Scrive di: Antonio Porta

1. “Quanto ho da dirvi. Poesie 1958-1975", 1977
2. “Il re del magazzino", 1978

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Un lungo itinerario nei territori del linguaggio è quello che ci offre Antonio Porta con il volume di poesie Quanto ho da dirvi. Poesie 1958- 1975. Un itinerario lungo nel tempo (quasi vent'anni di milizia poetica), ma serrato nella materia (una sessantina tra poesie e poemetti). Il viaggio svolto da un «nomade» che insegue la propria «utopia» sul terreno accidentato delle «poetiche», delle «ricette di fabbricazione» della poesia, dandone e dimostrandone tante per acquisite e poi sperimentando il nuovo e ancora il nuovo.

Acquisite lo sono, infatti, certe «ricette» della poesia: acquisite e quindi ribaltate. Se la poesia era massima amplificazione al sublime e dell’io, in Porta diventa massima riduzione allo scabro e dell’io. Se nella poesia si facevano cose nobili, si amava, per esempio, si soffriva, ci si slanciava (cose di cuore e di anima), in Porta si esercitano funzioni, ci si muove, si vive (cose di corpo). Dove c’era cuore e amore, ci sono gambe, braccia, ombelichi, sessi.

Massima riduzione dell’io, dicevo: grande aspirazione della generazione poetica formatasi tra il ’50 e il ’60. Liberarsi dal soggettivo e fare del soggetto un oggetto che si muove nell’oggettivo. E questo processo del soggetto che si oggettivizza e si muove sempre più in un mondo di cose, se poteva essere sfuggito nelle precedenti edizioni a lacerti delle stesse poesie presentate nel nuovo volume feltrinelliano, in questa serie completa, continua e ordinata cronologicamente, diventa evidentissimo.

Un io che fugge dal proprio essere soggetto, dalle proprie regole, dal proprio credo (proprio nel senso di «propriamente a lui imposti»), dalla fatica del proprio ragionarsi «qui e fatto così» («sì, no, sì, no, sì no...» dice il poeta e poi «per decidere ho scelto un nome diverso»), per andare verso le cose, in mezzo alle cose, farsi cosa fra le cose, gli oggetti, i vegetali, gli animali, le parti che li compongono, per trovare le nuove regole, chissà: il nuovo credo.

E se questo mondo — in cui l’io fatto cosa fra le cose vive — è violento, violente siano le cose e violento l’io fatto cosa. Finché dalla violenza, dal caos emergerà la possibilità (dopo tante ipotesi) di un nuovo ordine: saranno i «crimini della poesia» in cui il poeta pare potersi muovere ora come un «passeggero», Una nuova parvenza di quiete, persino una certa tenerezza: «c’è forse un modo per liberarmi, dice il poeta, cosa tra le cose, cancellato finalmente ogni pericolo di dogma — e l’io, un nuovo io che nella conquistata coscienza di essere cosa tra le cose ha ritrovato un principio di ordine, l’io rifà capolino in un mondo di cose più sereno.

Si leggano dunque queste poesie di Porta superando con coraggio l’immediata difficoltà che il livello della sperimentazione offre al primo sguardo, si leggano dai ruvidi viluppi di «Europa cavalca un toro nero» e delle immediatamente successive, fino alle ossessioni di «Quello che tutti pensano» (pensieri-oggetto, stracci già consumati al momento di essere enunciati), alla splendida fuga puntillistica di «Rimario» (e come fuga veramente si legga questa serie di poesie, saltando rapidamente qua e là, su e giù tra le rime scarnissime), fino alle nuove ipotesi di ordine (forse) di «Crimini» e «Passeggero». E si verificherà che l’itinerario nel linguaggio c’è e ha le sue regole.

Per finire, poesia tutta «di testa», costruita proprio facendo il mestiere del poeta, con fatica e serietà sopra le famose sudate carte, lasciando ad altri la facilità della vena e le catarsi della logorrea. Anche questo devo dire di Porta e a Porta: grazie per la misura.

Corriere del Ticino, 11 giugno 1977

2.

Il venerabile Victor Sklovskij in Una teoria della prosa si diffonde sulle tecniche usate e usabili dagli scrittori per «intercalare» materiale preparato prima (novelle, poesie, ecc.) nelle loro strutture narrative. Di queste tecniche mi pare abbia tenuto attentamente conto Antonio Porta nel costruire il suo II re del magazzino, che reca la dicitura «romanzo», ma credo proprio romanzo non sia: chiamiamolo appunto genericamente «struttura narrativa», con raggiunta non inutile di «sperimentale», aggettivo che sarebbe un po’ connotato di anni '60 (letterariamente), se non fosse che la sperimentazione è per fortuna comunque continua.

Porta è più noto come poeta che come narratore, avendo pubblicato a partire dal ’58 diverse pièces di poesia (poi riunite lo scorso anno da Feltrinelli nel volume Quanto ho da dirvi) e un solo romanzo (romanzo?), Partita, Feltrinelli. 1967. E Porta ha certamente letto Sklovskij e a lui e alle sue tecniche dell’intercalazione, della digressione e del ritardo, credo proprio si sia ampiamente riferito nella sua seconda prova di narratore.

Infatti Il re del magazzino (struttura narrativa o romanzo sui generis che sia) utilizza come nucleo o motivo conduttore una serie di poesie in forma di lettere indirizzate dal narratore ai propri figli (ma mai spedite), poesie che sono «civili» (anche se Porta rifugge da questo termine) e si riferiscono al qui e all’adesso, al mondo nel quale viviamo, alle sue tensioni, pulsioni e repulsioni. E prendono vivacemente posizione, nel senso di delineare un quadro drammaticamente critico della nostra società — in versi vibranti e al tempo stesso «freddi», da alta ingegneria poetica, come sempre in Porta — attorno al quale si dispone la struttura narrativa.

Struttura nella quale l’autore trova il protagonista narratore, come un doppio di se stesso, già morto all’inizio con accanto un malloppo di fogli scritti, cronaca degli ultimi giorni della sua vita, trascorsi nella disperata solitudine eppure lucida speranza di un dopo-catastrofe, di una tabula rasa della vecchia società e quindi di un’ipotesi di nascita della società nuova. Il protagonista narratore è morto e con lui è morta la «disperazione borghese» del sottotitolo, che è quella del suo «doppio», l’autore: non lo si dice, ma pare evidente che la speranza del testo è che fuori dal magazzino stia cominciando un mondo nuovo.

Che dire di più di questo testo che insisto a non saper definire «romanzo»? Che Porta vi si dimostra ancora una volta importante poeta, un tecnico della parola di cui la nuova letteratura italiana, consapevole o meno, dovrà tenere conto a lungo (di grande qualità la sua lingua scavata, incisa, esente da qualsiasi coloritura retorica), mentre rimane da stabilire se il suo scarso interesse per l’intreccio, la storia, il plot, è veramente una scelta programmatica oppure un limite ancora da valicare, in termini di «romanzo».

Corriere d’informazione, 22 aprile1978
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