RACCONTA
Sabrina Ferilli
Intervista (1993)
Intervista (1993)
© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)
Metti una sera a cena, dalle parti di Piombino, in un camping di bungalow. Tutto sembra provvisorio. Persino il Mediterraneo, sullo sfondo, sembra finto, dipinto. Un De Chirico dei più metafisici, lo scenario di un Fellini dei più stralunati. E in effetti siamo in un luogo che di giorno diventa teatro della formicolante attività di una troupe cinematografica. Una troupe giovane, entusiasta, per nulla preoccupata del fatto che per sei settimane dovrà rimanere qui, in questo mezzo deserto, in questo camping che d’estate sarà sicuramente bello ma che è appena finito di costruire ed è stato aperto apposta per loro. Niente centro abitato, niente negozi, niente cinema, niente di niente, in stanzucce velate di umidità e prese d’assalto da zanzaroni . Che si fa, la sera? Non ci si annoia?
«È la vita di chi fa cinema» risponde la bella ragazza romana, faccia da madonna del rinascimento, perfetto incarnato avorio sotto capelli nerissimi, occhi bruni carichi di passione, casualissimo golfone beige a nascondere un seno prepotente, pantaloni attillati che modellano un corpo minuto ma perfetto. La star di questo film, un’attrice ancora giovane che dopo una seria gavetta professionale si sta imponendo all’attenzione di critici e pubblico, Sabrina Ferilli. Bellissima ragazza. Simpatica. Intelligente. Seria. La giovane che si vorrebbe sempre come vicina della porta accanto, per farsene un’amica, piano piano, per giudiziosi passi successivi, e poi la migliore amica e poi magari qualcosa di più, perché no?
«Quando uno ha lavorato dieci ore», spiega, «magari chiuso in uno stanzone soffocante con una ventina di persone, sotto i riflettori, con il ronzare delle macchine da presa, che cosa vuoi che abbia voglia di fare? Cena e va’ a letto. Ripassa la parte da girare il giorno dopo e si addormenta. Verso le sette, di solito, si è di nuovo in piedi.» Intanto il responsabile della produzione si sposta per i tavoli consegnando a ciascuno il suo programma di lavoro. Quando ti vengono a prendere, quando devi essere sul set, quando devi essere pronto, in costume e truccato, quando devi fare la tua entrata. Tutto preciso al minuto. Sabrina prende il suo, lo consulta mordendosi appena il labbro inferiore. «Giornata dura, domani» commenta. «Ma così vive chi fa cinema.»
Una vita complicata, dunque, al di là delle oleografie che la dipingono come tutta champagne e Croisette, clamori e pailette. Una vita da vivere con disciplina. «Con grande disciplina, se si vuole riuscire.» Come il giovane regista all’esordio, Paolo Virzì, seduto a capotavola. Come l’altrettanto giovane protagonista maschile, l’attore Claudio Bigagli, (Mediterraneo e Fiorile). Come la segretaria di edizione, il direttore della fotografia, i tecnici. Tutti con una trasparente voglia di farcela. All’altro capo del tavolo c’è lei, Sabrina, star incontestata della situazione, adorata dalla matrona che gestisce questo ristorantone toscano attaccato a un distributore di benzina, sull’Aurelia, di fianco a una centrale dell’Enel. Champagne? Clamori? Pailette? Dove? Il cinema, mentre lo si fa, è così.
«Ma questi sono rose e fiori, se penso a quando, per Americano rosso, ho dovuto girare scene di spiaggia per due mesi d’inverno, a Jesolo. In costume da bagno, immergendomi in un’acqua gelida. Io, freddolosa come sono. Avevo due tonsille... Ogni giorno veniva a vedermi un medico, con un’iniezione di antibiotici.» E al ricordo Sabrina ha un brivido, si stringe nel suo golfone chiaro. Sorride: «Come diceva Monica Vitti, per fare l’attore bisogna avere prima di tutto la salute. Ma poi, quando ti vedi sullo schermo, dimentichi tutto, sei subito pronta a ricominciare.»
