RACCONTA
Erica Jong
Intervista (1990)
Pubblicata su "Esquire", gennaio 1990
Intervista (1990)
Pubblicata su "Esquire", gennaio 1990
© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)
Aiuto, uomini, aiuto. Aiuto! E’ ricomparsa Isadora Wing. La ricordate? Quella che una quindicina di anni fa aveva paura di volare, poi ha imparato a salvarsi la vita, poi, dondolando appesa a un metaforico paracadute, ha sparso miriadi di baci destinati a parti poco nominabili se non addirittura un po’ imbarazzanti del corpo maschile, invitando con successo milioni di donne di tutto il mondo a imitarla, con irrefrenabile rabbia dei parrucconi. Quella che girava su una Mercedes con targa personalizzata "Quim", azzardata espressione dell’inglese barocco, inscindibilmente connessa con l’anatomia femminile e rigorosamente esclusa dai dizionari scolastici. Insomma: l’iperbolica e un tantino logorroica amazzone del sesso inventata con tanto successo da Erica Jong. Ve la ricordate, adesso? C’è o non c’è da averne paura? Altro che "paura di volare"! Paura di rimanere inesorabilmente "raso terra", se la metafora non è troppo osée. Chi non aspira al titolo di Erotic Iper-Superman, con obbligo di almeno sei-sette prestazioni consecutive se non otto, stia cautamente alla larga.
Abbiamo comunque modo di sfangarcela. Un modo non proprio canonico secondo le norme del bon ton, ma quasi a prova di bomba. À la guerre comme à la guerre. Ecco qui: basta non indossare la componente inferiore della biancheria intima, slip, boxer o mutandone che sia. Se un individuo di sesso maschile la porta, può stare tranquillo. La pittrice Leila Sand (invenzione della scrittrice Isadora Wing, la sopra citata creatura letteraria di Erica Jong), protagonista del nuovissimo romanzo Ballata di ogni donna, non può sopportare gli uomini con mutanda. La deprimono. Anzi: non ne ha addirittura quasi mai incontrati. Dobbiamo dedurne che l’uomo americano medio non ne fa uso? Come se la cava con lo "zip" dei pantaloni? E, visto che in America il bidet non è strumento sanitario dei più largamente diffusi, non si porrà qualche problema di igiene, se non di afrori indigesti? Altro che offrire chewing-gum al capo che "ha mangiato pesante".
Spiritosa, colta, intelligente, abituata a fare e ricevere provocazioni, Erica Jong sta al gioco. Ci siamo conosciuti qualche anno fa, a Venezia, ai tempi del lancio italiano del precedente romanzo, Serenissima. E’ rimasta tale e quale. Non la vamp delle foto di copertina, ma certamente nemmeno la goffa massaia ebreo-americana che certa stampa nervosa tenderebbe ad accreditare. Insomma, una donna simpatica e furba, che sa benissimo quello che fa.
«No, no», risponde ridendo, «qualche americano con le mutande lo conosco. Anzi, moltissimi. Mio marito, per esempio. A non portarle sono i rampanti a oltranza, quelli che perdono la bava per le donne famose, quelli che devono apparire sempre "pronti" a tutti i costi. Uomini, in genere, piuttosto brutti. Quelli belli» — ciglia che sbattono con sapiente civetteria da miope — «sono più riservati, più timidi. Quanto al problema odore, be’, sa, noi americani facciamo moltissime docce. Una vera e propria mania.»
E il problema dello "zip"? Sa, quando si è "pronti", si corrono dei rischi fatali. Erica Jong ride di nuovo calorosamente. Lasciamo perdere. Il lettore perdoni lo squallido profilo dell’attacco, ma il fine di tanta bassezza è della più pura nobiltà. A un certo punto di Ballata di ogni donna, infatti, la protagonista espone una teoria interessante, oltre che non priva di un suo senso almeno para-scientifico. Dichiara infatti la famelica Leila Sand: "Il profumo del sesso è un potente afrodisiaco e certe ragazze ce l’hanno e altre, magari anche molto carine, no. Non ha tanto a che vedere con l’aspetto, quanto con l’odore..." Concetto che mi trova del tutto consenziente. Me lo può spiegare meglio, Erica?
«Noi esseri umani emaniamo certamente dei segnali, dei messaggi di natura sessuale a un livello che va al di là della percezione immediatamente sensibile. Siamo come gli insetti. Ha mai sentito parlare del fenomeno scientifico del feromone? E’ il segnale, il messaggio amoroso che emettono certi insetti. Non esattamente un "odore", ma qualcosa di molto simile. E io sono convinta che si tratti di un fenomeno che riguarda anche noi esseri umani. Come si spiegherebbe, altrimenti, il fatto che può magari capitare di incontrare di punto in bianco, senza nessun preavviso, la persona giusta in mezzo a una folla? Come d’altra parte può invece capitare di "annusare" letteralmente la paura in un ambiente.»
Ne sono convinto anch’io. Assolutamente. Ma come mai, allora, i suoi personaggi femminili trasudano tanta angoscia di non riuscire mai a trovare l’uomo giusto? Non sarà una questione di età? Personalmente, ahimè, temo che si tratti di una facoltà, oltre che repressa e inibita, anche destinata a rarefarsi e perdersi con l’invecchiamento. Più passano gli anni, meno si è capaci di produrre e recepire un simile messaggio amoroso fatto di "sentori" o "radiazioni".
«No, assolutamente no. Non lo credo. Basta essere capaci di rimanere aperti alla possibilità dell’amore. Il problema è che la cosiddetta "civiltà" ci ha "sterilizzati", reso incapaci di esercitare a fondo simili facoltà, che risultano ormai forse praticabili soltanto a chi sa chiudersi in meditazione, ai mistici, agli yoghi. O agli artisti. Alle streghe.»
