se Lev Tolstoj, dopo avere scritto lo storico affresco di Guerra e pace, si azzardasse a presentare la tragedia d’amore Anna Karenina, si sentirebbe probabilmente dire che non va bene, è un rischio commerciale, che cosa gli è venuto in mente… È un paradosso, naturalmente, ma non si può mai sapere.

Problematiche che sembrano non sfiorare nemmeno Wilbur Smith, che passa con solenne imperturbabilità dal romanzo d’avventura ambientato ai primi del secolo a quello d’azione ambientato ai nostri giorni. Dalla rutilante kermesse di mare nel Settecento al romanzo storico-magico ambientato nei misteri dell’antico Egitto. E così via. Intanto i suoi lettori aumentano sempre, con immensa gioia degli stessi lettori, nonché di librai ed editori. Avendo partecipato con entusiasmo, ormai sono più di vent’anni, al tentativo di rilancio in Italia di un autore che, dopo un paio di insuccessi, sembrava destinato al limbo dell’anonimato, la cosa non può che farmi piacere. Ma, certo, quando in Longanesi ci ponemmo il problema di far "rinascere" questo autore, che secondo noi aveva scritto una serie di romanzi strepitosi e addirittura un capolavoro del genere "avventura" con Come il mare, ma che secondo altri era "finito", ci sentivamo tutti molto inquieti. I perentori giudizi provenienti dai guru degli Stati Uniti ci dicevano che "uno che si chiama Smith non diventerà mai famoso". Va be’, ci abbiamo provato ugualmente, e le cose sembrano essere andate benissimo. E proprio partendo dall’Italia per poi dilagare in tutto il mondo e rimbalzare (con un bel ritardo) persino negli Stati Uniti. Non dimenticherò mai il sobbalzo che feci più di una decina di anni fa a Erzurum, nell’estremo Est dell’Anatolia, a 1700 metri di altitudine, tra severe moschee e imponenti, gelide montagne desertiche, nel vedere la vetrina di una poverissima libreria piena soltanto delle edizioni turche di Wilbur Smith. Ero arrivato fino a lì per inseguire le suggestioni del Viaggio ad Arzrum di Pushkin, trovavo Come il mare e L’orma del Califfo

Così adesso Wilbur Smith è unanimemente riconosciuto il "maestro dell’avventura" in tutto il mondo, persino i critici paludati hanno cominciato a interessarsi alle sue mirabolanti strutture narrative, e lui pubblica i suoi libri in anteprima mondiale in Italia. Lo aveva già fatto con un altro, lo ha fatto quest’anno con Figli del Nilo, uscito da noi a fine febbraio e programmato soltanto per aprile nei paesi di lingua anglosassone. Quindi eccolo ancora una volta a Milano per le cerimonie di presentazione e lancio. Ci incontriamo nello stesso albergo dove ci siamo conosciuti più di dieci anni fa, quando per la prima volta ha deciso di rompere il riserbo (non si faceva mai vedere da nessuno, dubitavamo persino che esistesse davvero, circolava soltanto una sua foto in bianco e nero formato tessera, tutta sbiadita) e di presentarsi pubblicamente proprio in Italia. Non aveva, allora, l’aria sicurissima che lo circonda adesso come una corazza impenetrabile. Era, anzi, piuttosto incerto. L’albagia con cui lo trattavano i recensori non aveva potuto non fare breccia persino sotto la sua dura scorza di leone abituato a combattere e vincere. Lo accompagnava, allora, la povera Danielle Thomas, sua moglie e consigliera suprema, anche lei rispettabile scrittrice. Prima di rispondere alle domande, si voltava verso di lei come a chiedere la sua approvazione.

Adesso purtroppo Danielle non c’è più, stroncata parecchi mesi fa da un male incurabile, ma il vecchio leone si è rivelato incapace di rimanere solo: ha al suo fianco una minuta giovane dall’aria misteriosa e dai tratti marcatamente orientali, originaria nientemeno che del Tagikistan, che si adombra un po’ quando mi azzardo a chiederle se la lingua dei tagiki appartiene al grande ceppo di quelle mongolo-turche. Ai tempi, il Tagikistan apparteneva pur sempre alla grande area geografica denominata Turkestan. No, mi risponde, noi apparteniamo al ceppo iraniano. E ha assolutamente ragione. Intanto Wilbur ridacchia del nostro scambio di battute.