Chi è Sabrina Ferilli? Come è arrivata a essere una più che fiorente promessa del cinema italiano di qualità? Nasce nel 1964, a Roma, da genitori di onesta fede democratica, si trasferisce a Fiano Romano con tutta la famiglia, in un avito grande casone di campagna, dove diventa donna e dove tuttora torna a passare i weekend, con una famiglia cui è legatissima. «Una famiglia vincente», la definisce. Buon liceo classico, concluso con un 48, interesse per la politica, impegno sociale e civile, letture di alta qualità (dalla borsa fa capolino un McEwan, autore che è tutto un programma). Grande passione complessiva della famiglia per il cinema d’autore, spirito entusiastico da cineforum democratico. La strada è quasi automaticamente segnata, niente università ma Centro sperimentale di cinematografia. Inizio della gavetta. Nell’ambito, ovviamente, del cinema. Per scelta. Non in quello del teatro: «Richiede una tecnica troppa esteriorizzata. E una vita troppo randagia». Non in quello della tv: «Una tecnica non abbastanza coinvolgente. Anche se a questo punto, essendo ormai arrivata al vasto pubblico, dovrò probabilmente riesaminare la questione, cercare di arrivare a un giusto equilibrio tra qualità e quantità. Ma della tv a me piacciono soltanto gli spettacoli impegnati, come Il rosso e il nero. L’opinionista che urla, lo showman, mi fanno semplicemente orrore.».
La gavetta non è breve ma molto seria, compiuta con determinazione anche se procedendo «in punta di piedi». Le buone condizioni economiche della famiglia, la piccola azienda del padre le consentono una discreta libertà: può scegliere le parti con giudizio, senza dover cedere a pressioni. Impostare, dice, «un rapporto sano con il mestiere, un giusto distacco». Arrivano subito piccole parti in una decina film, cui seguono ruoli di rilievo in sei. Fino al premiatissimo Americano rosso, di Alessandro D’Alatri. Fino a comparire come protagonista in Diario di un vizio di Marco Ferreri, il film che la lancia definitivamente: «non un traguardo, ma un importante punto di partenza». Infatti, subito dopo, eccola di nuovo protagonista femminile in questa commedia che si sta girando tra i zanzaroni grossetani e che vedremo a fine anno, intitolata La vera storia del fumo di Piombino*. Lei contesa da due uomini, interpretati da Claudio Bigagli e Massimo Ghini. Una storia molto divertente, pare, scritta dallo stesso Virzì, che è soprattutto sceneggiatore («un uomo di scrivania prestato al cinema», si definisce).
E immediatamente dopo inizierà un film di alto impegno civile, la storia del giudice Livatino, agli ordini del regista Alessandro Robilant. Una carriera impegnata, dunque — «basata su molte rinunce», precisa lei —, una scelta di vita da cui traspare chiarissima l’educazione democratica ricevuta in famiglia. Ma Sabrina è anche molto bella, ha uno splendido corpo. Che tuttavia non ha mai spogliato a fini per così dire strategici. Nudo, sullo schermo, lo ha fatto vedere soltanto di schiena, ma perché a chiederle di farlo è stato Marco Ferreri. E se glielo chiedesse un altro regista di cui avesse piena fiducia? Si farebbe riprendere di fronte? «Sì, certo. Ma dovrebbe convincermi» risponde. «Spiegarmi bene i motivi di natura artistica per i quali dovrei farlo. Spogliata, recito male. Non ho un rapporto facile con il nudo. Anche nell’intimità, quando faccio l’amore» — e abbassa la voce —, «le luci devono essere rigorosamente spente.» E di nuovo apre il volto in questo suo bellissimo sorriso di romana saggia. Non ha fatto una confidenza piccante. Mi ha raccontato una peculiarità del suo carattere in rapporto con la professione. Non è dunque facile che capiti di vederla nuda sullo schermo. Anche se una delle attrici che più ammira è la bravissima Teresa Russell, che invece il nudo sullo schermo mi ha dichiarato di praticarlo senza nessun timore o imbarazzo. Purché, naturalmente, il film sia di alta qualità.
