Scrive di: Robertson Davies

1. Recensione: “Gli angeli ribelli” (1994)
2. Recensione: “La lira di Orfeo” (1995)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Nel gustoso apologo narrativo su certi guasti delle reaganomics (Il professore di Harvard), J. K. Galbraith pronuncia un elogio dello scrittore canadese Robertson Davies, indicato quale un mito per i giovani aspiranti letterati di quel paese. La citazione appare d’obbligo: la novella di Galbraith è ambientata nel milieu accademico di una veneranda università Usa, così come in un similare milieu canadese (Toronto) ha svolto parte della sua attività l’ottantenne Davies. In tale ambiente si svolge anche il romanzo Gli angeli ribelli, ora pubblicato nella smagliante traduzione di Franca Castellenghi Piazza. Per conoscere Robertson Davies i lettori italiani hanno a disposizione tre romanzi su una dozzina (Il quinto incomodo e Il mondo delle meraviglie, più quello citato), che però non sembrano avere suscitato l’interesse che meriterebbero. Si può dunque soltanto auspicare che la nuova traduzione allarghi l’attenzione per questo narratore, seppure appaia arduo e fortemente riduttivo ingabbiarlo in simile definizione. Disincantato giramondo, onnivoro studioso di culture, tecniche e situazioni esoteriche, Davies è stato (tra l’altro) attore dell’Old Vic, regista e autore teatrale, saggista, giornalista, direttore di giornale, docente universitario. Esperienze che traboccano con fervore pantagruelico dalle sue opere letterarie, straripanti di cultura classica e moderna, di passione per le arti figurative e la musica, di conoscenze singolari, di considerazioni psicologiche e notazioni scatologiche, di travolgente comicità e sulfureo humour nero.

La sua attività narrativa appare irrefrenabile, incontenibile. I suoi corposi romanzi, pur capaci di rimanere quasi miracolosamente autonomi, tendono spesso a rimandare l’uno all’altro se non addirittura a dilatarsi in trilogie. A una di esse appartengono Il quinto incomodo e Il mondo delle meraviglie, a un’altra appartiene Gli angeli ribelli. Eppure la vicenda scorre sempre autonoma, apparentemente conclusa in sé. Ma debordante di personaggi, fatti, sorprese, pirotecnie scrittorie, singolarità narrative. Nel Mondo delle meraviglie il lettore viene abbagliato da una stupefacente congerie di conoscenze comprendente, tra l’altro, il mondo del vecchio teatro inglese, le morenti arti circensi, lo sgangherato luna park viaggiante nord americano, la nevrotica tecnica realizzativa del serial televisivo, i segreti della fabbricazione di automi, le elucubrazioni di vari fondamentalismi cristiani. E non è che un elenco a memoria. Negli Angeli ribelli, incantati, si assiste al dipanarsi di un’intricata vicenda che, con la scusa di mettere in scena la catalogazione di un colossale lascito in libri, quadri e oggetti antichi con il corollario di un diabolico omicidio-suicidio, coinvolge un mondo accademico sussiegoso in un viluppo di intermittenze sentimentali e turpitudini erotiche, di sberleffi ai danni di sapienza e religione, di tecnica del violino tzigano e di conoscenze esoterico-zingaresche.

Il tutto scritto nel bellissimo inglese arcaico sopravvissuto nei territori oltremare del Commonwealth (si pensi, per ristretta esemplificazione comparativa, ai testi narrativi della sudafricana Nadine Gordimer e degli australiani Peter Carey e Thomas Keneally). Il tutto, infine, presieduto da un nume tutelare già sotteso dall’espressione "pantagruelico": François Rabelais, uomo di fede e segreto seguace dell’occulto, grande comico pervaso di senso del tragico. Non a caso, infatti, al lavoro di Davies ha dedicato un appassionato saggio critico — caldeggiando l’assegnazione del Premio Nobel — un altro grande interprete nord americano della comicità neorablesiana: l’autore del Mondo secondo Garp, John Irving.