Be’, gli dico, eccoci di nuovo qui, e ancora una volta per un’anteprima mondiale dall’Italia. Come te lo (e ce lo) spieghi? Il suo ridacchiare si trasforma in una calorosa risata. "Perché si vede che i miei lettori italiani mi amano come io amo il loro paese", risponde sicuro. E io so che non lo dice per motivi di opportunità: ama davvero l’Italia, così diversa com’è dalle immense lande africane dove è cresciuto, e dove risiede ancora adesso, e dalle brume di quella Londra dove passa buona parte del suo tempo. Gli piacciono il clima, il calore della gente, l’abbigliamento, il cibo.

"Sei un po’ ingrassato", gli dico, dandogli una pacca su una pancetta che non avevo mai visto. "Tutta camicia", replica, tirando in dentro la sporgenza e gonfiando un torace ancora notevole. Poi, da quello che mangia, si deduce con chiarezza quale sia il motivo dell’appesantimento. Ma lui è beato. Pregusta il pomeriggio trionfale, anche se faticoso, che lo aspetta in giro per librerie e risponde di buon grado alle domande dei giornalisti seduti a tavola con noi, senza mai rivolgere un appello con gli occhi alla misteriosa tagika, che rifiuta drasticamente il parmigiano sul risotto e non vuole sentire spiegazioni. Wilbur è, come sempre, di una simpatia straordinaria. Le battute di spirito e gli aneddoti che ci concede nel suo inglese colto e lento farebbero la gioia di chiunque. Ci racconta estasiato che subito dopo la pubblicazione del primo romanzo, Il destino del leone, vide in un aeroporto una signora che ne leggeva una copia. Avvicinatosi con compiaciuta ma intimidita circospezione, come sempre capita a uno scrittore di fronte a un lettore – e soprattutto a un esordiente –, le disse: "Sa, signora, quel libro è mio". "Accidenti", fu la replica immediata. "Mi scusi, non lo sapevo. L’ho trovato qui su questa poltroncina." E la signora ributtò il tomo dove lo aveva raccolto, aprendone immediatamente un altro.

Gli viene chiesto come mai prova questa straordinaria attrazione per la storia e il mito dell’antico Egitto, e risponde che ne è preso da quando, piccolissimo, glieli raccontava la madre nelle remote e quasi disabitate terre della Rhodesia del Nord: "Il Nilo è la fonte della cultura africana", risponde, "ma non soltanto di quella. Sulle sue rive è nata la civiltà del mondo. Mi è stato insegnato da bambino e non potrò mai dimenticarlo".

Ecco quindi il motivo dello stesso titolo del suo nuovo romanzo, Figli del Nilo, in cui domina ancora una volta straordinaria la figura del sapiente mago-eunuco Taita, già protagonista del fortunatissimo Dio del fiume. Questa volta assiste e guida tra mille peripezie verso un luminoso avvenire l’adolescente Nefer, figlio dello sfortunato faraone Tamose. Ne capitano di tutti i colori, come sempre nei romanzi di Wilbur Smith, e non è il caso di spiegare troppo. Basti aggiungere che una delle diaboliche bravure dell’autore consiste proprio nella sua capacità di tracciare queste sterminate saghe in più volumi senza creare la minima complicazione per il lettore: ciascuno dei libri sembra iniziare da sé (senza il retroterra di vicende che lo precede) e chiudersi sul suo stesso finale, anche se ogni volta il lettore rimane con l’ansia di sapere che cosa succederà ancora, sebbene non nelle pagine successive del romanzo ma nei suoi sviluppi futuri.

Torneranno quindi i Courteney, antenati del formidabile Sean del Destino del leone, per chiudere il vuoto temporale di circa un secolo che lo separa da Monsone? "Un discendente di Taita, oggi", risponde allargando le braccia, "direbbe insciallah: se Dio vuole". Ma lui vuole? Dice che il progetto è quello, chiudere tutte le grandi saghe che gli frullano come gabbiani per la testa: non sa quando, ma quel vuoto verrà riempito. Nel prossimo libro? Nei prossimi due? Fra tre? Non lo sa. Queste cose le lascia al flusso dell’ispirazione.

