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Lo scrittore Mario Biondi visto da Mannelli
Lo scrittore Mario Biondi
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Lo scrittore Mario Biondi

RACCONTA

Sylvester Stallone
Sylvester Stallone

Intervista (1990)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Stivaletti texani di camoscio, jeans scoloriti, camicione bruno a motivi neri. Spalle larghe, manone da lavoratore, occhiali scuri. Un ragazzotto di una delle torve periferie urbane di Raymond Carver, messosi a lustro e venuto in centro a fare il suo colpo di vita. Cicca appesa a un angolo della bocca. Procede con andatura dinoccolata. Abbozza un passo di danza, canticchia con profonda voce baritonale un vecchio, popolarissimo motivo di Louis Prima: Dovunque me ne vò, io faccio il gigolò.... Fuori dal portone che ha appena superato, però, c’è uno stuolo di ragazzini in estatica attesa di vederlo uscire di nuovo, a qualsiasi ora, comunque ciò succeda. Sparisce al di là di una porta.

E non siamo in Times Square, tra il milione di lampadine colorate del ventre di Manhattan, ma nel severo centro di Milano, nel certamente imprevedibile — dall’esterno — giardino che allieta e rinfresca la vita e l’attività di Gianni Versace e del suo entourage di parenti, amici, ospiti, collaboratori. Un trionfo di clorofilla e silenzio. Piante secolari, prato impeccabile, uccellini che cantano. Strutture in polistirolo che fanno pensare a una mostra di progetti di Terragni e Sant’Elia e che invece sono i fondali preparati per un servizio fotografico. Si aspetta il divo. Sylvester Stallone. Detto Sly.

Eccolo ricomparire. Tutto è cambiato. Il ragazzotto del suburbio ha attraversato il santuario dell’abbigliamento e ne è uscito miracolosamente trasformato. È diventato un’altra persona. Sprizza professionalità. Occhio clinico. Capelli in calcolatissimo disordine. Pelle di quell’esattissima via di mezzo tra lucore e opacità che soltanto i bravi truccatori sanno creare. Abbronzato sì e abbronzato no. Barba perfettamente rasata in modo da lasciare un sapiente alone blu. Raggiunge il primo fondale. I riflettori si accendono. Il fotografo si fa ombra agli occhi con la visiera, il motore scatta, il primo fotogramma viene caricato nella grossa Mamiya. Una rapida, appena percettibile passata di lingua sulle labbra. Altolà. Il mestiere dice al divo che qualcosa non funziona. Tutto rimane sospeso come un’eterea farfalla nell’aria rarefatta. Luce dei riflettori, rumore del motorino, ordini del fotografo agli assistenti. Tutto bloccato, trepidante. La truccatrice accorre trafelata. Un’ombra di Blistex. Il labbro ora riluce come una perla. Così va bene. Via! L’otturatore fa il suo primo "kdak". «Beautiful! Beautiful!» esplode il fotografo, saltellando su e giù per una scaletta. «Così. Sì. Vai!» E intatto scatta. Qualche polaroid di prova. Un rullino a colori. Uno in bianco e nero. Pausa. Il modello però non è sembrato reagire con particolare entusiasmo.

«Mi annoio», dichiara a gran voce. «È sempre così. Mi sembra di essere uno scemo. Il cinema è un’altra cosa. Mi muovo. Agisco. Devo trasmettere emozione e dunque mi emoziono anch’io.»

«È per quello», conviene sollecito il fotografo, «che difficilmente un buon fotografo diventa un bravo regista.»

«Già, un po’ come la differenza che c’è tra poeta e romanziere. Intensità dell’attimo contro struttura della durata.»

Quest’ultima a beneficio dell’intervistatore, che è lì con il registratore a tracolla e la penna in mano. Intensità dell’attimo? Struttura della durata? Ma come, caro Sly, lei non era un fessacchiotto tutto muscoli e niente cervello, capace soltanto di fare soldi e propaganda per Reagan?

