Scrive di: Giuseppe Tucci

1. Recensione: “Il paese delle donne dai molti mariti” (2005)
2. Recensione: “Dei, demoni e oracoli” (2006)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Quando si visita un monastero buddista bisogna procedere con molta cautela, in particolare se non si è ancora svolta o si sta svolgendo la funzione mattutina. E con moltissima cautela bisogna puntare la macchina fotografica. Escluso sempre in maniera tassativa di farlo all’interno dei templi, anche all’aperto ci si troverà ovunque davanti qualche monacello imberbe e imbronciato, di stazza minuscola ma compatta, che ci mulina l’indice sotto l’obiettivo esplodendo certi gutturali “No, no” che preludono al cupo salmodiare lo ”Om Mani Padme Hum” in tonalità degne di Scialiapin. Poi magari nel pomeriggio ti corrono dietro per farsi fotografare abbarbicati a te, cercando di parlare di football e di scrivere faticosamente un indirizzo mail a cui mandare la foto, ma il mattino, in attesa della preghiera, niente da fare.

Anche nei cavernosi recessi del monastero trovi sempre un monacone rasato a zero e drappeggiato nella tunica rossa che ti sventola severo il dito sotto il naso: “No photo, no photo”. Finché inopinatamente, sulla porta di uno dei tanti antri, ampio e coloratissimo, il monaco di turno ti dice che, sì, lì puoi fotografare tutto quello che vuoi. Tu rimani di stucco, perché sei circondato da un policromo tripudio di immagini sacre votive, che mai penseresti di poter dissacrare con il tuo flash. Invece sono soltanto RAPPRESENTAZIONI del sacro, NON il sacro in sé, che non può consustanziarsi in un oggetto appartenente all’illusorio ambito del reale. Al contrario, dunque, il flash, con la sua luce, e la tua presenza, con il suo calore, contribuiranno al modificarsi di tale rappresentazione fino al suo disfacimento e al conseguente passaggio nel vero reale, il vuoto. Perché - come del resto avrebbe dovuto avvertirti il sentorino quasi di piedi - le bellissime (o anche truci) e coloratissime immagini sono fatte con il più deperibile dei prodotti, il burro, sia pure di yak.

Foto a parte, tutto ciò viene spiegato con impareggiabile maestria in Il paese delle donne dai molti mariti di Giuseppe Tucci, grande specialista di filosofie orientali e in particolare di buddismo e cultura tibetana, uno dei più grandi al mondo. Grandissimo ma non precisamente indimenticato, in Italia. Se si effettua una ricerca nella più importante libreria virtuale del nostro paese, compaiono al massimo cinque titoli, di cui uno indisponibile. Se invece lo cerchi su Amazon americana, ti viene scaraventato sotto il naso lo stupefacente numero di poco meno che 600 titoli, sia pure in buona misura doppioni o in lingue diverse o di disponibilità limitata (e probabilmente qualcuno di quei Tucci non è lui). «Il Tibet, Tucci?» si sentirebbe chiedere oggi se proponesse un suo testo a una qualsiasi pubblicazione di qui. «A chi interessa? Va be’, al massimo un paio di cartelle, visto che ha queste foto di moda e modernariato tibetani (ce le dà gratis, vero?), ma non si diffonda come al solito in quelle sue mortali disquisizioni su arte, cultura e religione. Chi le legge? Sia breve e lieve, diverta...» Doppiamente meritevole, quindi, il lavoro di chi ha raccolto questi anche ardui testi per riproporli al lettore italiano di oggi.