A noi, come ai famosi librai ed editori di cui sopra, non importa poi un granché. Qualsiasi cosa ci regali con il prossimo romanzo, ci costringerà diverse ore in balia dell’inarrestabile e trascinante scorrere delle vicende che riesce a inventare. Lo aspettiamo con ansia. Arrivederci, come da puntualissimo programma, fra un paio di anni.

Wilbur Smith, Figli del Nilo, Longanesi

(La Provincia di Como, 15 marzo 2001)

Il mio vero patrimonio? Milioni di ricordi (2011)

Wilbur Smith è a Milano per presentare La legge del deserto. Ci conosciamo da 24 anni. Ho tradotto 3 suoi libri, non so quanti ne ho recensiti, di svariati ho curato il lancio quando di mestiere facevo l'Ufficio Stampa della Casa editrice Longanesi. Ci consideriamo amici, e me lo conferma lui stesso con la dedica: ”A Mario, vecchio e apprezzato amico“. Dunque scherziamo da vecchi amici che non si vedono da parecchio tempo. Di solito pubblicava un libro ogni due anni, questa volta ce ne ha messi tre. Giochiamo un po' sui numeri: 30 anni fa (1981) stava uscendo il primo suo libro tradotto da me. 31 anni fa (1980) usciva il suo primo romanzo presso Longanesi, destinato a dare il la al suo travolgente successo (e non soltanto in Italia). 32 anni fa (1979) Elena Spagnol, moglie del rimpianto grande editore Mario, arrivava da Londra dicendo di avere visto ovunque enormi pile di un certo paperback e consigliandoci di leggerlo: era appunto quello che sarebbe diventato la prima grande joint venture Smith - Longanesi.


Wilbur Smith. Non andiamo più avanti nel gioco? E il numero 33?

Mario Biondi. Sono i tuoi libri fino a La legge del deserto. Ricordo momento per momento l'impegno messo anzitutto da Spagnol ma anche da me nel lancio del primo. Avremmo tanto voluto farti venire in Italia per l'occasione, ma non c'è stato verso. Sei arrivato soltanto nel 1987, dopo non so più nemmeno quanti libri. Come mai?

W. S. Non ricordo proprio. Non so nemmeno se il mio editore di allora mi abbia avvertito di questa vostra richiesta.

M. B. Spagnol e io amavamo molto scherzare su libri e autori, ci serviva a scaricare la tensione di quei momenti difficili. Avevamo praticamente messo insieme un giallo su un'anziana e importante scrittrice italiana che ammazzava tutti i suoi avversari di un Premio Letterario. E anche per te avevamo inventato una favola, naturalmente a nostro privato uso e consumo. Forse la conosci già.

W. S. No, non credo, ricordamela.

M. B. Nei tuoi libri avevamo trovato diversi personaggi monchi, storpi o simili: vedi Gary Courteney, a cui il fratello Sean ha sparato via una gamba, vedi l'archeologo Ben Kazin...

W. S. Un gobbo!

M. B. Sì, un gobbo. Quindi avevamo deciso che non volevi farti vedere perché avevi qualche grosso problema fisico. Poi nel 1987 sei arrivato, tutto in forma e pimpante, e quasi quasi rimanevamo delusi. Ma tornando ai tuoi romanzi: 33! Con dentro un'autentica folla di personaggi, uomini e donne. Se dovessi vederteli improvvisamente davanti tutti insieme, quale ti sembrerebbe correrti incontro per primo. Insomma, qual è stato il più importante?

W. S. Senza dubbio Taita, del ciclo ”egizio“. Lo considero un vero e proprio mio alter ego, è sempre con me, mi parla, mi orienta, mi rincuora, mi sgrida persino. È fatto come me, modellato su di me. Per me non è soltanto un personaggio ma un'entità vivente, un vero e proprio amico. A nessun altro dei miei personaggi credo di aver dedicato tanto tempo e attenzione, e credo che nessun altro mi abbia ripagato come lui.

M. B. E tra i personaggi femminili?

W. S. Non ho il minimo dubbio: Centaine de Thiry, dei ”Courteney d'Africa“. Non dimenticherò mai il momento in cui l'ho messa (e mi sono trovato) di fronte al problema di uccidere il marinaio con cui è in balia di onde e squali, per salvare il bambino che porta in grembo. Una donna formidabile, una volontà straordinaria di sopravvivere. Una donna pericolosa, anche...