Quali altri attrici ammira? «Be’, ovviamente le grandi italiane del passato. Anna Magnani, prima di tutto. E poi Monica Vitti.» Se dovesse suonare il telefono, adesso, e fosse un regista straniero che la cerca, chi le piacerebbe che fosse? «Lynch». E un italiano? «Salvatores». Il Mediterraneo infatti è lì, a poche decine di metri da noi, in attesa di fare da sfondo alle sue nuove gesta cinematografiche. È simpatica, seria, brava, molto bella. Auguri di cuore.
* Il titolo definitivo in realtà fu La bella vita
(Sette, estate 1993)
«È la vita di chi fa cinema» risponde la bella ragazza romana, faccia da madonna del rinascimento, perfetto incarnato avorio sotto capelli nerissimi, occhi bruni carichi di passione, casualissimo golfone beige a nascondere un seno prepotente, pantaloni attillati che modellano un corpo minuto ma perfetto. La star di questo film, un’attrice ancora giovane che dopo una seria gavetta professionale si sta imponendo all’attenzione di critici e pubblico, Sabrina Ferilli. Bellissima ragazza. Simpatica. Intelligente. Seria. La giovane che si vorrebbe sempre come vicina della porta accanto, per farsene un’amica, piano piano, per giudiziosi passi successivi, e poi la migliore amica e poi magari qualcosa di più, perché no?
«Quando uno ha lavorato dieci ore», spiega, «magari chiuso in uno stanzone soffocante con una ventina di persone, sotto i riflettori, con il ronzare delle macchine da presa, che cosa vuoi che abbia voglia di fare? Cena e va’ a letto. Ripassa la parte da girare il giorno dopo e si addormenta. Verso le sette, di solito, si è di nuovo in piedi.» Intanto il responsabile della produzione si sposta per i tavoli consegnando a ciascuno il suo programma di lavoro. Quando ti vengono a prendere, quando devi essere sul set, quando devi essere pronto, in costume e truccato, quando devi fare la tua entrata. Tutto preciso al minuto. Sabrina prende il suo, lo consulta mordendosi appena il labbro inferiore. «Giornata dura, domani» commenta. «Ma così vive chi fa cinema.»
Una vita complicata, dunque, al di là delle oleografie che la dipingono come tutta champagne e Croisette, clamori e pailette. Una vita da vivere con disciplina. «Con grande disciplina, se si vuole riuscire.» Come il giovane regista all’esordio, Paolo Virzì, seduto a capotavola. Come l’altrettanto giovane protagonista maschile, l’attore Claudio Bigagli, (Mediterraneo e Fiorile). Come la segretaria di edizione, il direttore della fotografia, i tecnici. Tutti con una trasparente voglia di farcela. All’altro capo del tavolo c’è lei, Sabrina, star incontestata della situazione, adorata dalla matrona che gestisce questo ristorantone toscano attaccato a un distributore di benzina, sull’Aurelia, di fianco a una centrale dell’Enel. Champagne? Clamori? Pailette? Dove? Il cinema, mentre lo si fa, è così.
«Ma questi sono rose e fiori, se penso a quando, per Americano rosso, ho dovuto girare scene di spiaggia per due mesi d’inverno, a Jesolo. In costume da bagno, immergendomi in un’acqua gelida. Io, freddolosa come sono. Avevo due tonsille... Ogni giorno veniva a vedermi un medico, con un’iniezione di antibiotici.» E al ricordo Sabrina ha un brivido, si stringe nel suo golfone chiaro. Sorride: «Come diceva Monica Vitti, per fare l’attore bisogna avere prima di tutto la salute. Ma poi, quando ti vedi sullo schermo, dimentichi tutto, sei subito pronta a ricominciare.»