Possibile, possibile. Chi può escluderlo? Ma via, parliamo di cose più pratiche. Come va che questa Ballata viene pubblicata in prima edizione mondiale proprio in Italia, prima ancora che negli Stati Uniti?
«Semplicissimo. Perché amo più il vostro paese che il mio. E’ più umano. Più sensibile al lavoro degli artisti. Non sono certamente il primo scrittore di lingua anglosassone a pensarla così. Qui avvertiamo un certo particolarissimo senso di libertà. Qui è ancora possibile essere artista. In America un artista è un criminale. Uno scrittore ha senso soltanto se guadagna un sacco di soldi. Con il risultato che i più importanti autori americani di oggi sono, nell’ordine, Danielle Steel, Stephen King e Thomas Clancy. Nient’altro.»
Mettiamo anche Erica Jong nel mazzo? Mettiamocela, su. Sta di fatto, cara Erica, che anche in Italia non sono tutte rose, seppure con un ribaltamento. Uno scrittore è un criminale se ha successo. Se muore diventa santo, soprattutto quando i suoi diritti d’autore arrivano a essere di pubblico dominio e nessun editore li deve più pagare. Se invece si limita a scrivere, be’, non me la sento di spiegare in termini linguisticamente espliciti come e che cosa viene considerato.
«Sì, capisco benissimo. Nemo propheta in patria, come dappertutto. Però io in Italia mi trovo benissimo. Perciò da sei anni passo le mie estati a Venezia, città che ho scoperto diciannovenne, dove mi piace ambientare le storie che racconto e dove affitto delle bellissime case. L’ultima era un vero e proprio palazzo, alla Giudecca, di fianco al "Cipriani Dolci". Una dimora del quindicesimo secolo, decadentissima, ricca di motivi di ispirazione letteraria. Le precedenti erano a Dorsoduro e alla Salute, e così via. Città singolare, affascinante, carica di mistero, nella sua confusione di aria e acqua, con quella sua famosa "nebbia" dove sembra sempre di essere circondati dai fantasmi dei grandi che vi sono vissuti e morti. Tintoretto, Marco Polo, Byron, Casanova. Il von Aschenbach di Thomas Mann.»
Infatti verso la fine del romanzo, Leila Sand, in un momento di sconforto da brevissima astinenza sessuale, per un attimo medita addirittura di gettarsi nella laguna. "Non è a Venezia", pensa, "che vengono a morire gli artisti?" Ritiene forse, signora Jong, che la sanguigna e non poco spermatica vicenda da lei raccontata in questa Ballata, e quella delicatissima, rarefatta, estenuata, narrata da Thomas Mann in Morte a Venezia, abbiano la stessa valenza?
«Perché no? Sono storie molto diverse, naturalmente, ma sono comunque storie di un’ossessione. Un’ossessione amorosa. Avente come scenario Venezia. Leila vuole con ogni forza il suo uomo perduto. Von Aschenbach è irrimediabilmente fulminato dalla visione del ragazzo.»
Bella risposta. Brava. Che cos’è dunque l’amore? Un sentimento sempre uguale, per tutti, in ogni caso?
«Oh no, non è sempre uguale. Assolutamente. Ogni singolo caso ha la sua specificità. Ma è sempre amore. E lei mi chiede che cos’è? Mah, diciamo, la capacità di fare propri i problemi di un’altra persona, di pensare che il suo bene è anche il nostro. Un fatto molto raro. Unico, direi, nell’universo. Una cosa che a volte riguarda, "contiene" il sesso, ma non sempre, e non necessariamente.»
E lo si trova?
«Senz’altro. La prima volta, davvero, lo si sperimenta con i propri figli. Che cosa si può desiderare se non il loro bene? Ma si può trovarlo anche con una persona amata. Sicuramente è necessaria una certa maturità. Dev’essere più di una semplice infatuazione. E non essere fatta soltanto di sesso. Può esistere anche in assenza di sesso.»
Con il sesso però è meglio, no? «Certamente, è più completo. L’aspetto fisico è importante come quello spirituale, ma non può sicuramente essere esclusivo.»
A proposito o a sproposito, oltre che a Venezia d’estate, lei è mai veramente vissuta in Italia, come sostiene di avere fatto per circa un anno, a Strada in Chianti, la sua protagonista Leila?
«No. Oltre alle estati veneziane, ho passato soltanto qualche mese a Firenze, a Bellosguardo. La dimora del Chianti che cito nel libro appartiene a una mia cara amica fiorentina, di cui sono spesso ospite.»
Ma, mi consenta la franchezza, qualche amante italiano l’ha avuto? Mi scusi se mi permetto, ma in un’intervista apparsa ai tempi di Paura di volare, le venivano attribuiti ben 320 amanti, esattamente la metà di quelli del Don Giovanni di Mozart soltanto in Italia. Dunque, dopo quindici anni...
Di nuovo Erica Jong scoppia in una calorosa risata. «Oh, no. E’ una bugia. Nel modo più assoluto. Anche se mi piace questo accostamento con il Don Giovanni, che è l’opera che preferisco e che fa da sottofondo musicale al mio romanzo Serenissima, come a Ballata lo fanno i blues di Bessie Smith. Ma non soltanto con quello di Mozart e Da Ponte, anche con il Don Juan di Byron, che come certamente lei saprà è stato scritto a Venezia. Un grande misto di comicità e malinconia. No, né 640 né 320, però qualche amante italiano l’ho avuto. Sì. Anche se non sono certamente il mostro erotico — mi vede, qui davanti a lei? — per il quale mi si vuol fare passare negli Stati Uniti, una sorta di vampiro capace di succhiare i succhi vitali ai maschi, riducendoli a cadaveri, e vivendo di essi. Non so se lei lo sa, ma anche Byron, ai suoi tempi, per il Don Juan, in patria è stato accusato di essere il diavolo. Un po’ come me, in America.»