M. B. Be', lo sono parecchie delle donne dei tuoi romanzi. Penso a Thunder, di Destino, a Chantelle di Mare, persino alla Hazel delle prime pagine di La legge del deserto. Donne in cui si riflette un'esperienza personale? C'è qualcosa di autobiografico come nel caso di Taita?

W. S. Oh, no. Non mi sono capitate personalmente, però so che ci sono e che sono capaci di gesti terribili. Basta leggere i giornali. In genere, però, le ”donne pericolose“ dei miei romanzi trovano un contraltare in altre di carattere opposto, vedi la Samantha che si oppone a Chantelle.

M. B. Comunque molti dei tuoi libri sono dedicati a donne. Sono dunque state così importanti per la tua vita? Per la vita professionale, bada bene, per la tua attività di scrittore.

W. S. Be', anche per la vita personale. La mia attuale moglie, per esempio, Mokhiniso, è davvero la ”regina del mio cuore“, come dice la dedica di La legge del deserto. Undici anni insieme, uno più bello dell'altro. Tra l'altro è una donna che ha lavorato nell'attività bancaria e sa tutto di soldi, che ti assicuro per uno scrittore è una cosa utilissima.

M. B. E prima?

W. S. Delle mie prime due mogli preferisco non parlare, ero troppo giovane. Ma anche la terza, Danielle, è stata molto importante, e il nostro matrimonio fino a un certo punto è andato splendidamente.

M. B. Fino a un certo punto? A me è parsa una donna, magnifica, molto dolce.

W. S. Certo, lo era, ma come sai ha avuto il devastante problema di un cancro al cervello, con relativa operazione, di cui è morta. Dopo l'operazione non è più stata lei, è diventata violenta, vendicativa.

M. B. Durante un altro incontro mi avevi detto che per la tua attività di scrittore era molto importante. Che era la prima persona a cui facevi leggere i suoi testi. Che ti dava consigli, suggerendoti qualche modifica qui o là.

W. S. Era seduta di fianco a noi, ricordi? Tu forse non lo sapevi, ma era già molto malata. Io non ho mai modificato niente seguendo suoi consigli. Ma sapevo che sentirmi dire quelle cose le avrebbe fatto un grande piacere. Dopo l'operazione, però, la cosa mi si è rivoltata contro. Era scrittrice anche lei, e ha cominciato a dire a tutti che in realtà i miei libri li scriveva lei. Il suo cervello non funzionava più, era confusa, vaneggiava, ma la gente non lo sapeva.

M. B. E Mokhiniso. Ti è utile per il tuo lavoro?

W. S. No, se non, come ho detto, nel senso indiretto che è bravissima a farlo fruttare al meglio. Mokhiniso non è di lingua inglese, è venuta dal Tagikistan allora sovietico. Studiava a Mosca ed è arrivata a Londra per perfezionarsi. Ha imparato molto velocemente la mia lingua, ma non potrebbe mai intervenire sul mio mestiere di scrittore.

M. B. A proposito di mestiere di scrittore, usi ancora la penna, come mi hai detto una volta?

W. S. No, a un certo punto ho dovuto ammettere che c'era uno strumento molto più utile, oltre che più in linea con la modernità. Scrivere a mano, consegnare il testo a una dattilografa e poi ripetere il il ciclo per la revisione era un lavoro lunghissimo, lentissimo. Adesso è tutta un'altra cosa. Ho affrontato il cambiamento obtorto collo, ma alla fine mi sono convinto, e sono contento di averlo fatto. Altrimenti credo che non sarei potuto arrivare a La legge del deserto.

M. B. ”Rimpianti ne ho pochi“, cantava Frank Sinatra. E tu? Ne hai?

W. S. No, sarei poco onesto se dicessi di averne. Credo mi sia davvero stato concesso il meglio. Soprattutto se penso a certi miei amici, che hanno rinunciato a una vera vita per accumulare un patrimonio di milioni di dollari. Be', io sono più fortunato: ho accumulato un patrimonio di milioni di ricordi.