«Be’, avrò anche fatto fatica perché da ragazzo ero un tipo piuttosto particolare, ma il college l’ho pur sempre finito. E poi ho fatto due anni di università. Arti liberali, che è un po’ come dire niente, alla Florida University. Ho piantato lì perché un professore mi ha messo davanti la foto di un barbone e mi ha detto che se non studiavo di più il mio destino era quello. Che villano! Era puro e semplice terrorismo. Gliel’ho detto e me ne sono andato sbattendo la porta. Non è che non lo abbia rischiato, ma alla fine un barbone non sono diventato. Adesso gioco a polo con persone come una figlia del re di Spagna. Dio, è una fatica mica male, visto che l’etichetta vieta di guardarla direttamente negli occhi. Viene il torcicollo. Ma è una bella soddisfazione lo stesso. Il ragazzo di Hell’s Kitchen, di strada ne ha fatta. Non doveva poi essere così fesso.»

Hell’s Kitchen. La Cucina dell’Inferno. A quattro passi da Times Square e dalle mille luci di New York, però giù sui dock dello Hudson. Un altro universo. «Un mondo di duri, di balordi. Non veri e propri criminali. Ladruncoli. Piccoli truffatori. Gente impegnata giorno per giorno a escogitare l’espediente per tirare avanti ancora ventiquattr’ore. Adesso l’hanno trasformata in una zona per giovani rampanti, ma a quei tempi di sera bisognava camminare al centro della strada, perché se stavi sul marciapiede ti tiravano dentro una porta ed eri fatto.»

Una vita dura, insomma, per un bambino. Brutto, per di più, si dice. Un anatroccolo ferito e attaccabrighe, che gli altri tenevano alla larga.

«Be’, insomma, proprio brutto non direi. Avevo questa paresi alla bocca, provocata dal forcipe, che non faceva certamente di me uno splendore e mi rendeva difficile esprimermi. Della crudeltà dei ragazzini nei confronti dei loro simili appena un po’ diversi si è parlato fin troppo. E io reagivo di conseguenza. A un certo punto ho preso addirittura a modello Superman. Andavo in giro combinato in calzamaglia e maglietta nera. Ero molto piccolo, naturalmente. Comunque il mio mondo era quello. Da ragazzino non si sa quello che c’è tutto attorno. Ci sono cresciuto come un pesce nell’acqua. E continua a essere il mondo dei miei personaggi. Rocky viene da lì. E, piaccia o non piaccia, Rocky l’ho inventato io. Da capo a piedi. Quando sognavo di diventare scrittore. È il primo soggetto che sono riuscito a fare accettare. Però non volevano me come protagonista. Assolutamente. Me lo pagavano a peso d’oro, ma niente Sylvester Stallone. Chi ti conosce? Un ex bullo di periferia. Beccati il grano, molla il tuo soggetto e vattene. Ma io non ho mollato niente. Alla fine l’ho spuntata.»

Adesso però con Rocky è finita. E anche con Rambo. Li buttiamo via. Adesso giochiamo a polo. Collezioniamo quadri. Dipingiamo. Ci mettiamo gli occhialetti tondi per fare l’intellettuale.

«Ma quale intellettuale? Sono astigmatico. E Rocky e Rambo non sono io. Soprattutto Rambo. Quante volte lo devo ripetere? Che noia. Ho quasi perso la voce. Caso mai sono più me stesso in Tango & Cash. Rocky e Rambo sono due personaggi che ho interpretato e che, avendo avuto successo, ho dovuto riportare sullo schermo diverse volte. Con un successo sempre maggiore. Dovevo buttarli via? Fesso sì, ma non fino a quel punto.»

Però adesso con loro sta per chiudere.

«Sì, basta. Un artista, un artigiano, un attore, mi definisca come vuole lei, deve dimostrare di avere diverse corde al proprio arco. Adesso ho finito Rocky 5. Ci ho fatto recitare anche mio figlio Sage. Quattordici anni. Un ragazzino magnifico. Rocky volevo farlo morire, dannazione. Ma i produttori me l’hanno proibito.»

E Rambo? A proposito, si è accorto che cominciano tutti e due con la "R", come Ronald Reagan?

