Scrive di: Ella Maillart

Un ricordo (2022)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Il Covid ha reso impossibile viaggiare com’ero abituato a fare. Pazienza. Non potrò probabilmente mai più farlo, quindi mi consolo guardando le mie foto e rileggendo vecchi libri di viaggiatori veramente avventurosi. Per esempio Oasi proibite. Una donna in viaggio da Pechino al Kashmir, di Ella Maillart. Quindi confronto il suo itinerario con il mio nei medesimi luoghi, con la differenza che io mi sono mosso in solitudine per diversi viaggi, raccontati in due libri, nel corso di tre anni (2004 - 2006), trascorrendo in quelle zone un complesso di una trentina di giorni in treno e auto (+ qualche sporadica carrettella), lei in un solo viaggio con tutti i mezzi possibili, dal treno al cammello, durato più di 6 mesi (ma in compagnia di Peter Fleming) nel 1935. Settant’anni prima di me.

Sono arrivato due volte alla sponda meridionale del Lago Qinghai (Kokonor), ma la prima volta sono tornato sui miei passi occidentali, a Xining, Lanzhou eccetera, e la seconda ho deviato a sinistra verso il sud ovvero, il Ba Yan Ka La (passo stradale a 4824 metri che divide l’Amdo dal Kham) e lo splendore di Yushu - Jekundo con i non immediati dintorni verso il Tibet e (illusoriamente) verso le sorgenti del Mekong. Non ho quindi percorso se non parzialmente — in treno e di notte, un anno più tardi, per andare in Tibet, raccontandolo in un piccolo video postato su Youtube — la tremenda steppa montuosa dello Tsaidam a ovest del lago. La parte più ardua del viaggio di Ella Maillart.

E poi tra Cina e Pakistan io ho valicato il Khunjerab Pass, essendo adesso chiuso al traffico internazionale quello attraversato da lei, il (pare più agevole o perlomeno breve, ma forse troppo vicino all’Afghanistan) Mintaka, tutti e due alti 4700 metri. Infine da Baltit (Karimabad, adesso Pakistan, nel 1934 India), attraverso Gilgit, la formidabile donna ha svoltato a est verso il Kashmir, mentre io sono teoricamente sceso a sud ovest verso Islamabad. Scrivo “teoricamente” perché in realtà quel pezzo di strada l’ho fatto al contrario, da sud ovest a nord est, da Islamabad a Chilas e Gilgit e poi Karimabad.

Salito da Karimabad a Sost e arrivato alla dogana (non il valico di confine in sé, che è su, solitario e desolato, a cavallo del Khunjerab), mi sono trovato davanti uno spettacolo parecchio fuori dal comune: fermo in attesa di transitare un convoglio di cinque grossi fuoristrada. Erano parcheggiati in un tale ordine da non lasciare dubbi circa la loro nazionalità, per altro immediatamente confermata dalle bandierine che garrivano dalle auto. Erano svizzeri, venivano da Ginevra e intendevano salire fino a Lhasa, via Kashgar. Dopo di che sarebbero scesi a Pechino, da dove le auto sarebbero state convogliate al mare per riguadagnare l’Europa su nave, mentre i viaggiatori sarebbero tornati a casa in aereo. Bravissimi, ne sono rimasto molto ammirato, soprattutto visto che non erano nel fiore dell’età e anzi un paio di loro si reggevano su stampelle. Svizzeri, come lei. Partiti da Ginevra, come lei. Ispirati dai suoi viaggi? Non ho potuto non pensarlo. In fondo e in parte ero lì anch’io per quello.

Donna straordinaria, Ella Maillart, campionessa di hockey e sci, poderosa velista, olimpionica nel 1924 (La Vagabonde des mers). E impavida viaggiatrice. Da Mosca al Caucaso (Parmi la jeunesse russe). In giro da sola per il Turkestan, dai Monti del Cielo versante Kyrgyztsan al Deserto rosso dell’Uzbekistan (Vagabonda nel Turkestan). Da Ginevra a Kabul al volante di una Ford in compagnia di Annemarie Schwarzenbach (La via crudele). E da Pechino al Kashmir, nel 1935 (Oasi proibite), con il flemmatico Peter Fleming, giornalista e scrittore, fratello maggiore del più noto Ian (my name is James Bond).

A prescindere dalla dolcissima dama di ferro Freya Stark, conosciuta ad Asolo quando era ormai anzianissima e non del tutto in sé (la stavo traducendo), ho incontrato diverse donne viaggiatrici in solitario (o quasi), da una tremenda inglese, gigantesca e baffuta, nel profondo Sahara (1971, cattivissima) a una gentile cinese nel Bhutan (2013, apparentemente fragile, ma la determinazione fatta donna). E sono arrivato alla conclusione che, se la loro “solitudine” non è motivata da vaghezze comportamentali — quante, in Nepal, e quante brutte esperienze, dalla rapina in là… ma capitano anche agli uomini “distratti” —, riescono a viaggiare molto meglio. Gli uomini saranno anche perfidi, ma se colgono la serietà dei propositi sono pronti ad aiutare la straniera in difficoltà. Anche perché a fare così li inducono le loro donne dagli harem o palazzi, o anche soltanto tende nomadi.