Non soltanto in America, sa. Anche qui da noi. E a fini promozionali, mi creda, è una fama che non fa affatto male. Ma, tornando alla domanda, come siamo noi maschi italiani? Le pare che rispondiamo come si deve al mito del "latin lover"?
«Uomini deliziosi. In tutto e per tutto degni della loro fama.»
Dunque non siamo soltanto dei "macho" dispotici e deboli, come afferma Leila Sand in Ballata.
Altra risata, molto divertita. «Anche. Sì. Anche "macho", dispotici e deboli. Ma non si possono fare generalizzazioni, come del resto ovunque. Tuttavia sospetto, anzi credo che gli italiani siano gli uomini più affascinanti del mondo. I più capaci di sedurre una donna, perché capiscono in ogni caso, sempre, che alla donna piace essere sedotta con le parole oltre che con il contatto fisico. E queste parole gli uomini italiani le conoscono da secoli, fino dai tempi dei trobadour. Sanno parlare, parlare, parlare...»
Be’, sa, secondo un vecchio proverbio italiano, "can che abbaia non morde", se ne capisce il significato. Dunque noi sappiamo parlare, parlare, parlare... E poi?
«E poi tutto il resto.»
Sei, sette, otto volte di seguito come fanno gli americanoni senza mutande che nei suoi romanzi possiedono tripudialmente Isadora Wing e Leila Sand? Caspita!
Risate. Ancora risate. «Mah, dipende dall’ispirazione. Tra i maschi italiani vi sono grandi amatori e no, come ovunque. Ma certamente vi è sempre un grande senso di comunicazione con la donna. Molto più che tra gli anglosassoni.»
A proposito di amore, di amanti e in genere di rapporti tra uomo e donna, che cosa è cambiato in questi quindici anni trascorsi dai tempi di Paura di volare, se qualcosa è successo?
«E’ stato un periodo molto difficile, molto confuso. Non si capisce più bene. E’ tutto certamente più difficile adesso che un tempo. La malattia del secolo, l’Aids, ha complicato tutto. La gente ha paura. Si tende sempre meno all’amore fisico e sempre più al voyeurismo, almeno negli Stati Uniti.»
Certamente, ed è terribile, ma io non intendevo questo. Intendevo parlare dello stato del "conflitto" ideologico tra uomo e donna.
«È peggiorato.»
Anche quello? Ne avevo la sensazione, ma per colpa di chi, o di che cosa?
«Della storia?»
La storia? Caspita! E come?
«È un processo lungo, che dura da almeno un secolo. Dai tempi della rivoluzione industriale i ruoli dell’uomo e della donna sono completamente cambiati, divenendo sempre più simili. Uomini e donne lavorano agli stessi processi produttivi, alle stesse macchine. E ciò è ancora più vero dopo l’avvento del computer. Di conseguenza l’uomo, forte soltanto della sua superiorità muscolare, è entrato in crisi. A che cosa serve la forza muscolare di fronte alle cosiddette "macchine intelligenti"? Rimane lì, inutilizzata, compressa. L’uomo è divenuto insicuro. Ma una simile crisi di identità ha colpito anche la donna. La quale è uscita di casa, ha saputo in molti casi rendersi indipendente dal punto di vista economico, conquistarsi il diritto a godere del piacere fisico. Ma non è stato abbastanza. Lo credevamo, ma non lo è stato. Di qui l’insicurezza anche per la donna. Perciò il rapporto tra i due sessi è sempre più difficile.»
Valeva dunque la pena di tanta esplosione di femminismo?
«Penso che fosse inevitabile. Ma abbiamo avuto una rivoluzione soltanto a metà. Le donne sono cambiate, l’uomo invece no. Adesso tocca a lui. Deve ancora capire molte cose, trovare il suo nuovo ruolo, una destinazione per la propria energia compressa, resa inutile dalle macchine, un’energia che troppo spesso trova rifugio nella violenza fisica, dove la forza muscolare torna ad avere la superiorità. E’ un nuovo problema che dobbiamo affrontare.»
Noi? Tutti insieme? Donne e uomini?
«Sì, insieme. Donne e uomini. Da amici. Da alleati. Per risolvere un problema che è comune. Perché abbiamo un grande bisogno di nuova socialità, di nuova comunitarietà. I figli possono essere allevati soltanto in comune. Ci vuole la donna e ci vuole l’uomo. Perché della situazione in cui siamo vissuti nell’ultimo ventennio sono troppo spesso stati vittime i bambini.»
E in questa sacrosanta battaglia si impegnerà anche la pirotecnica Isadora Wing? Senza rivelare nulla di preciso al futuro lettore di Ballata, che cosa ne è veramente stato di lei? All’inizio del libro sembra scomparsa sul Pacifico ai comandi del suo aereo personale, dopo avere scritto il romanzo di cui è protagonista la pittrice Leila Sand, in una specie di gioco di scatole cinesi, con Erica che crea il personaggio Isadora e Isadora che crea il personaggio Leila. Ma poi? È precipitata, è ammarata, è atterrata? Qual è il vero senso di questa metafora di vita?
«Ha avuto un’esperienza di quasi morte, dalla quale ha imparato che deve vivere da guerriera, con grande coraggio.»