Stallone scoppia a ridere. «Anche come Rock and Roll, se è per quello. Non ci avevo mai pensato. Ma è una pura coincidenza. Quanto a Rambo, per motivi contrattuali mi toccherebbe farne un quarto. Ma io non gli voglio bene. È un cadavere politico. Una macchina da guerra. Lo rifaccio soltanto se me lo lasciano trasformare in un eroe dell’ecologia, della salvezza di questo pianeta dalla follia degli inquinatori. Se me lo lasciano usare come strumento per spiegare sul serio il disastro a cui stiamo andando incontro. Sa quanta gente lo vedrebbe? E quanto servirebbe? Altrimenti niente. Basta. Tra l’altro, però, vorrei precisare che Rambo è neutrale. Non ama l’America. Se ne sta per i fatti suoi, in Thailandia.»

Lei legge moltissimo, si sente dire...

«Altroché. I classici inglesi e americani. I grandi narratori del passato. Il vostro Dante. Sono persino fissato con l’idea di far un film su Edgar Allan Poe.»

Magnifico. Ma le è mai capitato per caso di leggere Hollywood di Gore Vidal.

«No, ma che cosa c’entra?»

Certo, Poe è di un livello diverso. Ma la domanda tende ad altro. Secondo Vidal, la realtà americana non sarebbe veramente reale, ma un sogno. Una falsificazione totale, creata nelle menti dall’industria di Hollywood. Industria della mistificazione. Tanto potente da riuscire, cito testualmente l’autore da un’intervista, «a imporre l’elezione di un vecchio attore che impersonasse per otto anni il ruolo di Presidente... Un vecchio attore capace di leggere le battute senza compiere errori e di fare ciò che gli veniva detto...»

«Ha assolutamente ragione. L’America è un mito. Un puro mito. La Russia sembra in svendita, e sarà forse il caso che la comperino i tedeschi, ma anche noi non so di chi saremo fra dieci anni. Ci sarà un pezzo di America che è stato comperato dai coreani, un altro pezzo dai giapponesi, un altro ancora dai tedeschi. E anche dagli italiani. Un brutto affare. L’America è come una grotta. Chi è fuori sente un ruggito terribile, e trema. Ma se per caso un giorno si azzardasse a entrare, il Giappone per esempio, si troverebbe davanti un animaletto piccolissimo e più spaventato di lui. È tutta eco. Uuuh. Uuuh!»

Quindi Sylvester Stallone non si candiderà mai alla presidenza degli Usa.

«Mai. Assolutamente. A me piace agire. Fare come voglio io. Cercare sul serio di cambiare le cose. Lì invece i cuochi sono troppi. E per forza il cibo viene insipido. Per non dire peggio. La politica, da noi, è come un concorso di bellezza. Il migliore perde. Sempre. Via, andiamo a lavorare.»

Nuovo giro, nuova corsa. Cambio di abito, ritoccatine al trucco, altri fondali, altri riflettori, altri "kdak" di otturatore, altre polaroid. Un attimo di pausa. Sull’impeccabile clorofilla del prato stanno abbattute, desolatamente abbandonate, le strutture in polistirolo dei fondali usati prima. Stallone li guarda e scoppia a ridere. «Eccola lì Hollywood», commenta. E via a lavorare. Adesso si è scaldato. L’ingrugnita scontrosità del ragazzo di Hell’s Kitchen arrivato in centro è sparita. Fa numeri incredibili. Si gira gli occhiali sottosopra. Canta. Balla. Bacia l’aria. Le tira pugni. Compie spericolatissime — e certamente inimitabili dai presenti — gesta ginniche. Ride. Esplode una battuta dietro l’altra. Signori, è formidabile. Che macchina da spettacolo. E, soprattutto, che spontaneità. Le grida di entusiasmo del fotografo, sempre in volo come Tarzan da una scaletta all’altra, arrivano probabilmente fino al settimo cielo.