Wilbur Smith, La legge del deserto, Longanesi

Non soltanto azione. Anche tanto amore (2013)

Una vicenda torbida e travolgente, di quelle a cui i lettori di Wilbur Smith sono abituati, ma anche di più. Vendetta di sangue si apre con un efferato delitto, al quale ne fanno seguito o da preparazione tanti altri, sempre più violenti, sempre più crudeli. Nonostante la sua durissima scorza di uomo d'azione, Hector Cross, già ben noto ai lettori per il precedente romanzo di Smith, sembra vacillare, ma si riprende subito. È stato ferito negli affetti più profondi, deve vendicarsi. E la caccia si snoda turbinosa fino all'estrema penisola arabica, all'ambiguo Centro America, al cuore dell'Africa nera. Sangue chiama sangue, finché Hector non abbia ottenuto la sua Vendetta di sangue. Il direttore di InfiniteStorie.it, Mario Biondi, conosce bene Wilbur Smith, che ha assistito a suo tempo come ufficio stampa per diversi libri e poi anche tradotto e infine intervistato più volte, ne ha parlato con lui durante la sua visita di questi giorni in Italia.

9 Una vicenda torbida e travolgente, di quelle a cui i lettori di Wilbur Smith sono abituati, ma anche di più. Vendetta di sangue si apre con un efferato delitto, al quale ne fanno seguito o da preparazione tanti altri, sempre più violenti, sempre più crudeli. Nonostante la sua durissima scorza di uomo d'azione, Hector Cross, già ben noto ai lettori per il precedente romanzo di Smith, sembra vacillare, ma si riprende subito. È stato ferito negli affetti più profondi, deve vendicarsi. E la caccia si snoda turbinosa fino all'estrema penisola arabica, all'ambiguo Centro America, al cuore dell'Africa nera. Sangue chiama sangue, finché Hector non abbia ottenuto la sua Vendetta di sangue. Il direttore di InfiniteStorie.it, Mario Biondi, conosce bene Wilbur Smith, che ha assistito a suo tempo come ufficio stampa per diversi libri e poi anche tradotto e infine intervistato più volte, ne ha parlato con lui durante la sua visita di questi giorni in Italia.


Mario Biondi Molti anni fa, da appassionato viaggiatore quale sono, ti ho chiesto di raccontarmi com'è il Sud Africa. La risposta è stata immediata: un'allegra risata e ”M.M.B.I. Miles and Miles of Bloody Africa“: miglia e miglia di schifosa Africa. Ma era fin troppo evidente che scherzavi, che il tuo cuore è sempre lì. Lo stesso Hector Cross offre una brevissima biografia di se stesso nel libro: è nato e cresciuto nell'Africa meridionale, è vissuto in mezzo agli indigeni, con i quali ha superato i tipici riti di passaggio adolescenziali, fino a cacciare, a uccidere il suo primo leone. Come te...

Wilbur Smith Certamente. Io sono un figlio dell'Africa e, come ho detto più volte, se, uscito dal grembo della madre, vieni pulito con l'acqua dello Zambesi, non potrai mai sfuggire all'Africa. Una terra che sembra non cambiare mai, mentre cambia giorno per giorno. È un tale insieme di popoli e luoghi che non si può descrivere con una frase, ma neanche con un solo libro: ce ne vogliono molti.

M. B. Hector Cross, quindi, è un nuovo Sean Courteney, seppure per un breve attimo di sincerità autobiografica da romanzo.

W. S. È il tipo di uomo che mi interessa e mi piace raccontare, e che quindi ho raccontato molte volte. Un uomo d'azione. E i miei libri sono romanzi d'azione.

M. B. Ma che cos'è questa storia che ho letto sui giornali, che d'ora in avanti avresti deciso di limitarti a inventare le trame dei tuoi romanzi per poi passarle ad altri perché le scrivano?

W. S. No, non so ancora bene come funzionerà la cosa. Penso che, una volta consegnata a un mio coautore la trama e che questi l'avrà sviluppata, procederemo insieme all'elaborazione e riscrittura definitiva. D'altra parte non sono di sicuro il primo a farlo. James Patterson, Clive Cussler, addirittura Alexandre Dumas...

M. B. D'altra parte mi sembra che non sia una cosa nuova per te. Mi hai più volte detto che ti sei fatto aiutare da collaboratori nell'ambito delle ricerche storiche, o della raccolta dei materiali.