Quindi la rivedremo? Ricomparirà come bellicosa e coraggiosa protagonista di un ulteriore libro?
«Mio Dio, spero proprio di no.»
Però lei una dichiarazione simile l’aveva già fatta dopo Paracadute e baci, ma poi Isadora è ricomparsa, viva, vegeta e combattiva come mai.
«Io tento sempre di ucciderla, ma ogni volta lei ricompare. È troppo forte. E’ una storia incredibile, che tuttavia è successa ad altri. "La fama", ha detto Graham Green, "è una maschera mortale". E Nabokov: "A essere famosa è Lolita, non io". Si diventa famosi per certi personaggi, dopo di che diventa impossibile eliminarli. Io amo Isadora Wing, ma la odio anche. Dio, se potessi ucciderla!»
Intanto però Isadora, con le altre sue protagoniste, le ha fatto vendere, nel mondo... quanto? Quanti milioni di copie?
«Una ventina, credo, a questo punto.»
Chapeau, cara signora Jong, checché ne dicano gli schizzinosi. E come procede nella sua attività creativa? E’ disciplinata, come afferma di essere sempre stata Leila Sand in Ballata? Com’è una sua normale giornata di lavoro?
«Disciplinatissima. Mi alzo verso le sette, faccio la prima colazione con mio marito e mia figlia, mi dedico a qualche piccola commissione e alle dieci sono alla scrivania, dove rimango fino alle quattro o alle cinque del pomeriggio. Non esco a pranzo, perché a New York ciò significa perdere la giornata. Se poi sto finendo un romanzo, spessissimo mi rimetto al lavoro anche dopo cena, diciamo dalle undici alle due, che è un periodo magnifico, molto tranquillo, di assoluta concentrazione.
Ma si pone un limite di pagine, come fanno altri?
«Sì, devono essere almeno dieci, scritte con questa penna» — ed esibisce una preziosa Montblanc in metallo chiaro — «su un taccuino. Dieci pagine a mano che poi, trasferite dalla mia segretaria sul computer, diventano due e mezza.»
Disciplina, dunque, metodo. Che cosa suggerirebbe ancora a un giovane o a una giovane che intendessero affrontare la professione di scrittore? E direbbe la stessa cosa a entrambi?
«Prima di tutto delle cose uguali. Per esempio, di imparare a scrivere attraverso la lettura. Leggere, leggere, leggere. E ancora leggere. E rileggere. E leggere le opere dei grandi autori in ordine di realizzazione, in modo da capirne l’evoluzione del metodo di lavoro, i "trucchi" del mestiere. Poi di scrivere. Scrivere. Sempre. Continuamente. Di qualsiasi argomento. Per quanto possa apparire banale, non importa. E’ sempre una forma di addestramento. Di disciplina. Di apprendimento del mestiere. Si figuri: la prima rubrica che mi è stata affidata era sui ristoranti, quando vivevo in Germania.
«E poi direi loro ancora: buttatevi dietro le spalle la nonna. È lì soltanto per inibirvi, per consigliarvi prudenza, moderazione, di fare i bravi, di non rischiare di mettere in imbarazzo la famiglia, di non creare scandalo. Buttatela fuori dalla stanza. Via! Liberatevene.
«Alla giovane, inoltre, ricorderei che deve prepararsi a essere forte. Fortissima. Qualsiasi cosa scriva, verrà duramente criticata unicamente per il fatto di essere donna. Diranno che scrive per motivi falsi, egoistici. Soltanto per fare soldi. Siamo ninfomani, pessime madri, e anche peggio. Perché le donne non devono scrivere, ma stare a casa a fare la torta di mele. Si prepari dunque a essere molto, molto forte. A ignorare tutto quello che verrà detto su di lei, soprattutto dalle altre donne. Poiché, curiosamente, le nostre peggiori nemiche sono loro: le donne che desidererebbero scrivere, ma invece sono lì a fare torte di mele perché non sono riuscite ad accoppare la nonna.»
Le lettrici, insomma.
«No, non necessariamente simili donne leggono. Comunque, come ha detto Swift: "Le censure sono la tassa che si deve pagare per essere famosi". Bisogna essere fatti di ferro.»
Dunque: prima leggere e poi scrivere. Ed essere intensamente capaci di disciplina, di metodo, di perseveranza, di coraggio. In una serie di diversi incontri e interviste, me l’ha ripetuto con assoluta regolarità una gamma di scrittori che va dall’accigliato e sublime Premio Nobel William Golding al sommo bestsellerista Wilbur Smith. Che risieda proprio in ciò la ricetta del successo, comunque lo si voglia qualificare o quantificare?
«È senz’altro così.»
E che cosa ne pensa dei giovani scrittori americani sommariamente definiti "minimalisti"?
«Chi sarebbero? Susan Minot, David Leavitt e così via?»
Be’, sì, certo. Non mi dica che sono meno conosciuti in America che da noi!
«Mah. Non mi interessano. Non mi ispirano. Per me la narrativa deve per sua propria natura contenere tutto il mondo. L’esatto contrario del minimalismo. Antiminimalismo puro.»
«E la critica, in America? Condivide le dure opinioni espresse da Jay MacInerney al proposito proprio su "Esquire"?»
«Un giovane di talento. Ha ragione. La critica letteraria in America non esiste quasi più. Tranne pochissimi, a loro volta scrittori. Updike, Burgess, che però è inglese... Nient’altro. Pettegolezzi, chiacchiere. Porcherie.»
E con il movimento delle donne, in che rapporti si trova?
