Scrive di: Chaim Potok

Recensione: “La scelta di Reuven” (1987)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Quale sarà mai la ferita primigenia, l'origine remota, affondata nelle pieghe più intime, dolenti e oscure dell'inconscio collettivo - ben al di là dell'Olocausto hitleriano, degli innumerevoli pogrom, delle Diaspore, della duplice distruzione del Tempio - da cui scaturisce l'eterno, implacabile tormento del popolo ebraico? «Date agli ebrei una rivoluzione, ne chiederanno un'altra. Date loro un Messia, ne vorranno un altro». Quante volte si legge nelle opere narrative del Premio Nobel I.B. Singer questa frase rivelatrice? Frase che postula l'esistenza di un intero popolo come funzione unica del "pilpul", ovvero del cavilloso e interminabile dibattito che dai testi del Talmùd discende a investire i minini dettagli della realtà quotidiana, privata e interpersonale. L'ebraico è lingua che ha problemi di interpretazione delle vocali, e dunque, nello scorrere dei secoli, quanti possono essere diventati gli errori di copiatura dei Sacri Testi? Sarà lecito ai moderni esegeti proporre di correggerli, anche se i conservatori più rigorosi ritengono la Tradizione stabilita e intoccabile?

È il tema fondamentale dell'opera narrativa - poderosa, severa, per larghi tratti affascinante esempio di tale perenne "pilpul" esistenziale - del rabbino americano Chaim Potok, del quale la Garzanti aveva pubblicato una ventina di anni or sono il romanzo Danny l'eletto (poi riproposto), a cui viene fatto seguire in questi giorni La scelta di Reuven. Reuven Malter, protagonista del romanzo, compariva già in Danny l'eletto, a fianco di Danny Saunders, che a sua volta ricompare in La scelta. Una vera e propria continuazione, dunque, di una vicenda che si connota scopertamente di autobiografico. Dietro Reuven Malter è d'obbligo riconoscere l'autore nella sua giovinezza di studente di yeshivah (la scuola superiore ebraica) a Brooklyn. In Danny l'eletto lui e il suo amico erano ragazzi e come tali vivevano gli albori dell'aspro e perenne groviglio di contrasti che significa essere ebrei. In La scelta di Reuven è passato qualche anno, Reuven è all'ultimo anno dell'università rabbinica, sta per ottenere la "semichah", ovvero l'ordinazione, mentre Danny sembra avere parzialmente abbandonato la «retta via». Figlio maggiore di uno Tzaddik, ovvero di un rabbino con un seguito di "chassidim", ha rinunciato a favore del fratello minore a ereditarne la carica di capo carismatico. Non certo per un piatto di lenticchie, no, ma in quanto roso - anche lui - dallo spirito della modernità, che lo spinge ad affrontare gli studi di psicoanalisi.

Ed è da questa storia, apparentemente semplice, del procedere di una solida amicizia tra due giovani ebrei, pii ma entrambi toccati dal modernismo, che si sviluppa tutto il groviglio di contrasti di cui sopra. Contrasti tra credenti e non credenti, tra "chassid" e non "chassid", tra modernisti e tradizionalisti, tra ortodossi e ultraortodossi, tra ebrei arrivati in America prima della guerra ed ebrei arrivativi dopo l'Olocausto, tra vecchi sionisti e sionisti di nuovo stampo, tra riformatori del testo del Talmùd e rigidi difensori della tradizione, tra, tra, tra... Si potrebbe probabilmente continuare all'infinito. Ogni cosa, nella vita di un pio ebreo, si basa sull'interpretazione del Talmùd - la vita, la morte, le relazioni, i sentimenti - in un insieme totalizzante, che si chiude in se stesso come una sfera rigidamente serrata, la più incomunicabile delle monadi. In 363 solide pagine di romanzo, il fatto che attorno a tale solitaria sfera ebraica esista un intero "universo" non-ebraico, appare del tutto irrilevante. A pag. 168 si scopre che nei paraggi esiste una chiesa cattolica, di cui si sentono le campane. Tutto lì. Se, dopo il famoso Giudizio, a rappresentare la cultura dell'Uomo rimanesse soltanto il romanzo La scelta di Reuven, che cosa dovrebbero pensare i famosi extraterrestri arrivati sulla terra desolata dal Fuoco o dall'Atomo?

Dunque La scelta di Reuven, come gran parte dell'attività letteraria ebraica, costituisce una sfida terribilissima nei confronti della solitudine. Non già per vincerla, ma per rinchiudervisi sempre più a fondo. Per separarsi. E non a caso la vittima di tale stato di cose "solitario" e "separato" è il più giovane del gruppo, l'adolescente Michael Gordon, figlio di un esegeta ultramodernista del Talmùd, come tale scomunicato. Stritolato nella ridda dei contrasti, il ragazzino rischia di impazzire e al tempo stesso fa da perno della vicenda, in quanto affezionato a Reuven e affidato in cura psicoanalitica all'amico Danny. Attorno alla vicenda della sua follia, provocata dall'odio per il mondo ebraico ultratradizionalista, che ha scomunicato suo padre, ordinandone l'espulsione dalla comunità (verso il deserto, evidentemente, se un "altro" dall'essere ebrei sembra non esistere), ruotano i fatti degli altri personaggi. La battaglia del credente ma modernista Reuven per avere la "semichah". La battaglia dell'ultraortodosso ma anche lui modernista Danny per mantenersi sulla "retta via" dell'ebraismo, pur seguendo da un lato la propria inclinazione professionale e dall'altro il desiderio di sposare una giovane ultramodernista. E così via. Alla fine le cose sembrano andare a posto, le polemiche si raffreddano, gli urti si appianano, i dolori si placano, gli amori trovano remunerazione, nel comporsi di un romanzo di qualità assolutamente elevata. Ma con quanta fatica! Sempre rinchiusi nel reticolo di contrasti della monade talmudica, in cui è consentito aprire finestre che danno soltanto sull'intimo, su quello che rischia di diventare un abisso sempre più profondo e buio di solitudine e separatezza.

(Il giornale, 7 giugno 1987)
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