Scrive di: Peter Carey
1. Recensione di “Oscar e Lucinda” e “L’esattrice delle tasse” (1993)
2. I motivi della nuova traduzione, con titolo corretto, di La vera storia del bandito Ned Kelly, già uscito come La ballata di Ned Kelly (2022)
1. Recensione di “Oscar e Lucinda” e “L’esattrice delle tasse” (1993)
2. I motivi della nuova traduzione, con titolo corretto, di La vera storia del bandito Ned Kelly, già uscito come La ballata di Ned Kelly (2022)
© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)
Vi sono romanzieri che privilegiano l'intreccio, costi quello che costi, la vicenda, i personaggi, i cosiddetti colpi di scena, la tensione verso lo scioglimento finale. Altri, invece, preferiscono puntare sulla qualità della scrittura, sulla finezza di sensazioni che essa sa evocare, sulle sfumature. Altri ancora, infine, affrontano l'incomoda sfida di voler tenere conto dell'uno e dell'altra, componendo opere fatte allo stesso titolo di intreccio e di scrittura, romanzi che procedono per squarci di pura narratività intercalati da altri di alta scrittura. I primi, di norma, servono a far fare un salto per così dire di quantità alla vicenda, a portarla avanti in stato di tensione narrativa, mentre i secondi servono a elevare la qualità del testo, ad approfondire situazioni particolarissime, caratteri, sentimenti, emozioni.
Quest'ultimo tipo di romanzo, spesso tendente alle dimensioni imponenti – con il suo alternarsi di scrittura alta e scrittura medio-bassa, con il rischio calcolato di apparenti scivolate verso la colloquialità – nella nostra lingua non appare molto praticato. E per certo, in Italia, è poco amato dalla critica. Mentre è largamente praticato e amato in lingua inglese, sia essa quella dell'isola madre o una delle molteplici varianti delle ex colonie. Da Golding e Burgess (per esemplificare), fino a Gordimer, Soyinka, Naipaul, Rushdie, Davies, Keneally (e si potrebbe andare avanti a elencare per un bel po'). Per non dimenticare scrittori Usa come Updike e Pynchon.
In tale ambito narrativo, alla fine degli anni Ottanta si è prepotentemente presentato alla ribalta l'australiano Peter Carey con Oscar e Lucinda. Romanzo magnifico per vicenda raccontata e qualità di scrittura, per ambientazione storica e cura dei personaggi, fittizi (da fiction) o veri, fino a George Eliot e ai bloomer, i mutandoni del suo protofemminismo. Opera straripante, irresistibilmente comica e funestamente tragica, composta da un infinito convergere di ruscelli narrativi (con loro sotto-vicende e sotto-personaggi) verso un unico trascinante fiume narrativo. In tutto il mondo di lingua inglese venne accolta con un successo trionfale. Da allora Carey vive al Greenwich Village, dove insegna creative writing presso la New York University. Discreti anche i riconoscimenti in Italia, ma ben lontani dal trionfo.
A cinque anni di distanza Carey ricompare con il romanzo L'ispettrice delle tasse. Un'inquietante vicenda di sangue ed esplosivi, con corollario di musica rock, buddismo e pratiche incestuose fra padri e figli, centrata sull'incontro-scontro di una demenziale famiglia di venditori di auto con una moralissima agente del fisco che li mette alle strette nell'attività economica come nei risvolti personali più intimi. Una storia ambientata in una torva Sydney postmoderna che fa da contraltare alla città ottocentesca del romanzo precedente. L'uso della lingua (molto ben definito "ipertiroideo" dalla critica Usa) è persino più strepitoso del solito, ponendo qualche problema di esatta comprensione delle sfumature, ma l'ansia di intricare la vicenda fino alle estreme conseguenze – di giocare a oltranza la carta della marinistica meraviglia – sembra prendere a tratti la mano all'autore, rischiando di apparire non del tutto risolta. Soprattutto nel finale, che mira con incerta plausibilità a fare dell'Ispettrice delle Tasse (non a caso di nome Maria) e del suo bambino, nato tra le macerie fisiche e morali dell'esplosa concessionaria di auto, un catastrofico simbolo di catarsi universale, presumibilmente dalla contemporanea volgarità del denaro. Un must, in ogni caso, per i cultori della narrativa di alta qualità in lingua inglese.