«Buoni. Credo di avere dato il mio contributo attraverso i miei libri. E credo che lo abbiano capito anche loro. Dieci anni fa mi consideravano una sorta di controrivoluzionaria, per il semplice motivo che vado a letto con gli uomini, ma adesso non più, il movimento femminista è cambiato. Sì, abbiamo ottimi rapporti.»
Il prossimo libro?
«Sto scrivendone uno sul mio amico e maestro Henry Miller. Un saggio biografico e critico, centrato sugli anni di Parigi, tra il ’30 e il ’40, e sulla sua posizione nella letteratura americana. Oltre che, naturalmente, sulla grande amicizia e stima che ci ha legato.»
Dunque per qualche tempo Isadora Wing metterà via la Mercedes targata "Quim" e se ne starà ibernata. Un caloroso grazie, cara Erica. Arrivederci.
Abbiamo comunque modo di sfangarcela. Un modo non proprio canonico secondo le norme del bon ton, ma quasi a prova di bomba. À la guerre comme à la guerre. Ecco qui: basta non indossare la componente inferiore della biancheria intima, slip, boxer o mutandone che sia. Se un individuo di sesso maschile la porta, può stare tranquillo. La pittrice Leila Sand (invenzione della scrittrice Isadora Wing, la sopra citata creatura letteraria di Erica Jong), protagonista del nuovissimo romanzo Ballata di ogni donna, non può sopportare gli uomini con mutanda. La deprimono. Anzi: non ne ha addirittura quasi mai incontrati. Dobbiamo dedurne che l’uomo americano medio non ne fa uso? Come se la cava con lo "zip" dei pantaloni? E, visto che in America il bidet non è strumento sanitario dei più largamente diffusi, non si porrà qualche problema di igiene, se non di afrori indigesti? Altro che offrire chewing-gum al capo che "ha mangiato pesante".
Spiritosa, colta, intelligente, abituata a fare e ricevere provocazioni, Erica Jong sta al gioco. Ci siamo conosciuti qualche anno fa, a Venezia, ai tempi del lancio italiano del precedente romanzo, Serenissima. E’ rimasta tale e quale. Non la vamp delle foto di copertina, ma certamente nemmeno la goffa massaia ebreo-americana che certa stampa nervosa tenderebbe ad accreditare. Insomma, una donna simpatica e furba, che sa benissimo quello che fa.
«No, no», risponde ridendo, «qualche americano con le mutande lo conosco. Anzi, moltissimi. Mio marito, per esempio. A non portarle sono i rampanti a oltranza, quelli che perdono la bava per le donne famose, quelli che devono apparire sempre "pronti" a tutti i costi. Uomini, in genere, piuttosto brutti. Quelli belli» — ciglia che sbattono con sapiente civetteria da miope — «sono più riservati, più timidi. Quanto al problema odore, be’, sa, noi americani facciamo moltissime docce. Una vera e propria mania.»
E il problema dello "zip"? Sa, quando si è "pronti", si corrono dei rischi fatali. Erica Jong ride di nuovo calorosamente. Lasciamo perdere. Il lettore perdoni lo squallido profilo dell’attacco, ma il fine di tanta bassezza è della più pura nobiltà. A un certo punto di Ballata di ogni donna, infatti, la protagonista espone una teoria interessante, oltre che non priva di un suo senso almeno para-scientifico. Dichiara infatti la famelica Leila Sand: "Il profumo del sesso è un potente afrodisiaco e certe ragazze ce l’hanno e altre, magari anche molto carine, no. Non ha tanto a che vedere con l’aspetto, quanto con l’odore..." Concetto che mi trova del tutto consenziente. Me lo può spiegare meglio, Erica?
«Noi esseri umani emaniamo certamente dei segnali, dei messaggi di natura sessuale a un livello che va al di là della percezione immediatamente sensibile. Siamo come gli insetti. Ha mai sentito parlare del fenomeno scientifico del feromone? E’ il segnale, il messaggio amoroso che emettono certi insetti. Non esattamente un "odore", ma qualcosa di molto simile. E io sono convinta che si tratti di un fenomeno che riguarda anche noi esseri umani. Come si spiegherebbe, altrimenti, il fatto che può magari capitare di incontrare di punto in bianco, senza nessun preavviso, la persona giusta in mezzo a una folla? Come d’altra parte può invece capitare di "annusare" letteralmente la paura in un ambiente.»
Ne sono convinto anch’io. Assolutamente. Ma come mai, allora, i suoi personaggi femminili trasudano tanta angoscia di non riuscire mai a trovare l’uomo giusto? Non sarà una questione di età? Personalmente, ahimè, temo che si tratti di una facoltà, oltre che repressa e inibita, anche destinata a rarefarsi e perdersi con l’invecchiamento. Più passano gli anni, meno si è capaci di produrre e recepire un simile messaggio amoroso fatto di "sentori" o "radiazioni".
«No, assolutamente no. Non lo credo. Basta essere capaci di rimanere aperti alla possibilità dell’amore. Il problema è che la cosiddetta "civiltà" ci ha "sterilizzati", reso incapaci di esercitare a fondo simili facoltà, che risultano ormai forse praticabili soltanto a chi sa chiudersi in meditazione, ai mistici, agli yoghi. O agli artisti. Alle streghe.»
Possibile, possibile. Chi può escluderlo? Ma via, parliamo di cose più pratiche. Come va che questa Ballata viene pubblicata in prima edizione mondiale proprio in Italia, prima ancora che negli Stati Uniti?
«Semplicissimo. Perché amo più il vostro paese che il mio. E’ più umano. Più sensibile al lavoro degli artisti. Non sono certamente il primo scrittore di lingua anglosassone a pensarla così. Qui avvertiamo un certo particolarissimo senso di libertà. Qui è ancora possibile essere artista. In America un artista è un criminale. Uno scrittore ha senso soltanto se guadagna un sacco di soldi. Con il risultato che i più importanti autori americani di oggi sono, nell’ordine, Danielle Steel, Stephen King e Thomas Clancy. Nient’altro.»
