Per una lettura documentata
Lo scrittore Mario Biondi nel Sahara
Lo scrittore Mario Biondi
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Lo scrittore Mario Biondi racconta

© Mario Biondi
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e obbligo di citazione (per cortesia...)

Kriminal & Diabolik

Questo testo è del 2000-2001. Avrebbe dovuto fare da prefazione a un volume di una collana sui grandi personaggi del fumetto italiano di un importante editore, collana che però credo non sia mai stata definitivamente varata. O forse è morta subito, e non è mai uscito il volume monografico di questa prefazione (per altro regolarmente pagata e coperta da copyright). La pubblico qui, sperando che a qualcuno possa interessare e/o piacere
Erano gli anni Sessanta. Epoca di rara beatitudine. Eravamo poverissimi, ma, forse, felici. Ed eravamo buoni. Buonissimi. Ce lo imponeva lo stesso passato che portavamo sulle spalle. Bastava essere sui venticinque anni per ricordare l’orrore della guerra, gli stenti, persino la fame. La paura dei bombardamenti, l’angoscia per l’assenza del papà; non di rado l'agghiacciante notizia che non sarebbe mai più tornato. E poi il dopoguerra: quanta fatica. Stipendi miserabili, cibo ancora autarchico, abiti rivoltati di padre in figlio, di fratello maggiore in fratello minore, scarpe di cartone pressato. E, tutto attorno, un paese devastato dalla guerra, materialmente e spiritualmente, umiliato, immiserito, spaventato.
Quindi eravamo buoni. Accettavamo di buon grado la rigida educazione di allora, impartita da padri, madri e insegnanti che avevano il chiodo giustamente fisso di fare di noi uomini e donne migliori di quanto fossero potuti essere loro; o perlomeno di aiutarci a costruire un futuro migliore. Per noi e per loro.
Ma è forse scritto nel DNA dell’uomo che proprio “buoni buoni” fino in fondo non si possa essere. L’angolino oscuro c’è sempre. Quindi era normale che assumessimo ingenui e — visti adesso — un po’ ridicoli atteggiamenti da “maudit”. Sì, perché il riferimento obbligatorio, il mito di allora era Parigi, con le sue notti e le sue cantine, dove suonavano i più “maudit” dei jazzisti americani (quanti di loro destinati a non tornare mai più a casa, a non suonare più, a non esserci più…) Ma per un disco di Bud Powell saremmo stati pronti a fare qualsiasi cosa (relativamente parlando).
Quindi, nella nostra beata bontà, vivevamo confusamente il mito della notte. Campo in cui l’Italia non offriva poi un granché. Milano, magari, qualcosina. Il Santa Tecla, la Taverna Messicana… Ci si andava “sul tardi”, che significava le undici, e si stava lì con gli occhi chiusi a fare smorfie davanti a batterie, cornette e sassofoni.
Con quanta emozione ci indicavamo l’un l’altro i capi della malavita, che di quei locali erano i frequentatori privilegiati, i mentori, non di rado i proprietari. La mala di allora era dominata dai “marsigliesi” (spesso, in realtà, tunisini o algerini). Giravano con impensabili automobili americane piene di fari e faretti, grandi come sette delle seicento in cui noi ci stipavamo in cinque, con al fianco donne di suprema bellezza, un cui solo sguardo era capace di farci squagliare. Portavano gessati di alta sartoria, scarpe fatte a mano, camicie di seta, straordinari gemelli. Non erano usciti dal film “Borsalino” o dal “Clan dei marsigliesi” soltanto perché quei film non erano ancora stati girati. Portavano in fronte con nonscialante sfrontatezza la loro condizione di “bandito”.
E quale emozione se uno di loro, avendoti visto altre volte, sembrava che ti rivolgesse un cenno di saluto, un ammiccamento alla francese. Tanto bastava. Eravamo “amici della malavita”. Se poi sembrava che fosse una delle loro platinate amiche a rivolgere il cenno di saluto, be’… Insomma, al mattino eravamo puntualissimi in ufficio o a lezione all’università, ma i miti “notte” e “mala” ci aiutavano a sentirci "maledettamente" vivi. Tra i più audaci circolava in segreto qualche pasticchina di Methedrine…
Nella spartana trattoria di Via Ausonio dove mangiavamo, rinunciando al formaggio grattato perché era una spesa in meno, c’era il ladro di auto ufficialmente riconosciuto. Era scheletrico, con due occhiaie più profonde di quelle di un teschio. E di teschio era il colore della faccia, sottesa da una mascella squadratissima. Si toglieva i guanti soltanto per mangiare e quando usciva si copriva i capelli a spazzola con un mefisto scuro, di lana o cotone. Erano la sua divisa. Lui, essendo del Ronchetto delle Rane, non poteva permettersi i completi di sartoria dei signori di Marsiglia, ma aveva comunque una dignità professionale da ostentare e difendere.
Una sera, rientrando di corsa e attraversando la zona centrale di Viale Papiniano, me lo trovai davanti nel buio, intento al lavoro. Aveva infilato alcuni ferri nella serratura di un’auto e stava armeggiando. Quando sentì i miei passi concitati, sobbalzò come un bambino sorpreso a rubare la marmellata. Poi mi riconobbe e fece un grande sorriso sdentato. «Ah», esclamò, «è lei! Che spavento, credevo fosse la pula. Ha per caso parcheggiato da queste parti?»
Gli precisai che non possedevo un’auto e lui, prontamente: «Quando la compera, informi subito, eh. Se non ci si aiuta tra noi…» Tra noi chi? Tra noi ladri? No, probabilmente tra noi abitanti del quartiere. Quando, parecchi anni dopo, l’auto mi fu rubata davvero, non abitavo più da quelle parti e non potei sollecitare il suo soccorso. Infatti l’auto non la rividi mai più. Peccato.