Poi Stallone è sudatissimo. Scende in un camerino a cambiarsi. L’intervistatore lo segue con penna e taccuino. Lo vede a torso nudo. In mutande. Dal vivo. È consapevole che c’è gente che darebbe tutta se stessa per essere al suo posto. Ma lui è mosso soltanto da gelide motivazioni professionali, come un entomologo davanti a uno scarabeo di eccezionale interesse. Non avevamo detto, caro Sly, che con la palestra e il body building l’avevamo fatta finita? Come la mettiamo con tutti questi muscoli, con le passeggiate testé fatte in smoking ma camminando sulle mani, con i chilometrici balzi alla Nurejev e altre consimili gesta ginniche che ci ha appena esibito, alla tenera età di quarantaquattro anni?

«Non è che ho smesso del tutto. Il movimento fa bene. Ma praticato in misura eccessiva fa male. A me stava facendo malissimo. È stato scoperto che l’eccesso di ossigenazione provoca un putiferio nelle cellule, con rischio di cancro.» E via che si diffonde in un profluvio di terminologia medica, di fronte a cui l’intervistatore, pavido, smette di scrivere per incrociare le dita dietro la schiena. Rivestito, Stallone esce dal camerino e si aggira brevemente per la piccola, attrezzatissima palestra privata. Indica con grande competenza le macchine a una a una. «Questa va bene. Questa no. Questa benissimo. Questa così così. Usarla poco.» E via che se ne va per altre foto, vestito come un principe della czarda che abbia deciso di fare visita ad Al Capone. «La copertina! La copertina!» esulta il fotografo, torreggiante come Nerone sulle rovine dei suoi fondali. "Kdak! Kdak! Kdak!"

Dopo di che Stallone è nuovamente a disposizione dell’intervistatore. Non si ferma un momento. Parliamo di cose serie. È vero che si considera l’uomo più incompreso e odiato di Hollywood?

«Odiato no, ma incompreso certamente. O, se non proprio incompreso, per lo meno frainteso. Quando uno inventa un personaggio e poi viene identificato con quello, e da una simile identificazione deriva una distorsione tendente a farlo passare per un imbecille, se non peggio, mentre lui ha fatto del suo meglio per farlo apparire credibile, quel personaggio, realistico, per tratteggiarlo con tutti i suoi giusti attributi psicologici eccetera, be’, non si può essere contenti.»

Ma lei tira diritto senza pensarci o la cosa le fa male?

«Bene no di certo. Ho dei figli, che guardano la televisione, dove si imita la mia voce per fare Silvestro il gatto maldestro. Come se fossi un idiota. E altre carinerie del genere. Anche se però devo riconoscere che spesso i miei nemici sono poi risultati coloro che più mi hanno voluto bene. Perché sono quelli che mi hanno costretto a cercare di fare sempre meglio, a dedicare sempre più tempo al lavoro. Magari a scapito della vita privata, ma così è. Lo sa che cosa diciamo a Hollywood? "Un buon amico è quello che ti pugnala al petto, non alle spalle".»

La vita privata. A quanto pare ne ha sofferto. «Altro che. Vede, il mio primo matrimonio l’ho mandato a monte io, con la smania di lavorare, di fare. Sempre in giro. È stata colpa mia. Devo riconoscerlo. Oltre a tutto abbiamo avuto questo terribile dramma del bambino malato di autismo. Inguaribile. Le stiamo provando tutte, ma non c’è niente da fare. È un dolore che mi porto dietro sempre. Per fortuna c’è il maggiore, Sage. Quando lo guardo, so di avere un futuro. So che qualcosa di me rimarrà qui. Ma tremo davanti all’idea di doverlo educare. Preparare per questo mondo. Lo sa qual è la prima paroletta che imparano i bambini a Hollywood? Mamma, secondo lei? Macché. Limo, mio caro. Limousine. Sa, quelle belle macchinone lunghe lunghe dentro cui viaggiamo noi attori di grido. Sognano tutti di averne una, se non un garage intero. Mamma? Ma no, tesorino, non si dice così. Si dice Money. Io cerco di essere un padre rigido, sa. All’antica. Ma il ragazzo è troppo bello, fatto che nel nostro mondo, lontano dagli occhi di mamma e papà, non è mai un vantaggio, per quanto si possa credere il contrario. Meglio fare fatica. Mentre lui in apparenza sembra destinato a non farne. È bello — e purtroppo lo sa — , si chiama Stallone, è ricco. Ma io gli insegno continuamente che la vita è un’altra cosa. Che il successo bisogna conquistarselo da sé, sudando.»