Mettiamo anche Erica Jong nel mazzo? Mettiamocela, su. Sta di fatto, cara Erica, che anche in Italia non sono tutte rose, seppure con un ribaltamento. Uno scrittore è un criminale se ha successo. Se muore diventa santo, soprattutto quando i suoi diritti d’autore arrivano a essere di pubblico dominio e nessun editore li deve più pagare. Se invece si limita a scrivere, be’, non me la sento di spiegare in termini linguisticamente espliciti come e che cosa viene considerato.
«Sì, capisco benissimo. Nemo propheta in patria, come dappertutto. Però io in Italia mi trovo benissimo. Perciò da sei anni passo le mie estati a Venezia, città che ho scoperto diciannovenne, dove mi piace ambientare le storie che racconto e dove affitto delle bellissime case. L’ultima era un vero e proprio palazzo, alla Giudecca, di fianco al "Cipriani Dolci". Una dimora del quindicesimo secolo, decadentissima, ricca di motivi di ispirazione letteraria. Le precedenti erano a Dorsoduro e alla Salute, e così via. Città singolare, affascinante, carica di mistero, nella sua confusione di aria e acqua, con quella sua famosa "nebbia" dove sembra sempre di essere circondati dai fantasmi dei grandi che vi sono vissuti e morti. Tintoretto, Marco Polo, Byron, Casanova. Il von Aschenbach di Thomas Mann.»
Infatti verso la fine del romanzo, Leila Sand, in un momento di sconforto da brevissima astinenza sessuale, per un attimo medita addirittura di gettarsi nella laguna. "Non è a Venezia", pensa, "che vengono a morire gli artisti?" Ritiene forse, signora Jong, che la sanguigna e non poco spermatica vicenda da lei raccontata in questa Ballata, e quella delicatissima, rarefatta, estenuata, narrata da Thomas Mann in Morte a Venezia, abbiano la stessa valenza?
«Perché no? Sono storie molto diverse, naturalmente, ma sono comunque storie di un’ossessione. Un’ossessione amorosa. Avente come scenario Venezia. Leila vuole con ogni forza il suo uomo perduto. Von Aschenbach è irrimediabilmente fulminato dalla visione del ragazzo.»
Bella risposta. Brava. Che cos’è dunque l’amore? Un sentimento sempre uguale, per tutti, in ogni caso?
«Oh no, non è sempre uguale. Assolutamente. Ogni singolo caso ha la sua specificità. Ma è sempre amore. E lei mi chiede che cos’è? Mah, diciamo, la capacità di fare propri i problemi di un’altra persona, di pensare che il suo bene è anche il nostro. Un fatto molto raro. Unico, direi, nell’universo. Una cosa che a volte riguarda, "contiene" il sesso, ma non sempre, e non necessariamente.»
E lo si trova?
«Senz’altro. La prima volta, davvero, lo si sperimenta con i propri figli. Che cosa si può desiderare se non il loro bene? Ma si può trovarlo anche con una persona amata. Sicuramente è necessaria una certa maturità. Dev’essere più di una semplice infatuazione. E non essere fatta soltanto di sesso. Può esistere anche in assenza di sesso.»
Con il sesso però è meglio, no? «Certamente, è più completo. L’aspetto fisico è importante come quello spirituale, ma non può sicuramente essere esclusivo.»
A proposito o a sproposito, oltre che a Venezia d’estate, lei è mai veramente vissuta in Italia, come sostiene di avere fatto per circa un anno, a Strada in Chianti, la sua protagonista Leila?
«No. Oltre alle estati veneziane, ho passato soltanto qualche mese a Firenze, a Bellosguardo. La dimora del Chianti che cito nel libro appartiene a una mia cara amica fiorentina, di cui sono spesso ospite.»
Ma, mi consenta la franchezza, qualche amante italiano l’ha avuto? Mi scusi se mi permetto, ma in un’intervista apparsa ai tempi di Paura di volare, le venivano attribuiti ben 320 amanti, esattamente la metà di quelli del Don Giovanni di Mozart soltanto in Italia. Dunque, dopo quindici anni...
Di nuovo Erica Jong scoppia in una calorosa risata. «Oh, no. E’ una bugia. Nel modo più assoluto. Anche se mi piace questo accostamento con il Don Giovanni, che è l’opera che preferisco e che fa da sottofondo musicale al mio romanzo Serenissima, come a Ballata lo fanno i blues di Bessie Smith. Ma non soltanto con quello di Mozart e Da Ponte, anche con il Don Juan di Byron, che come certamente lei saprà è stato scritto a Venezia. Un grande misto di comicità e malinconia. No, né 640 né 320, però qualche amante italiano l’ho avuto. Sì. Anche se non sono certamente il mostro erotico — mi vede, qui davanti a lei? — per il quale mi si vuol fare passare negli Stati Uniti, una sorta di vampiro capace di succhiare i succhi vitali ai maschi, riducendoli a cadaveri, e vivendo di essi. Non so se lei lo sa, ma anche Byron, ai suoi tempi, per il Don Juan, in patria è stato accusato di essere il diavolo. Un po’ come me, in America.»
Non soltanto in America, sa. Anche qui da noi. E a fini promozionali, mi creda, è una fama che non fa affatto male. Ma, tornando alla domanda, come siamo noi maschi italiani? Le pare che rispondiamo come si deve al mito del "latin lover"?
