Scrive di: Viaggi nelle steppe dell'Asia Centrale

Viaggiatori e avventurieri a Bukhara e Khiva nell’Ottocento: Burnes, Wolff, Vámbéry, MacGahan, Schuyler, Burnaby…

© Mario Biondi
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Davvero il mondo è più globalizzato oggi di, diciamo, cinque-sei secoli fa? 2022 - 1482? Che cosa sappiamo noi, uomini post moderni del 2022, di Bukhara, Uzbekistan? Uhm. Eppure il poeta laureato Matteo Maria Boiardo nel 1482 sapeva benissimo che nel 1220 una città denominata Bukhara era stata sottoposta a un furioso assedio da parte del mongolo Gengiz Khan. Trasformatili rispettivamente in Albracca (Albraca, dalle parti del Cathay), e Agricane (Agri Khan, imperatore di Tartaria), ecco pronte alcune scene fondamentali dell’Orlando innamorato: “[Angelica] ne è dentro ad Albraca fuggita, Che longe è dal Cataio una giornata…” Seguito a ruota, 1516, dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, dove Albracca è ormai superata, e al posto di Agricane, ucciso da Orlando ma piamente convertitosi in punto di morte, imperversa suo figlio Madricardo.

[Nel]le steppe dell’Asia centrale, si intitola poi un vibrante poema sinfonico di Aleksandr Porfir’evič Borodin, composto nel 1880 per celebrare il giubileo dello zar Alessandro II Romanov, che avrebbe avuto luogo nel 1881 se lo zar, grande riformatore ma governante durissimo, non fosse stato assassinato pochi mesi prima. Quasi obbligatoria, però, questa composizione: i russi sapevano bene che cosa fosse l’Asia centrale, e Alessandro II aveva favorito in ogni modo l’ampliamento del già immenso impero russo nelle steppe (e nei deserti) di quella complicata terra sud orientale. E sotto il suo comando, prima Bukhara e poi Khiva erano state state ridotte al vassallaggio. Ne era nato il cosiddetto “Grande Gioco”, ovvero la serrata guerra di diplomatici e spie tra Russia e Inghilterra per il controllo di quelle terre sui confini dell’India (lo “gioca” anche il Kim di Kipling), ovvero di quello che per gli inglesi era il loro Raj (impero).


E già nel 1863 quattro avventurosi setaioli lombardi… ma procediamo con ordine…


Bukhara e Khiva, due cittadelle fortificate con mattoni di argilla e circondate dalla sabbia dei deserti, la seconda addirittura minuscola. Sì, però due capisaldi divenuti sfrontatamente ricchi, potenti e prepotenti per il semplice motivo di controllare i commerci su alcuni rami di quella che molto più tardi sarebbe stata definita “Via della seta”. Vi si arrivava, sempre per steppe e deserti, via terra dalla russa Orenburg o via acqua attraversando il Caspio. E da lì si scendeva a Merv (oggi Mary, Turkmenistan), da dove si proseguiva per l’afghana Herat verso l’India (adesso Pakistan), ovvero il Raj britannico. Luoghi impervi, ma il commercio tira più di cento coppie di buoi… E del resto altri possibili itinerari circonvicini erano del tutto impercorribili. Importantissimi centri per il commercio di pietre preziose, seta e tè, ma anche di schiavi. E in Russia Alessandro II aveva abolito la servitù della gleba. Come quella degli inglesi da sud est, la sua avanzata da nord ovest si circonfondeva quindi di un’aureola di “guerra di civiltà” (se non proprio “santa”) contro i miscredenti musulmani. Già. Sta comunque di fatto che molti sudditi dello zar erano passati per quei mercati di schiavi e vi erano ancora detenuti poco prima dell’arrivo delle truppe del generale Kaufman (1873).

Quindi è addirittura impressionante la quantità di personaggi, con relative relazioni scritte, che vi si avventurarono nell’Ottocento, in qualche caso incontrando prigione e schiavitù, se non addirittura la morte. Alexander Burnes — e non fu il primo, visto che riferì di altri viaggiatori precedenti — passò di lì agli inizi degli anni Trenta dell’Ottocento, ma soltanto da Bukhara per poi scendere verso la Persia attraverso il deserto dei turcomanni (Toorkmuns), prima di finire massacrato a Kabul (Cabool) nel 1841 nel corso della dissennata avventura inglese definita “Prima guerra anglo-afgana” e risoltasi in una tragedia di dimensioni epiche, a cui di un intero contingente di occupazione pare sia sopravvissuto soltanto l’ufficiale medico. Giovanissimo e coltissimo, Burnes rimase vittima dell’insipienza dei funzionari coloniali britannici mandati a “civilizzare” l’Afghanistan, che non vollero dare retta alle sue esperte e corrette indicazioni. Le sue esperienze di viaggio bukhariota le raccontò in parte del dettagliatissimo e prezioso Travels Into Bokhara. A Journey From India To Cabool, Tartary And Persia, 3 volumi pubblicati nel 1834-35.