Oscar e Lucinda, Longanesi e poi TEA
L'ispettrice delle tasse, Longanesi
2. I motivi di una ritraduzione: La vera storia del bandito Ned Kelly
Peter Carey è uno scrittore che, forse senza nemmeno conoscerlo, applica con suprema maestria il precetto di Giovan Battista Marino: “È del poeta il fin la meraviglia”. La “meraviglia” — indotta nel lettore da distorsioni della lingua e acrobazie di strutture narrative — è la sua cifra permanente, per non dire il suo pane quotidiano. E i suoi libri cercano sempre di essere diversi.
A unificarli è l’elemento “irlandese”. Carey è il cantore del turbolento popolo cattolico di Erin trapiantato in Australia e delle terribili vicende storiche che hanno forzato i suoi antenati a vivere lì: la deportazione sulle navi-prigione della protestante autorità inglese (di quello che in questo romanzo è più volte chiamato “re straniero”).
E in questa sua arte di “cantare meraviglie” è molto aiutato dal vocabolario che usa, quello dell’anglo-australiano, lingua complicata e quanto mai composita, formata dalla base inglese (ma quella portata là dai primi coloni nell’Ottocento) su cui, oltre a quello irlandese, si sono innestati robustissimi apporti: trovati in loco (le parole degli aborigeni) o arrivati dopo con le ondate immigratorie di tedeschi, slavi, cinesi… Per risolvere i problemi di comprensione che questi apporti creano, adesso si è molto agevolati dalle ricerche in Internet, ma alla prima traduzione di un testo australiano, oltre trent’anni fa, mi sono subito accorto che i poderosi Oxford English, Merriam-Webster e Random House non bastavano più, e mi sono dovuto precipitosamente procurare The Australian Oxford Dictionary.
La vera storia del bandito Ned Kelly è forse l’esempio più lampante di tutto quanto sopra: il protagonista è l’archetipo del ribelle australiano di origine irlandese, un erede diretto del “ragazzo con i capelli a spazzola”, il croppy boy cantato nella dolentissima ballata popolare omonima, che compare qui ma è anche citata tante volte dal più grande cantore della riottosa cultura irlandese, James Joyce, nell’Ulisse.
Tutto questo romanzo vibra di reminiscenze e stilemi joyciani. Per esempio l’assenza di virgole e le insistite sgrammaticature nella parte di testo che si finge manoscritta da Ned Kelly, un uomo — bandito (e banditosi) dalla società — la cui madre (cattolica) non aveva i sei pence per pagare ogni lunedì mattina il maestro (inglese protestante) delle elementari, un orgoglioso illetterato irlandese che si esprime come fa l’orgogliosa illetterata irlandese Molly Bloom nel suo celeberrimo soliloquio.
Per la verità Molly, in quanto figlia di un militare dell’esercito britannico, non è anti inglese, il principe di Galles lo chiama rispettosamente Sua Altezza Reale, ma questo non le impedisce di usare espressioni molto grevi, come del resto credo faccia chiunque stia rimuginando tra sé e sé. E lo stesso Ned sta rimuginando tra sé e sé, sia pure in forma di lettere scritte per essere lette a memoria futura dalla figlia bambina che non ha mai visto: per rispetto del suo candore non vuole usare parole brutte, quindi le maschera con qualche lineetta, “b - - - -r”, “b - - - - - d” e così via, creando non pochi ulteriori problemi al traduttore.