E le donne? Madre, mogli, fidanzate, amanti.

«Mia madre è una donna notevolissima. Ma del tutto singolare. L’augurerei a chiunque come amica, ma mai come madre. Della prima moglie le ho detto. Quanto alle altre donne, ci sono stati tanti sbagli. Soprattutto la volta che ha fatto più clamore. Un errore colossale. Preferirei non parlarne più.»

Il ricordo lo turba davvero. Perché affondare il coltello? Non fare agli altri ciò che non vorresti... Scartiamo di lato. Pare che lei abbia dichiarato di essere un campione nello star male per questioni di cuore. Che cos’è l’amore?

«Un meraviglioso disastro. Manda all’aria tutto. Non ho altro da dire. Personalmente, quanto a cuori infranti credo di essere un fenomeno. Soprattutto il mio.»

E che cos’è il sesso?

«Ah, il sesso. È la più profonda, la più semplice, la più pulita esaltazione dell’amore, tanto per cominciare. Ma poi, con il passare degli anni, a mano a mano che si invecchia, diventa guerra. Competizione. Ma è la cosa più straordinaria di cui l’uomo disponga. Nel momento culminante si perde ogni coscienza della vita. Si è lì, in due, e nient’altro. Non c’è passato, presente, futuro. Niente.»

Ricorda la prima volta che l’ha fatto?

«Altroché. Avevo quindici anni ed ero follemente innamorato. Lei era bellissima. E io mi davo moltissime arie. Mi atteggiavo a grande amatore. Ma poi, quando lei mi ha detto "Va bene, dai, proviamo", mi sono spaventato a morte. Mi sono tirato indietro. Soltanto alla terza volta ho trovato il coraggio. No, non è facile fare l’amore la prima volta. Non è come al cinema. Quando la ragazza dice "Su, forza, fammi vedere, grand’uomo", si prende uno spavento tremendo, come credo riconoscerà qualsiasi maschio serio. Poi, una volta finito, ho pensato: "Adesso sono come mio padre. Un uomo vero". Ed è stato bellissimo. Non avendo un vero rapporto affettivo con mia madre, a quei tempi avevo un bisogno fortissimo di una donna che mi dicesse "Ti voglio bene".»

E l’amicizia? Il rapporto con gli altri uomini?

«È indispensabile. Fra loro gli uomini stanno bene. Si sentono più giovani. Ma la donna è un’altra cosa.»
Come mi ha detto, nel suo futuro potrebbe esserci un film su Poe. E, sento dire, uno su Puccini. Come mai?

«Poe perché è stato un grandissimo genio che l’America ha maltrattato e lasciato morire malamente, coprendo invece di onori e prebende tanti artisti di assoluta mediocrità. Puccini perché era un rinnegato. Uno che ha detto "adesso basta fare l’opera soltanto per re e principi, facciamola per la gente comune". Perché era un uomo che nella sua arte metteva il cervello ma anche lo stomaco. E il basso ventre. Un vero uomo. Due personaggi da cui vorrei trarre altrettanti grandi film drammatici. Pur di farli sono disposto a lavorare gratis. E li farò.»

E poi, che cosa c’è ancora in questo futuro?

«Un film di fantaecologia, di fantascienza a sfondo ecologico, intitolato Isobar. Sarà ambientato in una terra dove non c’è più natura. Dove degli alberi rimangono soltanto gigantografie. Dove la gente è costretta a comperare contenitori di aria da respirare come oggi è costretta a comperare bottiglie di acqua da bere. Attualmente non c’è nulla che mi preoccupi e appassioni di più dell’ecologia. Desidero dare il mio contributo. Devo. E poi vorrei fare una love story in forma di commedia brillante. Non stupida. Sofisticata. L’ho già detto: in film così mi sento più me stesso.»