Quanto “io” c’è nei racconti del professor Tucci: “Io che ho fatto questo, io che ho scoperto codesto, io che ho decifrato quello” eccetera. Per quanto sia tutto verissimo e certificato, non sembra un atteggiamento precisamente da persona aspirante a dissolversi nella suprema realtà del vuoto buddista, ma tant’è. D’altra parte il professore esigeva sempre di essere chiamato Eccellenza e ci teneva moltissimo a far sapere quanto fosse potente nella Roma fascista. I testi sono comunque affascinanti, e possiamo soltanto sperare che ne seguano presto altre raccolte e riedizioni. Perché Il paese delle donne dai molti mariti? Perché nella società tibetana vige la poliandria. Ogni donna ha non soltanto il proprio marito ma anche i fratelli di questo: le condizioni di vita sono durissime, il marito può sparire da un momento all’altro tra il ghiaccio o in un crepaccio, calpestato da uno yak, sotto una valanga o una frana, tanto vale adattarsi fin dal principio all’idea e attrezzarsi. Se n’era accorto persino il corrucciato Sven Hedin, che pur avendo eletto a propria “fredda sposa” l’Asia, ammette che con una certa promiscua sposina, in un certo angolo del Tibet, potrebbe anche essere successo qualcosa. Una, in diverse decine di anni di esplorazioni: che resistenza. Si può perdonargli la scappatella e auspicare soltanto che un giorno qualcuno traduca in italiano lo splendore delle sue memorie intitolate “La mia vita da esploratore”. Mentre le compilava non era ancora stato preso dal demone del nazismo.

Hedin, Tucci, tanti altri amici di Hitler e Mussolini... Che cosa facevano tra quelle altissime vette, con i ramponi ai piedi o in groppa a uno yak? Davvero si limitavano a esplorare? C’è da dubitarne. Controllare il Tibet avrebbe significato, per le potenze tese a coalizzarsi nell’Asse, provocare un bel grattacapo per i britannici dell’India, approfittando della temporanea debolezza della Cina, sgravata dell’imperatore ma in sanguinosa guerra civile. La consuetudine di Tucci con Karl Haushofer è perlomeno inquietante, ma bisogna ammettere che il professore soprattutto studiava culture, religioni e arti dei paesi che andava letteralmente arando con i tracciati delle sue spedizioni. Infatti l’Italia uscita dal fascismo continuò giustamente a finanziare le sue ricerche. Così oggi possiamo godere dei testi raccolti in Il paese delle donne dai molti mariti, che spaziano su un arco temporale che va dai Trenta ai Cinquanta.

“Visioni” e “Incanti”, montagne e deserti, giungle e fiumi, divinità e demoni, buddismo e induismo, tutto si compone a formare un unicum straordinario teso anzitutto a fare da ambiente per l’uomo e il suo “dolore dell’esistere”, che nell’immediato sembra tuttavia essere “piacere dell’esistere” se non addirittura “furia dell’esistere”. Così le donne dai molti mariti e il turbinoso cromatismo delle immagini di burro, le risate senza freno e il fervere di avidi mercati dentro il tempio, dove in un angolo neanche dei più remoti o bui puoi avvistare un gruppetto di monaci ingobbiti come nibelunghi a contare e impacchettare i mucchi di banconote depositate come offerte sugli altari. Poi esci dalla cupezza rimbombante di “Om” e Tucci ti guida per mano tra gli edifici e le celle del monastero, e poi fuori, nel villaggio o nella città, fin dentro le case, con la loro struttura a volte impensabilmente prospera, i loro oggetti d’arte, i mobili, le masserizie. Persino nelle dimore di nobili, grandi lama e re.

Conclude il libro lo straordinario racconto di una “kora”, il pellegrinaggio da effettuare in senso orario (se si è buddisti, al contrario se si è seguaci della precedente religione Bön del Tibet) in circa 3 giorni. Ma Tucci ce ne mette molti di più, su e giù, di monastero in monastero, attorno al Kailash (6600 metri, “Kailasa” lo chiama lui), la montagna più sacra dell’Asia, venerata allo stesso titolo da buddisti e induisti, per i quali è il Paradiso di Shiva. Sembra di essere lì, appena sopra le cristalline acque del lago Manosarovar, avendo negli occhi la visione degli ex voto schiaffeggiati dal vento e negli orecchi il cigolio dei mulinelli di preghiera. Applausi alle visionarie capacità evocative di Giuseppe Tucci e a chi ha avuto l’idea di riproporlo, soprattutto in questa epoca oscura in cui - nella nostra insopprimibile ansia di provincialismo - sembra che gli unici degni di attenzione quando scrivono di viaggio siano gli stranieri.

