Scrive di: Donna Tartt

Intervista su: “Dio di illusioni” (1992)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Il buon vecchio Vermont. Grande mito degli americani del nord. Ricordate Frank Sinatra? “Moonlight in Vermont”. Chiaro di luna, pioggia di foglie di sicomoro. Paesaggi boschivi e montani. Nel sud dello Stato ha sede il Bennington College, che è evidentemente un luogo singolare, con qualcosa nell’aria. Chissà. Sta di fatto che, provenendo dai quattro angoli degli Usa, agli inizi degli anni ’80 vi affluisce contemporaneamente tutta una serie di giovani destinati alla larga notorietà. Tutti scrittori. Come mai proprio lì?

«Mah», risponde la mia interlocutrice, «se non nell’aria, forse c’è qualcosa nell’acqua.» Sia come sia, arrivano lì. Tra di essi Brett Easton Ellis, autore di tre romanzi di crudezze sado-cannibalesche culminate in Amerycan Psycho, e questo pulcino nero con cui converso prima in un salotto di un lussuoso albergo milanese e poi a cena al compassato Savini. Un Calimero in gonnella (anzi, in completo con pantaloni), poco più di un metro e mezzo di variazioni sul nero: capelli, occhi, abito, persino gli occhiali, quando compaiono fugacemente da una borsa (nera) delle sorelle Fendi. Chi è? Che cosa fa?

Si chiama Donna Tartt, nome che fino a qualche mese fa era sconosciuto alle cronache, ma che da diversi giorni sbircia dall’alto (molto dall’alto) in basso le classifiche di vendita americane di libri di narrativa. E per di più con il suo primo libro. Un grosso romanzo nero nero come tutta la sua persona, intitolato Dio di illusioni e scritto con la consumata abilità di una Patricia Highsmith più una lingua degna dei grandi classici americani. Un librone di quasi 600 pagine in cui si dipana con sapienza una sottile ed efferata storia gotica di seduzioni, sopraffazioni e delitti che si svolge – vedi caso – tra gli studenti di un esclusivo college del Vermont meridionale. Letti i sanguinolenti romanzi di Easton Ellis e adesso questo inquietante reticolo di omicidi con suicidio finale, c’è da chiedersi se i college americani siano veramente così: tutti sesso e rock ’n roll, con parecchia droga e non poche possibilità di andare prematuramente e violentemente a cantare nel coro degli angeli. Quando si studia?

«Be’», risponde Donna Tartt, accendendo un’ennesima sigaretta che fa di lei la più seria candidata al titolo di Miss Yanez 2000. «Le cose andavano sicuramente così a Bennington, ma era una scuola di un tipo molto particolare. Aperta, creativa. Con i professori ci si dava del tu. Le materie fondamentali erano letteratura, scrittura, arte. E’ stato perciò che ci siamo trovati tutti lì, Brett, io e gli altri. In effetti non è che ci si ammazzasse di studio nel senso tradizionale. Non era certamente come andare a Harvard. Ma, insomma, qualche risultato lo abbiamo ottenuto anche noi.»

Questa sua fortunata opera prima, per esempio, già tradotta in un subisso di lingue e già vivisezionata da Alan Pakula per trarne un horror film di sicuro successo: per assicurarsela, la casa editrice americana le ha versato un anticipo pari a più di mezzo miliardo di lire. E va precisato che la simpatica, disinvolta, darkeggiante signorina Tartt è ancora lontana dalla boa dei trent’anni. Lo avrebbe mai immaginato?

«Quando ero ragazzina, a Grenada? Santo cielo, no!» esclama, e io non so se la sigaretta è ancora quella di prima o già un’altra. Grenada è una tranquilla cittadina del Mississippi, nel profondo sud, dove buona parte del reddito si fonda sul tabacco. E lei è nata lì, con metà sangue francese creolo da parte di madre, un quarto presumibilmente russo da parte di un padre la cui storia si perde nelle nebbie e un quarto indiano. Ho capito bene? «Sì», conferma. «Io posso accampare il diritto legale a essere riconosciuta indiana. Tra i miei antenati c’erano i pellirosse.» E china la testa di lato per farmi meglio ammirare il nero corvino dei capelli e la linea del naso. «E’ da questo inestricabile miscuglio», continua, «che viene il mio strano cognome, Tartt. Un nome singolare anche per gli Stati Uniti, dove siamo in tantissimi ad avere una storia famigliare ingarbugliata.»