Sorte non diversa toccò nel 1842, ma a Bukhara, ai britannici colonnello Stoddart e capitano Conolly (al primo si attribuisce il marchio di fabbrica dell’espressione “Grande Gioco”), mandati a tastare il terreno con il locale emiro ma comportatisi in maniera a quanto pare poco educata, quindi rinchiusi a lungo in un famigerato pozzo pieno di parassiti ai piedi della rocca e poi giustiziati, senza poter lasciare cronache personali della vicenda. Pare sia ancora lì, il famigerato pozzo, ma io non sono riuscito a trovarlo. Si salvò invece il reverendo Joseph Wolff, singolarissimo personaggio ossessionato dalla ricerca delle tribù perdute di Israele, figlio di un rabbino bavarese ma poi convertitosi in stretta successione al luteranesimo, al cattolicesimo e alla Chiesa anglicana d’Inghilterra. Noto come il “Missionario del mondo” e abbigliato al meglio del suo abito talare, si presentò a Nasrullah Khan per chiedere notizie circa la sorte dei due infelici, riuscendo soltanto a suscitare con il suo aspetto un uragano di risate e venendo rispedito a Londra, dove nel 1845 pubblicò una seccatissima Narrative Of A Mission To Bokhara, In The Years 1843–1845, To Ascertain The Fate Of Colonel Stoddart And Captain Conolly.

Nel 1863 fu la volta di un altro religioso, anche se questa volta del tutto finto: il coriaceo, dotto e zoppo linguista e orientalista ungherese Ármin (Arminius) Vámbéry, riuscito a intrufolarsi travestito da derviscio in mezzo mondo musulmano (sunnita in Turchia, sciita in Persia e poi ancora sunnita) fino a Khiva, Bukhara e Samarcanda. Cercava tra l’altro conferme alla sua teoria secondo cui la lingua dell’Ungheria avrebbe origini nel turki parlato da quelle parti. Non so che cosa dire: nei bazar di Khiva e Bukhara (e persino di Kashgar e Khotan, “Tartaria cinese”, come viene regolarmente definita da tutti quei viaggiatori, senza il benché minimo accenno agli uiguri) sono riuscito a spiegarmi con i rudimenti di turco ottomano appresi nei miei decenni di viaggi in Turchia (tamak invece di yemek, “mangiare, cibo”; tagh invece di dağ, “montagna”, muz invece di buz, “ghiaccio”, kul invece di göl, “lago”; darya invece di dere, “valle”, “corso d’acqua” eccetera; ma pari pari su, “acqua” (in ogni forma ed estensione), cugino del cinese shui — e del tibetano chu e del siberiano sey-sei — da un lato e del sassone see-sea dall’altro); a Budapest e dintorni non ho mai capito — e tanto meno spiccicato — una sola parola. Sia come sia, Vámbéry ci ha lasciato una sapida narrazione delle sue vicende in Travels in Central Asia (1864; Treves, Milano, 1873), seguito da approfondimenti e coloriture in Sketches of Central Asia (1868). Partito dalla costa sud orientale del Caspio, dopo un itinerario desertico tremendo arrivò a visitare Bukhara nell’estate del 1863.873), seguito da approfondimenti e coloriture in Sketches of Central Asia (1868). Partito dalla costa sud orientale del Caspio, dopo un itinerario desertico tremendo arrivò a visitare Bukhara nell’estate del 1863.

Quasi contemporaneamente, quindi, al quartetto di lombardi — Riboldi, non ritenuto degno di nome dalle cronache del tempo ma specificato come “esperto nella conservazione dei bachi da seta”, Ferdinando Meazza, uno dei maggiori importatori di semi di bachi e produttore di seta di Milano, Pompeo Litta-Biumi e Modesto Gavazzi (I prigionieri italiani a Bocara. Lettera al comm. C. Negri, Torino, Tipografia Cavour, 1864 e Alcune notizie raccolte in un viaggio a Bucara, Milano, Perseveranza, 1865) —, partiti nel gennaio del 1863 e, seguendo l’itinerario russo di Orenburg - Kasala (ovvero Kasalı in turki, oggi Kazalinsk), spintisi fin là “a far seme”, ovvero in cerca di bozzoli (e relative uova, ovvero “semenza”) meno costosi e migliori di quelli italiani, afflitti dal flagello della pebrina. Finirono incarcerati per tredici mesi. Vámbéry non ebbe occasione di incontrarli, ma seppe della loro penosa situazione, mentre gli italiani non accennano a lui, fatto certamente spiegabile con il travestimento di Vámbéry, che lo faceva apparire un derviscio musulmano a tutti gli effetti. Derviscio tra l'altro finto, che dal canto suo non avrebbe avuto alcun motivo di andare in cerca di ferengi-frenghi ovvero europei, a rischio di essere smascherato.