La pausa è finita. Si riattacca a lavorare con riflettori e obiettivi. Sly riprende le sue attività frenetiche. Il franco scambio di opinioni sembra averlo ulteriormente caricato. E d’improvviso ecco il colpo di genio del grande uomo di spettacolo, dell’individuo che sa di essere letteralmente intessuto di popolarità. La sera prima, all’uscita da un teatro milanese, i fan lo hanno quasi travolto, bloccando la sua "limo", tempestandola di pugni e facendo morire di spavento i suoi accompagnatori e, chissà, forse anche lui. («Era una cosa che faceva un po’ paura», ha ammesso.) Ma è dalla "gente" comune che lui proviene, è la "gente" che lo fa essere ciò che è, ed è con la "gente" che vuole stare. È l’ora di pranzo. I muratori che lavorano a restaurare palazzo Versace hanno finito la mensa e sono tutti in piedi, sullo sfondo, disciplinatissimi, educatissimi, a guardare. Da loro non arriva il minimo rumore che possa neanche vagamente turbare il lavoro dei "personaggi" che si affannano sul prato.

Ma attraverso una fessura tra i fondali Sly li vede. Blocca tutto. Esce allo scoperto. Li chiama a gran voce e con grandi gesti. «Venite», grida. «Tutti qui, con me. È il mio pubblico», aggiunge poi, a beneficio di chi lo circonda. «La mia gente. Fotografatemi con loro.» E il lavoro diventa uno happening di dimensioni colossali. L’emozione dilaga. Autentica. Incontenibile. I muratori non credono che ciò che sta loro accadendo sia vero. Uno allunga timidamente la mano a toccare il grande eroe. «Ohé, Rambo, ciao», dice un altro. Non Sylvester. Non Sly. Lui gli stringe la mano. Lo abbraccia.

Succede un cataclisma. Il fotografo sembra avere le ali. Insieme ai lavoratori si sono intrufolati dentro anche alcuni dei ragazzini in attesa fuori dal portone. Si fanno firmare la camicia, la maglietta, la pelle. Tra di loro, un poco in disparte, separato, uno smilzo ragazzetto di colore. È vestito come ogni altro ragazzo milanese di modesta famiglia, ma evidentemente i suoi genitori sono venuti dal Terzo Mondo. E con altrettanta evidenza lui ha già capito che Questo Mondo lo considera diverso. È timido. Ha gli occhi sgranati. Non dice nulla. Non parla con nessuno. Se ne sta lì ai margini. Educatissimo. Non spinge. Rimane quasi certamente escluso dalla pantagruelica foto di gruppo.

Alcune ore più tardi è ancora lì, fuori dal portone, a qualche metro di distanza dai compagni. Quando vedono l’intervistatore uscire, gli altri ragazzini accorrono. L’hanno visto parlare con il grande divo, prendere appunti, raccogliere i suoi detti memorabili. Vogliono sapere quando verranno pubblicate le foto, se possono sperare di vedersi, un giorno, strizzati come sardine felici attorno all’eroe che sullo schermo ha sudato, sofferto, pianto, salvato tutto il mondo e, insieme, le loro illusioni. Chi lo sa. Che cos’altro rispondere? Quali saranno state le bizze di otturatori e obiettivi? Quali saranno le future esigenze di "art directing" e "show business"?

Il ragazzetto di colore è rimasto immobile al suo posto, diverso, separato. Struscia nervosamente i piedi per terra. Fa venire in mente il ragazzo brutto di Hell’s Kitchen che i coetanei tenevano alla larga perché aveva la bocca storta. Solamente alla fine, quando l’intervistatore se ne va con la sua cartella e il registratore, sembra riuscire a raccogliere il coraggio a quattro mani. Si avvicina. Guarda il registratore. «C’è dentro la voce di Rambo?» chiede con un filo di voce. I due grandi occhi sono ancora più sgranati. Ansiosi. «Quella vera? Me la fa sentire un momento? Un momento soltanto. Per favore. La voce di Rambo!» Non la voce di Sly. Non la voce di Sylvester, come Stallone preferirebbe tanto essere chiamato.

Sarà dura, vecchio, coriaceo, stizzoso Rambo, far mandare giù alla tua "gente" il cambiamento di look e messaggio che hai in mente. Auguri.

(Vanity Fair Italia, primavera 1990)
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