Laggiù nel Mississippi Donna mostra precocissimi talenti letterari. Quando arriva all’università dello stato, un professore intelligente le suggerisce di trasferirsi a Bennington. E lei lo fa. Vi studia letterature e lingue – un bagaglio culturale che traspare sontuoso dalle pieghe del suo romanzo – e vi si diploma. Intanto cerca di scrivere. «Solo che», dice con aria sconsolata, «a quei tempi era d’obbligo scrivere come i minimalisti. Ma io mi annoiavo. Il mio modo di scrivere è completamente diverso: a me piace raccontare grandi storie, molto strutturate, molto romanzesche. Ho tenuto duro.» Meno male. Sarà un segno dei tempi, ma sta di fatto che alle storielle asfittiche con cui ci hanno afflitto i giovani minimalisti dell’era reaganiana siamo passati a una nuova articolazione dei testi letterari. Lei sfida addirittura le 600 pagine. Che sia effetto del cambiamento che aleggiava nell’aria e che è sfociato nel passaggio da Reagan-Bush a Clinton?

«Non saprei proprio», ribatte. «Di politica non capisco niente.» (E non è vero.) Sta comunque di fatto che un cambiamento c’è stato. Tra l’altro: Clinton che arriva dal remoto Arkansas (puntigliosamente pronunciato Arkansò) e Tartt dall’altrettanto remoto Mississippi, appena lì di fianco. Che cos’è? La rivincita dei sudisti? Un nuovo attacco dei Confederati? «Ci mancherebbe altro», ribatte lei scoppiando a ridere. Pure, con la sua porzione di sangue pellirosse… «Ma no. Il Sud ha sempre prodotto grandi presidenti e grandissimi scrittori. Lo stesso Mississippi: Faulkner, Eudora Welty.» E Donna Tartt.

Calimero si schermisce, abbassando gli occhi sul piatto. Perché non rinuncia certamente a cibo e vino. Anzi. Essendo stata pochissimo in Italia, chiede dettagliate istruzioni circa che cosa e come mangiare. Su una cosa sola non manifesta la minima incertezza. I nostri porcini langaroli. Li mangia come se non avesse mai fatto nient’altro in vita sua. «Se non ne ho esperienza io», borbotta criptica. In che senso? «Be’, com’è che il diabolico, raffinato studente di greco del mio romanzo a un certo punto progetta di eliminare il fraterno amico che ha scoperto il suo primo omicidio?» Caspita, è vero: con i funghi. Puntigliose pagine di studio sulla composizione della pietanza, in modo da assicurare morte e impunità. Anche se all’ammazzamento non si è poi provveduto così, comincio a guardare con un certo sospetto il piatto. E lei ride.

«Sta’ tranquillo», dice. «Sono buonissimi. Magari li facessero così nei locali downtown che mi piace frequentare con i miei amici, nelle lunghe notti di New York, dalle parti del Village, dove abito con il mio cane e il mio pappagallo. Sai, io soffro di insonnia.» Notti da mille luci di New York? Discoteche, luci psichedeliche, anfetamine, righe e righe di neve inalate dall’asse del cesso? «Ma figurati. Posti tranquilli e riservati, dove vado a chiacchierare di cose serie con i miei amici. Il tipico ambiente downtown: pittori, scrittori, gente di cinema. Persone poco note, per adesso, ma che faranno sicuramente parlare di sé.» Per rompere il ghiaccio, intanto, hanno mandato in avanscoperta il Calimero mezzo creolo e mezzo indiano venuto dal sud, di nome Donna Tartt. Con un risultato a dir poco dirompente.

(Amica, 1992)
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