«Uomini deliziosi. In tutto e per tutto degni della loro fama.»
Dunque non siamo soltanto dei "macho" dispotici e deboli, come afferma Leila Sand in Ballata.
Altra risata, molto divertita. «Anche. Sì. Anche "macho", dispotici e deboli. Ma non si possono fare generalizzazioni, come del resto ovunque. Tuttavia sospetto, anzi credo che gli italiani siano gli uomini più affascinanti del mondo. I più capaci di sedurre una donna, perché capiscono in ogni caso, sempre, che alla donna piace essere sedotta con le parole oltre che con il contatto fisico. E queste parole gli uomini italiani le conoscono da secoli, fino dai tempi dei trobadour. Sanno parlare, parlare, parlare...»
Be’, sa, secondo un vecchio proverbio italiano, "can che abbaia non morde", se ne capisce il significato. Dunque noi sappiamo parlare, parlare, parlare... E poi?
«E poi tutto il resto.»
Sei, sette, otto volte di seguito come fanno gli americanoni senza mutande che nei suoi romanzi possiedono tripudialmente Isadora Wing e Leila Sand? Caspita!
Risate. Ancora risate. «Mah, dipende dall’ispirazione. Tra i maschi italiani vi sono grandi amatori e no, come ovunque. Ma certamente vi è sempre un grande senso di comunicazione con la donna. Molto più che tra gli anglosassoni.»
A proposito di amore, di amanti e in genere di rapporti tra uomo e donna, che cosa è cambiato in questi quindici anni trascorsi dai tempi di Paura di volare, se qualcosa è successo?
«E’ stato un periodo molto difficile, molto confuso. Non si capisce più bene. E’ tutto certamente più difficile adesso che un tempo. La malattia del secolo, l’Aids, ha complicato tutto. La gente ha paura. Si tende sempre meno all’amore fisico e sempre più al voyeurismo, almeno negli Stati Uniti.»
Certamente, ed è terribile, ma io non intendevo questo. Intendevo parlare dello stato del "conflitto" ideologico tra uomo e donna.
«È peggiorato.»
Anche quello? Ne avevo la sensazione, ma per colpa di chi, o di che cosa?
«Della storia?»
La storia? Caspita! E come?
«È un processo lungo, che dura da almeno un secolo. Dai tempi della rivoluzione industriale i ruoli dell’uomo e della donna sono completamente cambiati, divenendo sempre più simili. Uomini e donne lavorano agli stessi processi produttivi, alle stesse macchine. E ciò è ancora più vero dopo l’avvento del computer. Di conseguenza l’uomo, forte soltanto della sua superiorità muscolare, è entrato in crisi. A che cosa serve la forza muscolare di fronte alle cosiddette "macchine intelligenti"? Rimane lì, inutilizzata, compressa. L’uomo è divenuto insicuro. Ma una simile crisi di identità ha colpito anche la donna. La quale è uscita di casa, ha saputo in molti casi rendersi indipendente dal punto di vista economico, conquistarsi il diritto a godere del piacere fisico. Ma non è stato abbastanza. Lo credevamo, ma non lo è stato. Di qui l’insicurezza anche per la donna. Perciò il rapporto tra i due sessi è sempre più difficile.»
Valeva dunque la pena di tanta esplosione di femminismo?
«Penso che fosse inevitabile. Ma abbiamo avuto una rivoluzione soltanto a metà. Le donne sono cambiate, l’uomo invece no. Adesso tocca a lui. Deve ancora capire molte cose, trovare il suo nuovo ruolo, una destinazione per la propria energia compressa, resa inutile dalle macchine, un’energia che troppo spesso trova rifugio nella violenza fisica, dove la forza muscolare torna ad avere la superiorità. E’ un nuovo problema che dobbiamo affrontare.»
Noi? Tutti insieme? Donne e uomini?
«Sì, insieme. Donne e uomini. Da amici. Da alleati. Per risolvere un problema che è comune. Perché abbiamo un grande bisogno di nuova socialità, di nuova comunitarietà. I figli possono essere allevati soltanto in comune. Ci vuole la donna e ci vuole l’uomo. Perché della situazione in cui siamo vissuti nell’ultimo ventennio sono troppo spesso stati vittime i bambini.»
E in questa sacrosanta battaglia si impegnerà anche la pirotecnica Isadora Wing? Senza rivelare nulla di preciso al futuro lettore di Ballata, che cosa ne è veramente stato di lei? All’inizio del libro sembra scomparsa sul Pacifico ai comandi del suo aereo personale, dopo avere scritto il romanzo di cui è protagonista la pittrice Leila Sand, in una specie di gioco di scatole cinesi, con Erica che crea il personaggio Isadora e Isadora che crea il personaggio Leila. Ma poi? È precipitata, è ammarata, è atterrata? Qual è il vero senso di questa metafora di vita?
«Ha avuto un’esperienza di quasi morte, dalla quale ha imparato che deve vivere da guerriera, con grande coraggio.»
Quindi la rivedremo? Ricomparirà come bellicosa e coraggiosa protagonista di un ulteriore libro?
«Mio Dio, spero proprio di no.»
Però lei una dichiarazione simile l’aveva già fatta dopo Paracadute e baci, ma poi Isadora è ricomparsa, viva, vegeta e combattiva come mai.
«Io tento sempre di ucciderla, ma ogni volta lei ricompare. È troppo forte. E’ una storia incredibile, che tuttavia è successa ad altri. "La fama", ha detto Graham Green, "è una maschera mortale". E Nabokov: "A essere famosa è Lolita, non io". Si diventa famosi per certi personaggi, dopo di che diventa impossibile eliminarli. Io amo Isadora Wing, ma la odio anche. Dio, se potessi ucciderla!»