A partire dal 1717 i russi di cercarono più volte di conquistare Khiva, lontanissima, poco meno che inaccessibile ma molto ricca, debole e piena, come ho detto, di schiavi russi razziati sulle rive orientali del Caspio e persino su su fino dalle parti di Orenburg. Con esiti però che furono anche disastrosi, fino alla spedizione voluta e organizzata nel 1873 dal governatore generale del Turkestan, generale Konstantin Petrovich Kaufman, con sede a Tashkent. Bukhara era già stata convinta al vassallaggio e Khiva fu accerchiata e conquistata a cannonate da diverse colonne militari partite dai quattro punti cardinali (compresa una partita dal Caspio, quasi come Vámbéry, ma insabbiatasi nel deserto e costretta a ritirarsi rovinosamente). Accompagnava la spedizione di Kaufman — o meglio, la inseguì nei deserti fino a raggiungerla nelle vicinanze di Khiva, presenziando alla presa — l’ardimentoso corrispondente americano di “New York Herald” e “London Daily News” Januarius MacGahan, che ne lasciò un resoconto tanto avventuroso quanto appassionante in Campaigning On The Oxus And The Fall Of Khiva, del 1876.

Un vero fegataccio, oltre che un giornalista di prim’ordine e uno scrittore di rango, destinato a morire molto giovane (34 anni) dopo aver reso conto della atrocità commesse dai turchi in Bulgaria. Nel libro su Khiva non mi sembra che ne parli, comunque risulta avesse sposato una nobile russa, forse dopo quella campagna militare. Sta di fatto che trovò magnifici e splendidamente organizzati i soldati dello zar, pur non risparmiando parole di elogio anche per lo sconfitto giovane khan di Khiva. Condividendole con molti di quei militari, espresse però giuste e forti riserve sulla carneficina fatta infliggere da Kaufman ai nomadi alleati del khan, i turcomanni Yomud, allevatori tra l’altro di uno dei più bei cavalli del mondo, lo Iomud, che da loro ha preso il nome. (Tra di loro Vámbéry si era trovato benissimo, pur con qualche riserva.) Chissà perché, MacGahan trovava bizzarro che i russi avessero l’abitudine di attribuire a questa o quella località il nome di un militare di particolare distinzione. Si era evidentemente dimenticato che della stessa natura è il nome della capitale del suo stesso paese, Washington. Viaggiò da nord ovest, ovvero in direzione poco meno che opposta a quella di Vámbéry (salito da sud est), quindi non passò per Bukhara, però strada facendo incontrò notizie di “due italiani” che erano stati duramente imprigionati a Bukhara e poi liberati. Obbligatorio pensare al sopra citato quartetto di “semai” lombardi. La prima parte del viaggio — fino a Kasala e Perovsky (oggi Kyzylorda), località che doveva effettivamente il nome a Vasily Alekseevich Perovsky, uno dei generali non riusciti a raggiungere Khiva (1839) —, la compi in compagnia del diplomatico e scrittore americano Eugene Schuyler, traduttore di Turgenev e Tolstoi, che nel 1876 pubblicò presso lo stesso editore londinese Turkistan, Notes of a Journey in Russian Turkistan, Khokand, Bukhara and Kuldja.

Sulle loro tracce viaggiò qualche anno più tardi, con strepitose faccia tosta e capacità di domare difficoltà e pericoli, il capitano britannico Frederick Burnaby, che per effettuare il viaggio usò alcuni mesi di licenza. Naturalmente i russi non credettero mai che non fosse una spia e gli complicarono il più possibile la vita, pur rendendogli sempre l’onore delle armi, offrendogli grandi bevute di vodka e rimandando eventuali animosità all’inevitabile momento dello scontro militare tra i loro due paesi. Lui accettava impassibile, considerandoli più che altri dei selvaggi e irridendo tra sé alla loro pretesa che l’orso russo fosse impegnato in un’impresa di civilizzazione. Mentre i soldati della leonessa Vittoria, in India e Afghanistan, com’è noto… Trovò comunque anche lui molto simpatico e umano l’appena sconfitto khan di Khiva, che cercò malinconicamente invano di farsi spiegare i motivi per cui i funzionari della sunnominata imperatrice in India avessero porto orecchi da mercante alla sua richiesta di assistenza nei confronti delle pretese russe. Mosse del Grande Gioco… Il tutto raccontato con grande brio in A Ride to Khiva: Travels and Adventures in Central Asia (1876).


La mappa di J. A. Mac Gahan con le 4 colonne russe

“Mappa

”Salvatemi dai miei amici", implora il khan asiatico stretto fra l'orso russo e la leonessa inglese…

“L'orso

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