E nei suoi viaggi Ella Maillart trova molto aiuto, sia quando è sola nel Turkestan sia quando è in coppia in Cina nel 1935. Nella complicata e frantumata Cina del generalissimo Chiang Kai-shek ma anche del signore musulmano della guerra Ma Bufang (con tutta la guerresca famiglia) e degli ambigui signorotti della ribelle Prima Repubblica del Turkestan orientale, nata a Kashgar (Sinkiang) nel 1933 e durata lo spazio di un mattino. Sedicenti uiguri ed epigoni dell’altro signorotto della guerra, Muhammad Yaqub Beg, niente affatto uiguro ma uzbeko di Khoqand, impadronitosi di Kashgar dal 1865 al 1877. Quanti problemi hanno sempre creato quelle terre “uigure” al governo di Pechino. E pensare, fa notare la stessa Maillart, che gli uiguri non sono affatto originari del Sinkiang.

Fleming è apparentemente flemmatico ma in realtà profondamente inglese e quindi pencolante verso una certa altezzosità, mentre lei è paziente e gentile, sempre calma, scherzosa, allegra. Le donne la ricevono volentieri “in casa” (come accadeva all’indistruttibile Freya, come le assomiglia!) Per vedere com’è fatta questa strana tipa venuta da così lontano, come si comporta, come si veste, come fuma la pipa (la fumano anche loro), come cucina e cuce, che cosa significano i suoi gesti (capirsi a parole è in genere impossibile), come sono fatti i suoi gioielli (e lei, astuta, ne ha sempre con sé qualcuno dozzinale da regalare). Insomma, è essenzialmente lei a portare la spedizione da Pechino ai confini occidentali della Cina e al Kashmir.

A Kashgar, invece di svoltare a sinistra verso Tashkurgan, il Passo Mintaka e l’odierno Pakistan, avrebbe potuto virare a destra e salire verso il Passo Torugart (soltanto 3700 metri), da dove scendere in Kyrgyzstan verso il fiume Naryn, primo tratto del Syr Darya (lo Iassarte di Ciro e anche Alessandro), riagganciandosi al viaggio veramente intrepido (1932!) da lei compiuto in solitaria nel Turkestan sovietico (Kyrgyzstan, Uzbekistan e Kazakhstan) partendo da Mosca. Per continuare nel mio riscoperto parallelismo con Ella Maillart, sono passato anch’io da quelle altitudini kirghise durante il mio primo viaggio in Cina, ma in ben diverse condizioni. Tanto camion e camionette sgangherati, è vero, ma niente cavallo o simili. E l’inarrestabile signorina è persino riuscita a fare una discesa con un paio di sci di fortuna su un ghiacciaio sui 4-5000 metri (in anticipo di cinque anni rispetto alle gesta compiute da Fosco Maraini sui pendii più bassi e sud orientali del Kangchenjunga, 8586 metri, allora nell’indipendente regno del Sikkim). Come me verrà anche lei derubata del portafogli, e anche lei in un bazar, ma quasi alla fine del viaggio (forse però semplicemente lo perde); io invece subito, il mattino del primo giorno, nella kirghisa Bishkek. Non mi ero praticamente ancora svegliato, essendo atterrato lì nel cuore della notte.

Ed è ancora il Syr Darya, lo Iassarte, al concludersi del suo corso in Kazakhstan, poco prima di sfociare nell’esausto Aral, a segnare praticamente la fine di questo sbalorditivo viaggio della Maillart, dopo una temeraria traversata invernale a dorso di cammello del Kizil Kum, il Deserto rosso dell’Uzbekistan (derubata anche delle scarpe e della fedele pipa ma benevolmente aiutata dagli uomini). Intanto ha esplorato Tashkent, Samarcanda e le gloriose oasi di Bukhara e Khiva, (altro viaggio da me percorso a ritroso rispetto a lei, oltre che settant’anni più tardi). Ai miei tempi l’Uzbekistan (come Kyrgyzstan e Kazakhstan) si stava ricostituendo in quanto repubblica indipendente staccatasi dall’URSS. Lei invece vi arriva ai primordi delle esperienze rivoluzionarie sovietiche e riesce anche a incontrarne qualche personaggio chiave, nomi che difficilmente compaiono nei nostri libri di Storia, intervistando tutti, spiegando tutto a tutti, ficcando il naso dappertutto e inoltrandosi persino in bicicletta (una delle tre esistenti in città) nel deserto di Khiva per incontrare una comunità di mennoniti tedeschi, finiti lì di fuga in fuga. (Sempre inconsapevolmente parallelo io li ho visti — i pochissimi rimasti — in quella che adesso si chiama Rot-Front, una cittadina da loro fondata in Kyrgyzstan alla fine dell’Ottocento con il nome di Bergstal.)

E poi navigando per giorni sull’altro grande fiume della storia centro asiatica, l’Amu-Darya, già Oxus. Quando l’ho attraversato e costeggiato io, tra Khiva e Bukhara, ormai quasi definitivamente prosciugato dal continuo drenaggio a fini di irrigazione per i campi di cotone, non avrei mai pensato che lo si potesse navigare. Lei invece, da provetta velista e navigatrice, a un certo punto si impadronisce persino del timone della chiatta, come ci racconta in Vagabonda nel Turkestan (Des Monts Célestes aux Sables rouges). Applausi!
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