Intanto però Isadora, con le altre sue protagoniste, le ha fatto vendere, nel mondo... quanto? Quanti milioni di copie?
«Una ventina, credo, a questo punto.»
Chapeau, cara signora Jong, checché ne dicano gli schizzinosi. E come procede nella sua attività creativa? E’ disciplinata, come afferma di essere sempre stata Leila Sand in Ballata? Com’è una sua normale giornata di lavoro?
«Disciplinatissima. Mi alzo verso le sette, faccio la prima colazione con mio marito e mia figlia, mi dedico a qualche piccola commissione e alle dieci sono alla scrivania, dove rimango fino alle quattro o alle cinque del pomeriggio. Non esco a pranzo, perché a New York ciò significa perdere la giornata. Se poi sto finendo un romanzo, spessissimo mi rimetto al lavoro anche dopo cena, diciamo dalle undici alle due, che è un periodo magnifico, molto tranquillo, di assoluta concentrazione.
Ma si pone un limite di pagine, come fanno altri?
«Sì, devono essere almeno dieci, scritte con questa penna» — ed esibisce una preziosa Montblanc in metallo chiaro — «su un taccuino. Dieci pagine a mano che poi, trasferite dalla mia segretaria sul computer, diventano due e mezza.»
Disciplina, dunque, metodo. Che cosa suggerirebbe ancora a un giovane o a una giovane che intendessero affrontare la professione di scrittore? E direbbe la stessa cosa a entrambi?
«Prima di tutto delle cose uguali. Per esempio, di imparare a scrivere attraverso la lettura. Leggere, leggere, leggere. E ancora leggere. E rileggere. E leggere le opere dei grandi autori in ordine di realizzazione, in modo da capirne l’evoluzione del metodo di lavoro, i "trucchi" del mestiere. Poi di scrivere. Scrivere. Sempre. Continuamente. Di qualsiasi argomento. Per quanto possa apparire banale, non importa. E’ sempre una forma di addestramento. Di disciplina. Di apprendimento del mestiere. Si figuri: la prima rubrica che mi è stata affidata era sui ristoranti, quando vivevo in Germania.
«E poi direi loro ancora: buttatevi dietro le spalle la nonna. È lì soltanto per inibirvi, per consigliarvi prudenza, moderazione, di fare i bravi, di non rischiare di mettere in imbarazzo la famiglia, di non creare scandalo. Buttatela fuori dalla stanza. Via! Liberatevene.
«Alla giovane, inoltre, ricorderei che deve prepararsi a essere forte. Fortissima. Qualsiasi cosa scriva, verrà duramente criticata unicamente per il fatto di essere donna. Diranno che scrive per motivi falsi, egoistici. Soltanto per fare soldi. Siamo ninfomani, pessime madri, e anche peggio. Perché le donne non devono scrivere, ma stare a casa a fare la torta di mele. Si prepari dunque a essere molto, molto forte. A ignorare tutto quello che verrà detto su di lei, soprattutto dalle altre donne. Poiché, curiosamente, le nostre peggiori nemiche sono loro: le donne che desidererebbero scrivere, ma invece sono lì a fare torte di mele perché non sono riuscite ad accoppare la nonna.»
Le lettrici, insomma.
«No, non necessariamente simili donne leggono. Comunque, come ha detto Swift: "Le censure sono la tassa che si deve pagare per essere famosi". Bisogna essere fatti di ferro.»
Dunque: prima leggere e poi scrivere. Ed essere intensamente capaci di disciplina, di metodo, di perseveranza, di coraggio. In una serie di diversi incontri e interviste, me l’ha ripetuto con assoluta regolarità una gamma di scrittori che va dall’accigliato e sublime Premio Nobel William Golding al sommo bestsellerista Wilbur Smith. Che risieda proprio in ciò la ricetta del successo, comunque lo si voglia qualificare o quantificare?
«È senz’altro così.»
E che cosa ne pensa dei giovani scrittori americani sommariamente definiti "minimalisti"?
«Chi sarebbero? Susan Minot, David Leavitt e così via?»
Be’, sì, certo. Non mi dica che sono meno conosciuti in America che da noi!
«Mah. Non mi interessano. Non mi ispirano. Per me la narrativa deve per sua propria natura contenere tutto il mondo. L’esatto contrario del minimalismo. Antiminimalismo puro.»
«E la critica, in America? Condivide le dure opinioni espresse da Jay MacInerney al proposito proprio su "Esquire"?»
«Un giovane di talento. Ha ragione. La critica letteraria in America non esiste quasi più. Tranne pochissimi, a loro volta scrittori. Updike, Burgess, che però è inglese... Nient’altro. Pettegolezzi, chiacchiere. Porcherie.»
E con il movimento delle donne, in che rapporti si trova?
«Buoni. Credo di avere dato il mio contributo attraverso i miei libri. E credo che lo abbiano capito anche loro. Dieci anni fa mi consideravano una sorta di controrivoluzionaria, per il semplice motivo che vado a letto con gli uomini, ma adesso non più, il movimento femminista è cambiato. Sì, abbiamo ottimi rapporti.»
Il prossimo libro?
«Sto scrivendone uno sul mio amico e maestro Henry Miller. Un saggio biografico e critico, centrato sugli anni di Parigi, tra il ’30 e il ’40, e sulla sua posizione nella letteratura americana. Oltre che, naturalmente, sulla grande amicizia e stima che ci ha legato.»
Dunque per qualche tempo Isadora Wing metterà via la Mercedes targata "Quim" e se ne starà ibernata. Un caloroso grazie, cara Erica. Arrivederci.