W. S. In questo senso sì, certo, ma non di sicuro per quanto concerne la scrittura. D'altra parte, se voglio raccontare la vicenda di un pilota israeliano di caccia Mirage, dovrò pur farmi raccontare qualcosa da qualcuno che se ne intende. E così via.

M. B. Tra l'altro quel libro l'ho tradotto io. Ma sì, certamente, nell'ambito che dici tu. Però mi hai anche più di una volta parlato di una certa Rachel Monsarrat alla quale saresti stato molto indebitato per i tuoi primi romanzi. ”Mia fedele editor per oltre 20 anni“, mi hai detto.

W. S. Be', ”editor“ nel senso di ”redattrice editoriale“, ed è una cosa che risale ai miei libri fino agli Anni Novanta. Adesso Rachel vive in Francia. Ma è una cosa del tutto normale. Come sai bene, ogni libro deve passare per una redazione prima di andare in stampa, ci sono sempre problemi di uniformazione, di piccoli errori, possibili incongruenze. Ma erano errori miei, nell'ambito di libri interamente scritti da me. Comunque, ripeto, non so ancora bene come si svilupperà questa mia collaborazione con altri coautori. Vedremo. Il vero problema, ciò che davvero conta è che i lettori siano soddisfatti del libro che arriverà a loro.

M. B. C'è dunque la possibilità che rivediamo Hector Cross in altri romanzi, anche se sarà un Cross soltanto inventato da te e poi elaborato in collaborazione con altri?

W. S. Non lo so, il futuro ci è vicino, ma chi può conoscerlo? Ci dà tante speranze e aspirazioni, e anche timori, ma come sarà? Chi lo sa. Di nuovo, dipenderà da come si svilupperanno queste mie collaborazioni. Se bevi un bicchiere di vino, il problema è che sia buono, non ti preoccupi tanto di chi ha raccolto l'uva e l'ha pigiata e imbottigliata e così via.

M. B. Totalmente d'accordo, ma era una domanda che mi è stata imposta dal mio cuore tenero. Ho una grande paura per la piccolissima Catherine Cayla, che nel romanzo nasce e arriva ad avere pochi mesi. Hector Cross — e tu — ne avete fatte di tutti i colori alla sua sorellastra e a sua madre, oltre a un'intera sfilza di persone di famiglia e anche domestici. Mi raccomando, trattatela bene. Dì a Cross di stare attento prima, e di non limitarsi a fare fuoco e fiamme dopo, come in Vendetta di sangue e nel precedente romanzo.

W. S. Terrò senz'altro conto di questo suggerimento. Ma, di nuovo, come faccio a sapere...

M. B. Va bene, va bene, ti affido Catherine. Ma parlare della piccola mi stava a cuore soprattutto per precisare che nei tuoi romanzi non c'è soltanto azione, ma anche amore, tanto amore. Con un aspetto nuovo in Vendetta di sangue, mi pare: l'amore per i bambini.

W. S. Be' sono il nostro futuro. Ma non è una cosa nuova, nei miei romanzi. Già Taita, in quelli del ciclo del Nilo, ha tantissimo amore per i piccoli, che protegge, sostiene, aiuta a crescere.

M. B. Verissimo, me n'ero scordato, mi scuso. Ma che cos'è l'amore secondo te?

W. S. L'amore è impegno nei confronti dell'amore. Mi spiego meglio: l'amore è ciò che distingue l'uomo dall'animale. A suo modo ama anche l'animale, ma è un modo semplice, istintivo, diretto, mentre l'amore dell'essere umano ha un'infinità di sfumature, sfaccettature e complessità.

M. B. Visto che tua moglie è uscita per andare a fare quello shopping di alta classe che le piace tanto e di cui Milano è diventata il centro a livello mondiale — tra parentesi, splendide quelle scarpe. Prada? Lo sospettavo —. Ripeto, visto che Mokhiniso non è qui, possiamo concludere questo incontro con un commento sui tuoi amori, Mr Smith-Courteney-Cross? Sei stato abbastanza fortunato, no?

W. S. Non ”abbastanza“, sono stato incredibilmente fortunato. L'amore assume diversi aspetti e forme con il passare degli anni, a mano a mano che si invecchia. E di queste forme e aspetti posso senz'altro affermare che credo di aver avuto il meglio.

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