Chi è Sabrina Ferilli? Come è arrivata a essere una più che fiorente promessa del cinema italiano di qualità? Nasce nel 1964, a Roma, da genitori di onesta fede democratica, si trasferisce a Fiano Romano con tutta la famiglia, in un avito grande casone di campagna, dove diventa donna e dove tuttora torna a passare i weekend, con una famiglia cui è legatissima. «Una famiglia vincente», la definisce. Buon liceo classico, concluso con un 48, interesse per la politica, impegno sociale e civile, letture di alta qualità (dalla borsa fa capolino un McEwan, autore che è tutto un programma). Grande passione complessiva della famiglia per il cinema d’autore, spirito entusiastico da cineforum democratico. La strada è quasi automaticamente segnata, niente università ma Centro sperimentale di cinematografia. Inizio della gavetta. Nell’ambito, ovviamente, del cinema. Per scelta. Non in quello del teatro: «Richiede una tecnica troppa esteriorizzata. E una vita troppo randagia». Non in quello della tv: «Una tecnica non abbastanza coinvolgente. Anche se a questo punto, essendo ormai arrivata al vasto pubblico, dovrò probabilmente riesaminare la questione, cercare di arrivare a un giusto equilibrio tra qualità e quantità. Ma della tv a me piacciono soltanto gli spettacoli impegnati, come Il rosso e il nero. L’opinionista che urla, lo showman, mi fanno semplicemente orrore.».
La gavetta non è breve ma molto seria, compiuta con determinazione anche se procedendo «in punta di piedi». Le buone condizioni economiche della famiglia, la piccola azienda del padre le consentono una discreta libertà: può scegliere le parti con giudizio, senza dover cedere a pressioni. Impostare, dice, «un rapporto sano con il mestiere, un giusto distacco». Arrivano subito piccole parti in una decina film, cui seguono ruoli di rilievo in sei. Fino al premiatissimo Americano rosso, di Alessandro D’Alatri. Fino a comparire come protagonista in Diario di un vizio di Marco Ferreri, il film che la lancia definitivamente: «non un traguardo, ma un importante punto di partenza». Infatti, subito dopo, eccola di nuovo protagonista femminile in questa commedia che si sta girando tra i zanzaroni grossetani e che vedremo a fine anno, intitolata La vera storia del fumo di Piombino*. Lei contesa da due uomini, interpretati da Claudio Bigagli e Massimo Ghini. Una storia molto divertente, pare, scritta dallo stesso Virzì, che è soprattutto sceneggiatore («un uomo di scrivania prestato al cinema», si definisce).
E immediatamente dopo inizierà un film di alto impegno civile, la storia del giudice Livatino, agli ordini del regista Alessandro Robilant. Una carriera impegnata, dunque — «basata su molte rinunce», precisa lei —, una scelta di vita da cui traspare chiarissima l’educazione democratica ricevuta in famiglia. Ma Sabrina è anche molto bella, ha uno splendido corpo. Che tuttavia non ha mai spogliato a fini per così dire strategici. Nudo, sullo schermo, lo ha fatto vedere soltanto di schiena, ma perché a chiederle di farlo è stato Marco Ferreri. E se glielo chiedesse un altro regista di cui avesse piena fiducia? Si farebbe riprendere di fronte? «Sì, certo. Ma dovrebbe convincermi» risponde. «Spiegarmi bene i motivi di natura artistica per i quali dovrei farlo. Spogliata, recito male. Non ho un rapporto facile con il nudo. Anche nell’intimità, quando faccio l’amore» — e abbassa la voce —, «le luci devono essere rigorosamente spente.» E di nuovo apre il volto in questo suo bellissimo sorriso di romana saggia. Non ha fatto una confidenza piccante. Mi ha raccontato una peculiarità del suo carattere in rapporto con la professione. Non è dunque facile che capiti di vederla nuda sullo schermo. Anche se una delle attrici che più ammira è la bravissima Teresa Russell, che invece il nudo sullo schermo mi ha dichiarato di praticarlo senza nessun timore o imbarazzo. Purché, naturalmente, il film sia di alta qualità.
Quali altri attrici ammira? «Be’, ovviamente le grandi italiane del passato. Anna Magnani, prima di tutto. E poi Monica Vitti.» Se dovesse suonare il telefono, adesso, e fosse un regista straniero che la cerca, chi le piacerebbe che fosse? «Lynch». E un italiano? «Salvatores». Il Mediterraneo infatti è lì, a poche decine di metri da noi, in attesa di fare da sfondo alle sue nuove gesta cinematografiche. È simpatica, seria, brava, molto bella. Auguri di cuore.
* Il titolo definitivo in realtà fu La bella vita
(Sette, estate 1993)