2.

Chiuso tra l’Himalaya a sud e la catena dei monti Kunlun a nord, ad altitudini tra i 4000 e i 5000 metri e spesso oltre, si estende uno dei territori più aspri e ancora meno visitati del nostro pianeta: il Tibet occidentale, oggi parte della Cina. Vi si accede con lungo itinerario da Lhasa, oppure con grande fatica (e disponendo di provette doti montanare) dall’India, attraverso i ripidissimi tratturi che valicano la catena himalaiana; con quasi altrettanta fatica, infine, dall’estremo Occidente della Cina, ovvero dal Sinkiang, partendo da Kashgar o da Hotan, via Yarkand e l’Aksai Chin, territorio amministrato dalla Cina ma rivendicato dall’India.

Zona difficilissima e asperrima, eppure, in secoli lontani, una culla di civiltà. Vi nacque probabilmente la religione Bön che precedette il Buddhismo, in cui fu poi (non proprio pacificamente) assimilata; vi prosperarono ricchi commerci nei due sensi fra l’India, l’Asia Centrale e la Cina; vi si sviluppò il civilissimo regno di Guge, i cui re, anzitutto attraverso la venerata figura del monaco Rincenzangpò, grande animatore e traduttore di testi sacri dal sanscrito (X-XI secolo), favorirono il revival del Buddhismo messo in crisi a Lhasa da un re fieramente avverso.

Nel XVII secolo vi fu addirittura ammessa una missione cattolica, portata lì dai gesuiti portoghesi di Goa guidati da padre Antonio de Andrade. Gli intrepidi missionari si erano spinti così lontano nella convinzione che si trattasse del favoleggiato regno cristiano del Prete Gianni. Non lo era, e in zona non vi erano cristiani, ma furono accolti con grande tolleranza e addirittura favore. Provocarono però la rovina del regno: i lama, indignati per la loro presenza e predicazione, chiamarono in soccorso le truppe del re del Ladhak, appena a sud, che arrivarono in forze, misero in galera i gesuiti, occuparono il regno e lo distrussero. Ulteriori devastazioni furono poi apportate dai tibetani di Lhasa al momento della riconquista e altre ancora dalle guardie rosse di Mao.

Di queste ultime devastazioni non poté ovviamente rendere conto (non erano ancora avvenute) il grande esploratore e tibetologo Giuseppe Tucci, che da quelle parti si aggirava in nome (e con finanziamento) della cultura ufficiale italiana già negli anni Trenta, continuando a farlo (in otto spedizioni) per un ventennio. Rese però conto con grande puntiglio e malinconia dell’irreparabile rovina in cui già allora erano ridotti quelle decine di luoghi sacri e monasteri un tempo splendidi. Lo fa, per esempio, nello snello ma prezioso Dei, demoni e oracoli. La leggendaria spedizione in Tibet del 1933 da poco uscito in una collana di libri di viaggi ed esplorazioni che si prefigge la ripubblicazione dei testi di Tucci, già editi ma ormai quasi (o totalmente) introvabili. Questo, per esempio, salvo errore, risale a un’edizione 1934 della Reale Accademia d’Italia.

Nel 1933 Tucci partì (non per la prima volta) dall’estremo Nord dell’India (Pathankot) per raggiungere lo Shang Shung, dove si trovano le rovine dell’antico regno di Guge. Lo fece con un itinerario veramente complesso (ai nostri occhi di oggi), viaggiando trasversalmente lungo lo Spiti e poi finalmente su per la la valle della Sutlej, uno dei quattro grandissimi fiumi asiatici che nascono dai dintorni del sacro Monte Kailash e dell’altrettanto sacro Lago Manasarovar, con Indo, Brahmaputra e Gange (attraverso il suo importante tributario Karnali).