Proprio l’insoddisfazione circa le espressioni italiane con cui ritenevo di aver risolto la questione “lineette” ai tempi della mia prima traduzione di questo romanzo è uno dei motivi che mi ha indotto a rivederla a fondo vent’anni dopo. Unitamente (seppure molto meno) al fatto che a quei tempi non avevo colto le reminiscenze joyciane. Più (soprattutto) la modificata sensibilità nei confronti dell’uso del popolare e del gergo. La lingua è un organismo vivo, in perenne evoluzione, e tanto più lo è quando la si deve usare per tradurre un’entità vibratile come l’australiano di Peter Carey: vent’anni fa si parlava e scriveva in un modo molto diverso, le scelte di allora (mie e redazionali) mi sono apparse molto migliorabili, quindi ho ritenuto doveroso farlo.
Introduzione alla nuova traduzione, con titolo corretto di La vera storia del bandito Ned Kelly, già La ballata di Ned Kelly
Quest'ultimo tipo di romanzo, spesso tendente alle dimensioni imponenti – con il suo alternarsi di scrittura alta e scrittura medio-bassa, con il rischio calcolato di apparenti scivolate verso la colloquialità – nella nostra lingua non appare molto praticato. E per certo, in Italia, è poco amato dalla critica. Mentre è largamente praticato e amato in lingua inglese, sia essa quella dell'isola madre o una delle molteplici varianti delle ex colonie. Da Golding e Burgess (per esemplificare), fino a Gordimer, Soyinka, Naipaul, Rushdie, Davies, Keneally (e si potrebbe andare avanti a elencare per un bel po'). Per non dimenticare scrittori Usa come Updike e Pynchon.
In tale ambito narrativo, alla fine degli anni Ottanta si è prepotentemente presentato alla ribalta l'australiano Peter Carey con Oscar e Lucinda. Romanzo magnifico per vicenda raccontata e qualità di scrittura, per ambientazione storica e cura dei personaggi, fittizi (da fiction) o veri, fino a George Eliot e ai bloomer, i mutandoni del suo protofemminismo. Opera straripante, irresistibilmente comica e funestamente tragica, composta da un infinito convergere di ruscelli narrativi (con loro sotto-vicende e sotto-personaggi) verso un unico trascinante fiume narrativo. In tutto il mondo di lingua inglese venne accolta con un successo trionfale. Da allora Carey vive al Greenwich Village, dove insegna creative writing presso la New York University. Discreti anche i riconoscimenti in Italia, ma ben lontani dal trionfo.
A cinque anni di distanza Carey ricompare con il romanzo L'ispettrice delle tasse. Un'inquietante vicenda di sangue ed esplosivi, con corollario di musica rock, buddismo e pratiche incestuose fra padri e figli, centrata sull'incontro-scontro di una demenziale famiglia di venditori di auto con una moralissima agente del fisco che li mette alle strette nell'attività economica come nei risvolti personali più intimi. Una storia ambientata in una torva Sydney postmoderna che fa da contraltare alla città ottocentesca del romanzo precedente. L'uso della lingua (molto ben definito "ipertiroideo" dalla critica Usa) è persino più strepitoso del solito, ponendo qualche problema di esatta comprensione delle sfumature, ma l'ansia di intricare la vicenda fino alle estreme conseguenze – di giocare a oltranza la carta della marinistica meraviglia – sembra prendere a tratti la mano all'autore, rischiando di apparire non del tutto risolta. Soprattutto nel finale, che mira con incerta plausibilità a fare dell'Ispettrice delle Tasse (non a caso di nome Maria) e del suo bambino, nato tra le macerie fisiche e morali dell'esplosa concessionaria di auto, un catastrofico simbolo di catarsi universale, presumibilmente dalla contemporanea volgarità del denaro. Un must, in ogni caso, per i cultori della narrativa di alta qualità in lingua inglese.
Oscar e Lucinda, Longanesi e poi TEA
L'ispettrice delle tasse, Longanesi
2. I motivi di una ritraduzione: La vera storia del bandito Ned Kelly
Peter Carey è uno scrittore che, forse senza nemmeno conoscerlo, applica con suprema maestria il precetto di Giovan Battista Marino: “È del poeta il fin la meraviglia”. La “meraviglia” — indotta nel lettore da distorsioni della lingua e acrobazie di strutture narrative — è la sua cifra permanente, per non dire il suo pane quotidiano. E i suoi libri cercano sempre di essere diversi.