Gli angeli ribelli, Guanda (Corriere della sera, 8 maggio 1993

II.

Sarà interessante (e salutare) una dieta sempre e unicamente a base di caviale? O non sarà forse più gustosa (e corroborante) una dieta maggiormente articolata, fatta di saporosi antipasti, primi e secondi piatti ad libitum, formaggi, dessert e connessi vini? Si perdoni l’incipit gastronomico ma, per introdurre uno scrittore pantagruelico come il canadese Robertson Davies, esso appare del tutto pertinente. Una tavola ben imbandita, un piatto pieno fino all’orlo di cose gustose: la satura lanx dei latini, il testo zeppo di vicende e stili, dal sublime al terra terra, dal patetico al grottesco, dal celestiale al grossier, da cui è discesa la "satira". Struttura letteraria che è stata adattata al "romanzo" e che è arrivata fino ai giorni nostri attraverso la mediazione di Rabelais.

Conclamato padre putativo di Robertson Davies è appunto Rabelais. Nei suoi romanzi lo si cita di continuo, lo si studia, lo si analizza: è sempre lì a far vibrare il testo come un invisibile filo sotteso. Lo si studia, in particolare, in Gli angeli ribelli, prima parte di una delle diverse trilogie (fatte di componenti magistralmente collegate tra loro ma quasi miracolosamente autonome) in cui si sviluppa l’opera di Davies. E lo si studia in La lira di Orfeo, che la trilogia chiude. Con un interessante collaterale: E.T.A. Hoffmann, scrittore e musicista. A costituire l’ossatura del romanzo sono infatti la riscoperta, il completamento e la messa in scena di un’opera lirica incompiuta e dimenticata di Hoffman: Artù di Bretagna, ovvero Il Magnanimo Cornuto. Basti dire che l’operazione è finanziata dalla Fondazione Cornish, alla cui testa siede il ricchissimo mecenate Arthur, per capire che il lettore si trova calato in un gustosissimo gioco letterario di specchi in cui Arthur fa da contraltare ad Artù, sua moglie Marie a Ginevra, il regista della messinscena a Lancillotto, e il deus ex machina della vicenda, il coltissimo e ironico reverendo Simon Darcourt, al Mago Merlino. Il lettore assiste a una vera e propria ricostruzione dell’opera pezzo per pezzo, con struttura del libretto, citazioni di interi brani del testo, notazioni musicali, realizzazione della messa in scena, con una tale dovizia di particolari storici e tecnici da far nascere più volte un formidabile dubbio: non sarà per caso vero che Hoffmann ha lasciato un’opera così e così? Non sarà per caso vero che di scrivere il libretto era stato in origine incaricato J. R. Planché (geniale e devastante librettista dello sgangherato e stupendo Oberon di Weber)? Chissà. Avendo a che fare con R. Davies, non si sa mai dove finisca la finzione e dove cominci la realtà.

A tutta l’operazione Magnanimo Cornuto assiste E.T.A. Hoffmann in persona, che dal limbo si produce in esilaranti considerazioni sulla propria sorte e su quella in generale dell’arte scrittoria e musicale. E a tutta l’operazione si intreccia un’altra vicenda, ovvero l’esatta attribuzione di un magnifico trittico apparentemente di scuola cinquecentesca, sussiegosamente attribuito dai più valenti critici a un artista ignoto chiamato "l’Alchimista". Non è affatto così. Come finzione e realtà si fanno da specchio nella vicenda di Arthur/Marie e Artù/Ginevra, così anche la finzione del dipinto fa da specchio alla realtà del defunto creatore della Fondazione, Francis Cornish, che, con il trittico da lui stesso magistralmente falsificato, ha voluto lasciare ai posteri una beffarda chiave di lettura della propria vita giovanile. Un romanzo ipermassimalista, dunque, che non può non suscitare l’ammirazione del lettore, nonostante qualche peso nell’impianto generale e una minore riuscita, rispetto ad altre opere di Davies, della componente comica.

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