Per decenni, nell’Ottocento, si era irriso alle cronache che parlavano di questo monte e di questo lago, trattate alla stregua di favole, finché esse furono inoppugnabilmente confermate dal grande e sconsiderato esploratore Sven Hedin. A diffondere quelle vecchie notizie, a parte i pii pellegrini buddhisti e induisti diretti proprio a fare la loro kora di tre giorni attorno al Kailash, era stato uno stuolo di spie, soprattutto britanniche e in varia maniera mascherate, che per decenni avevano tentato di rinnovare i fasti degli antichi commerci tra India e Asia Centrale, cercando caso mai nel frattempo di verificare se ci fosse la possibilità di far passare per quegli aspri tratturi anche po’ di truppe, come effettivamente poi avvenne allorché i britannici di Younghusband occuparono Lhasa salendo per il Sikkim (1904).

Tucci raggiunge finalmente il Tibet Occidentale (il regno di Guge) agli oltre 5600 metri del Passo Shipki. Era già passato di lì un paio di anni prima, rimanendovi ammalato, e ha un emozionante incontro con gli amici del luogo. Ad attirarlo in quelle zone era il bruciante desiderio di penetrare a fondo la cultura tibetana, anche nelle sue componenti e pratiche più oscure, sotterraneamente legate a origini sciamaniche e Bön, quell’ “immenso tumulto dell’irrazionale” dove l’uomo “ritrova se stesso e abbraccia l’infinito”. E aspirava a ottenere l’iniziazione, cosa che non avvenne in questa spedizione del ‘33 ma nella successiva del ‘35, quando la ricevette “dall’abate di Saskya”, come raccontò lui stesso.

Dallo Shipki La, nel ‘33, Tucci prosegue poi per i resti dell’antica capitale di Guge, Tsaparang, e i monasteri di Toling. È abile commerciante anche lui, o, meglio, abile acquirente. Da ogni suo viaggio, e quindi anche da questo del 1933, torna con dovizia di antichi oggetti di culto o testi sacri, rendendoli accessibili allo studio e sottraendoli all’oblio se non alla distruzione. L’implacabile professore conosce molto bene le popolazioni locali e sa come si tratta con esse, come si mercanteggia, come si concedono regali e mance, quali argomenti si usano (in particolare la conoscenza e la pratica del Buddhismo).

Lo racconta in pagine godibilissime, che fanno da contrappunto - non senza sollievo del lettore - ai profluvi di notazioni colte spesso non sufficientemente argomentate (se non niente del tutto). Non già perché l’emerito professore non conoscesse il fatto suo, al contrario, ma perché la disanima storico-scientifica la lasciava a testi più importanti e paludati: questi erano i suoi rapidi appunti di viaggio, magari anche sottoposti a editing. Ma non di rado, davanti a perentorie affermazioni tipo “in quella effigie riconoscemmo immediatamente il tale dio, contrariamente a quanto sostenuto da Pinco Palla”, al lettore non risulterebbe sgradita, anche in nota, qualche breve giustificazione. Così come, data la difficoltà di seguire il tortuoso viaggio sulle carte geografiche con i nomi e i tracciati di oggi, non sarebbe forse stato superfluo corredare il testo con una mappa dell’itinerario.

Osservazioni minime, tali da non sminuire in nulla un libro che, a parte la sua incontestabile importanza, è godibilissimo, in particolare per il normale appassionato di viaggio avventuroso, soprattutto se con una propensione per il Tibet e il Buddhismo lì trapiantatosi dall’India (e lì sopravvissuto). Luoghi da visitare prima che la devastazione già prevista e lamentata da Tucci vi diventi totale e definitiva.

Giuseppe Tucci: “Il paese delle donne dai molti mariti”, Neri Pozza
Giuseppe Tucci: “Dei, demoni e oracoli”, Neri Pozza
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