«Buonanotte, dottore», concluse e si rimise tranquillo al lavoro. Non ero affatto dottore, ma il fatto che fossi iscritto all’università, per l’onesto ladro bastava a giustificare il titolo. Andai a dormire passabilmente inorgoglito. Ero stato un pochino “complice”, un pochino “cattivo”, una volta tanto. Inglobato appena appena nella “mala” di Porta Genova.
Fu in quel clima di buonismo aspirante alla cattiveria, alla notte e all’oscuro, che nacquero Kriminal e gli altri. Non ero un lettore di fumetti, ma una volta, in auto, un mio cuginetto adolescente, seduto dietro di me, guardandomi la nuca sbottò: «Hai la testa come quella di Diabolik». Poche parole, ma le sentii talmente cariche di ammirazione che il giorno dopo andai in edicola a comperare il mio primo Diabolik, per vedere come fosse la mia testa vista da dietro. Così conobbi anche Kriminal. Non in maniera intima, anzi piuttosto superficiale, ma quanto bastava per rimanerne colpito. Fin dalla copertina: era identico al mio ladro di Porta Genova.
Ma non era già più il violentissimo Kriminal dei primi mesi. Da spietato criminale si stava trasformando in giustiziere. Dietro al personaggio, neanche tanto dissimulati e forse non del tutto consapevoli, c’erano stilemi strutturali di Stevenson e Poe, ma per me c'era soprattutto il giustiziere che più mi aveva emozionato nelle letture adolescenziali: il Conte di Montecristo. Ma con un background alla Jean Valjean che lo rendeva ancora più interessante.
Anche a lui la società aveva tolto tutto, anche lui era capace di guardare con un occhio spietato ai cattivi e coltivare la vendetta come un fiore raro. Un accostamento del tutto rozzo, non certamente frutto di spirito critico-analitico, ma per me Kriminal era il fratello più giovane del Conte di Montecristo e di Jean Valjean, adeguato ai Miserabili del nostro tempo.
Fosse come fosse, quelle storie di ingenua truculenza sembravano fatte apposta per rispondere alle nostre inquiete aspirazioni alla “notte”, all' “oscuro”, alla “mala”. Insomma, alla ribellione che di lì a poco sarebbe scoppiata e dilagata con i nostri fratelli appena minori (anche contro il nostro “buonismo”). Chi le andava inventando sapeva guardare ben a fondo (con grande istinto) nell’inconscio collettivo di quella generazione giovane. Si sosteneva con accenti ispirati, allora, che le suore erano “i parafulmini” dell’umanità. Be’, un po’ parafulmine è stato anche Kriminal. Nella lettura delle sue storiacce si sublimava grandissima parte della nostra voglia di “male”, quasi tutta. Infatti, quando quelle storiacce cominciarono ad apparire troppo ingenue, persino un po’ buffe, fece capolino e finalmente trionfò la vera violenza. Bruttissima cosa.
Eppure la violenza dell'immediato futuro stava affiorando già allora, a saperla, a volerla vedere. Uno dei nostri, giovanissimo cronista di nera in un quotidiano della sera destinato a durare poco, ci spiegava con toni di grande importanza e segretezza che tutto attorno a noi, lì alla Porta Genova di Milano, era in corso una sorda guerra senza esclusione di colpi tra i nostri marsigliesi e certi misteriosi siciliani. Siciliani? Chi li aveva mai visti solcare la notte con meravigliose auto americane e stupende bionde, con favolosi abiti di sartoria e camicie di seta? La parola mafia, allora si usava pochissimo. Eppure, diceva il nostro amico, i siciliani stavano vincendo su tutto il fronte proprio dissimulandosi nell'anonimato, ma con una ferocia del tutto nuova, con forte spargimento di sangue, e i marsigliesi stavano prudentemente battendo in ritirata.
Insomma, concludeva, c'era in ballo il controllo della droga. Droga? Noi pensavamo alle pasticchine di methedrine che l'amico figlio di farmacista procurava ad alcuni di noi. Di tutto ciò che non soltanto stava per arrivare, ma evidentemente c'era già, non sapevamo niente. Né potevamo sapere, allora, quanti amici destinati a partire per l'Oriente, attirati da quella mortifera sirena, non sarebbero più tornati.
Com'è nella natura delle cose, la breve stagione di Porta Genova finì, passammo a occupazioni seriose, che non lasciavano più tanto spazio alle giovanili illusioni di "malavita"; i marsigliesi sparirono e vedemmo il mondo, sotto i profili "oscuri" e "notturni", farsi davvero peggiore. Tanto peggiore che persino la truculenza di Kriminal, quasi di colpo apparve obsoleta, e nessuno lo lesse più. Anche la sua strana bontà — che personalmente avrei preferito vedere più di frequente, in modo da confermarmi nell’idea del nuovo Montecristo-Valjean —, sembrò di botto dolciastra. Persino il sesso delle sue vicende divenne imbarazzante, come i lustrini ammaccati e la cellulite delle ballerine sui palcoscenici del varietà. Al Carcano in pe'…
Sì, senza Kriminal e gli altri, il mondo fu definitivamente diverso. Ma davvero non in meglio, per smentire ancora una volta le smorte Cassandre che in loro (come in tutto, bikini e minigonne, capelloni e rocchettari, cantautori e urlatori, persino Gianni Morandi contro Claudio Villa) vedevano la rovina della gioventù e dell'intera umanità. C'era ben altro, a voler guardare…
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