Scrive di: Fosco Maraini

Recensione: “Dren-Giong” (2012)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Da giovanissimo, vivendo in un piccolo centro di campagna dove non c'era niente da fare, passavo le ore libere a leggere. E leggevo principalmente libri di — diciamo così — avventura esotica, su una vasta gamma da Salgari a Kipling. Quindi i miei occhi correvano sull'atlante De Agostini alla ricerca dei luoghi di quelle avventure, molto spesso introvabili in quanto appartenenti soltanto alle realtà romanzesche. Ma invariabilmente il mio sguardo era attratto da tre macchioline ai piedi dell'Himalaya, tre cuscinetti tra la Cina e l'India. Nepal, Sikkim e Bhutan erano, allora, tre regni indipendenti. Per me tre miti, che un giorno o l'altro avrei senz'altro visitato. Due sono rimasti indipendenti, il terzo no. Con la stessa esperienza di geografia scolastica Fosco Maraini apre Dren-Giong, suo primo libro, originariamente edito nel 1939 e ripubblicato in questi giorni con un ampio apparato di testi commemorativi in occasione del Centenario della nascita dell'autore.

Dren-Giong è il nome dato dai locali al Sikkim. O almeno — credo — da una parte di essi, quelli di etnia più strettamente tibetana (come di stretta origine tibetana-orientale, il Kham, era la famiglia del re o meglio maharaja). Appunto dal Tibet vi arrivò Maraini nel 1937: era stato lassù al seguito di Giuseppe Tucci e aveva in particolare esaminato gli affreschi del mirabile Kumbum di Gyantse, emozionante ed emozionato esame che avrebbe più tardi costituito il nucleo del suo indimenticabile capolavoro sul Tibet. Nel 1937 il Sikkim era ancora un regno, governato da quella famiglia di tibetani Khampa, isolati ma molto curiosi di ciò che avveniva nel Grande Mondo.

In pratica un dito pollice infilato nelle reni dell'Himalaya, un cuneo tra i maestosi picchi di Kanchenjiunga (soprattutto Nepal) e Chomolhari (Bhutan), la strada più diretta, ancorché a dir poco tortuosa e complicata, per salire dall'India a Lhasa. Prima di Maraini l'aveva ovviamente percorsa un sacco di gente: mercanti e pellegrini ma anche spie britanniche travestite in tutte le guise possibili (agrimensori, botanici, naturalisti, lama buddisti), torbidi invasori come il colonnello Francis Younghusband, capace (1903-04) di ammazzare svariate migliaia di tibetani inermi pur di portare fino a Lhasa dall'India britannica il suo contingente di armati e le sue 67 camicie con corredo di 28 mutande lunghe; e persino lo strambo viaggiatore-scrittore-dandy Robert Byron, che ne ha lasciato un resoconto a dir poco esilarante.

Subito dopo Maraini, invece, nel 1938-39, per quel tortuoso tratturo si inerpicò l'inquietante spedizione di Ernst Schäfer e Bruno Beger, finanziata dal gerarca nazista Himmler. Andavano, secondo loro e secondo il loro sponsor, alla scoperta delle pure origini del popolo ariano. In Tibet? Secondo altri, invece, più ragionevolmente, non sarebbe stato altro se non un tentativo di stabilire una testa di ponte nazista in Tibet, tesa a collegarsi con i giapponesi che già avevano invaso la Cina, in vista di ulteriori sviluppi bellici del malaugurato asse Berlino-Roma-Tokyo. Non passò invece di lì il nazista Heirich Harrer per trascorrere i suoi sette anni in Tibet al fianco dell'adolescente XIV Dalai Lama (certe compagnie sono veramente cattive, Santità…), ma raccontò di averlo fatto da un altro accesso, infinitamente più scomodo e periglioso. Di lì, infine, scese lo stesso Dalai Lama nel suo primo tentativo di auto-esilio, nel 1950. Tornò presto indietro per la stessa strada, ma intanto aveva portato giù tutto il tesoro del Potala, che secondo il governo cinese non appartiene a lui ma al popolo tibetano. A incontrarlo nel Sikkim c'era proprio, vedi caso, Harrer, diretto a tornare in Austria. Evidentemente temeva meno i tribunali antinazisti di quelli cinesi.

CIT.LU.V.I.T. (Cittadino Luna Visita Istruzione sul Pianeta Terra) si definiva Maraini. Gli interessavano la natura della Terra e gli esseri umani che la abitano: in Sikkim non si occupa di politica e nemmeno particolarmente di buddismo, nonostante la fascinazione subita tra gli affreschi del Kumbum di Gyantse. Del buddismo e delle sue frazioni, a quei tempi non sapeva un granché (era pane per i dottissimi denti di Tucci, forse massimo tibetologo di sempre dopo Padre Ippolito Desideri), infatti non rimarca che i Buthia, o Bothia, insomma i Bo/Po, i tibetani scesi (non proprio di loro spontanea volontà, e lui lo fa notare) dal Tibet a Dren-Giong e a tutte quelle zone (versante sud dell'Himalaya: Bhutan, Sikkim, Nepal, Spiti) non sono affatto seguaci dei Geluk del Dalai Lama (che li hanno cacciati da lassù con le armi) ma dell'originaria setta Nyingma (fondata addirittura da Padmasambhava ovvero Guru Rinpoche nell'VIII secolo), oppure della seconda più antica, i Kagyupa nelle loro infinite frammentazioni. Sono aree dove capita molto raramente di vedere un'immagine del Dalai Lama.

Maraini è semplicemente incantato da quelle immense montagne, come del resto capita a chiunque abbia la fortuna di vederle, e — lasciato temporaneamente libero da Tucci — riesce a organizzare una piccola spedizione per andarle a vedere da vicino. Si porta addirittura dietro un paio di sci, suscitando un vero e proprio timore reverenziale nei locali, che di sci non sanno niente (neanche oggi) e pensano stia volando su quelle nevi, di cui hanno una sacrosanta e ancestrale paura, come uno degli infiniti spiriti del cielo, delle montagne, dei fiumi e della terra in cui credono ciecamente. O, in seconda istanza, come un "lung-pa", gli "uomini-vento", asceti capaci di perdere per virtù psichica il peso del corpo e di correre appunto come stessero volando.

Oggi il Sikkim non è più un paese indipendente: il controllo di quella strada per Lhasa è probabilmente di troppo grossa importanza strategica, per cui alla metà degli Anni Settanta del Ventesimo Secolo l'India se l'è annesso tra l'assoluta indifferenza di tutte le entità internazionali così pronte a gridare allo scandalo per le vicende del vicino Tibet. Secondo quanto si dice laggiù, pare lo abbia fatto soprattutto onde poter vantare almeno un 8000 metri all'interno dei suoi confini, quel Kangchenjunga (8586 metri, terza montagna più alta al mondo) il cui fascino domina tutta la spedizione di Maraini. Leggendo Dren-Giong sembra di essere lì con lui, ai piedi di quella vera e propria Montagna Magica e delle sue imponenti vicine che si estendono all'infinito in tutte le direzioni tranne che a sud. Da quella parte, infatti, domina l'intricatissima foresta tropicale capace di inerpicarsi fino ad altitudini impensabili alle nostre longitudini.

Lettura notevole, Dren-Giong, anche nel vasto apparato di testimonianze che offrono ricordi di viaggiatori, fotografi, geografi, etnologi e altro, ma soprattutto amici affezionati, dal commosso Franco Marcoaldi all'accademico e puntuale Erberto Lo Bue, grande studioso di quel Kumbum di Gyantse così amato da Maraini.

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