A unificarli è l’elemento “irlandese”. Carey è il cantore del turbolento popolo cattolico di Erin trapiantato in Australia e delle terribili vicende storiche che hanno forzato i suoi antenati a vivere lì: la deportazione sulle navi-prigione della protestante autorità inglese (di quello che in questo romanzo è più volte chiamato “re straniero”).
E in questa sua arte di “cantare meraviglie” è molto aiutato dal vocabolario che usa, quello dell’anglo-australiano, lingua complicata e quanto mai composita, formata dalla base inglese (ma quella portata là dai primi coloni nell’Ottocento) su cui, oltre a quello irlandese, si sono innestati robustissimi apporti: trovati in loco (le parole degli aborigeni) o arrivati dopo con le ondate immigratorie di tedeschi, slavi, cinesi… Per risolvere i problemi di comprensione che questi apporti creano, adesso si è molto agevolati dalle ricerche in Internet, ma alla prima traduzione di un testo australiano, oltre trent’anni fa, mi sono subito accorto che i poderosi Oxford English, Merriam-Webster e Random House non bastavano più, e mi sono dovuto precipitosamente procurare The Australian Oxford Dictionary.
La vera storia del bandito Ned Kelly è forse l’esempio più lampante di tutto quanto sopra: il protagonista è l’archetipo del ribelle australiano di origine irlandese, un erede diretto del “ragazzo con i capelli a spazzola”, il croppy boy cantato nella dolentissima ballata popolare omonima, che compare qui ma è anche citata tante volte dal più grande cantore della riottosa cultura irlandese, James Joyce, nell’Ulisse.
Tutto questo romanzo vibra di reminiscenze e stilemi joyciani. Per esempio l’assenza di virgole e le insistite sgrammaticature nella parte di testo che si finge manoscritta da Ned Kelly, un uomo — bandito (e banditosi) dalla società — la cui madre (cattolica) non aveva i sei pence per pagare ogni lunedì mattina il maestro (inglese protestante) delle elementari, un orgoglioso illetterato irlandese che si esprime come fa l’orgogliosa illetterata irlandese Molly Bloom nel suo celeberrimo soliloquio.
Per la verità Molly, in quanto figlia di un militare dell’esercito britannico, non è anti inglese, il principe di Galles lo chiama rispettosamente Sua Altezza Reale, ma questo non le impedisce di usare espressioni molto grevi, come del resto credo faccia chiunque stia rimuginando tra sé e sé. E lo stesso Ned sta rimuginando tra sé e sé, sia pure in forma di lettere scritte per essere lette a memoria futura dalla figlia bambina che non ha mai visto: per rispetto del suo candore non vuole usare parole brutte, quindi le maschera con qualche lineetta, “b - - - -r”, “b - - - - - d” e così via, creando non pochi ulteriori problemi al traduttore.
Proprio l’insoddisfazione circa le espressioni italiane con cui ritenevo di aver risolto la questione “lineette” ai tempi della mia prima traduzione di questo romanzo è uno dei motivi che mi ha indotto a rivederla a fondo vent’anni dopo. Unitamente (seppure molto meno) al fatto che a quei tempi non avevo colto le reminiscenze joyciane. Più (soprattutto) la modificata sensibilità nei confronti dell’uso del popolare e del gergo. La lingua è un organismo vivo, in perenne evoluzione, e tanto più lo è quando la si deve usare per tradurre un’entità vibratile come l’australiano di Peter Carey: vent’anni fa si parlava e scriveva in un modo molto diverso, le scelte di allora (mie e redazionali) mi sono apparse molto migliorabili, quindi ho ritenuto doveroso farlo.
Introduzione alla nuova traduzione, con titolo corretto di La vera storia del bandito Ned Kelly, già La ballata di Ned Kelly