Scrive di: Gay Talese

Intervista su: “Ai figli dei figli” (1993)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Un bambino minuto, colorito scuro, musino da roditore, abiti da piccolo principe. Osserva con puntigliosa attenzione tutto ciò che vede, ascolta intento ciò che vanno dicendo i frequentatori della premiata sartoria-pellicceria dei suoi genitori italoamericani. Sono i primi anni ’40, lo scenario è Ocean City, tranquilla cittadina del New Jersey: il mondo è devastato dalla guerra. Il bambino pensa che un giorno sarà sarto come il padre e intanto, nella solitudine della sua cameretta, insonne, non cessa di tagliare e ricucire mentalmente ciò che ha visto e sentito quel giorno. Racconta a se stesso fatti, persone, emozioni. Al paziente e solitario lavoro con ago e filo del sarto sostituisce quello della memoria. C’è una cosa che lo tormenta. Una serie di domande che non trovano risposta. Quali sono le mie origini? Da che parte sto? Di giorno, in mezzo alla clientela americana, ascolta il padre, venuto dalla Calabria, schierarsi a chiare lettere contro l’Italia, a fianco di quell’America che gli ha dato benessere e dignità, ma la sera se lo sente arrivare accanto, nella buia cameretta, per dirgli: «Non considerare mai l’Italia una nemica, figliolo. Sii orgoglioso di ciò che sei. Tu discendi da una grande Storia». Un’esortazione che assomiglia a un’implorazione, finché, sera dopo sera, il sonno cala a togliere dalle angustie il bambino.

Una ventina di anni più tardi un giovane giornalista dal colorito bruno e dal musino di topo, vestito come se fosse appena uscito da una sartoria italiana, riempie di fastidio il direttore del New York Times per il quale lavora da quando è uscito da una facoltà di giornalismo. Non vuole seguire le rigorose regole del più famoso giornale americano. Invece di scrivere nello spartano linguaggio giornalistico, senza spreco di parole, lui i fatti li racconta, abbandonandosi a descrizioni, psicologie, emozioni. Dalla penna del riottoso giovane, di nome Gay Talese, stava nascendo quello che sarebbe divenuto il famoso New Journalism, il Nuovo Giornalismo di autori come lo stesso Talese e Tom Wolfe, ma al Times non lo sapevano ancora. Il giovanotto dovette andare a cercare fortuna altrove. La trovò presso il celebre mensile Esquire, di cui in breve tempo divenne una punta di diamante. E la trovò nei libri. In particolare in un azzardoso Onora il padre, saggio sulla mafia realizzato vivendo per diverso tempo insieme alla famiglia di un padrino d’America. A Gay Talese i fatti non sono mai bastati nudi, come avrebbe voluto il suo ex direttore: ha bisogno di calarvisi a fondo, di vedere colori, sentire odori, provare emozioni, correre, se del caso, rischi. Il libro fece rumore, stabilendo la sua fama di scrittore di una narrativa tutta particolare, non di invenzione ma basata sui fatti, una diretta discendente del Nuovo Giornalismo.

Ben diverso e maggior scalpore fece qualche anno più tardi La donna d’altri, libro-inchiesta sulle abitudini intime degli americani negli anni della liberazione sessuale. Pane al pane e sesso al sesso: una bomba seguita da un formidabile scandalo. Risultato? Milioni di copie vendute in tutto il mondo. Chi riteneva di essere mosso da smanie sessual-sociologiche se le trovò appagate. Chi voleva conoscere gli Usa nel segreto del letto per non dire del bagno li conobbe. Chi aspirava semplicemente a soddisfare privatissimi pruriti poté farlo con la modica spesa dell’acquisto di un libro. Un successo colossale, la definitiva consacrazione, la ricchezza, con tanto di casa su diversi piani in pieno centro di Manhattan (sulla 61a East, zona extralusso). Il ragazzino italo americano che aveva imparato a osservare puntigliosamente la realtà nell’atelier dei genitori sarti in modo da essere poi capace di tagliarla e cucirla da maestro della narrazione realistica, ha fatto carriera. E che carriera.

Impeccabile in un completo blu a righine che sembra uscito dieci minuti prima dalla premiata sartoria paterna, non un capello fuori posto, affabile, disponibile, ecco Gay Talese seduto davanti a me nella hall di un grande albergo milanese. È tornato in Italia per il lancio di Ai figli dei figli, suo ultimo successo. Un libro assai particolare, che sembra spezzare ogni legame con il sensazionalismo dei precedenti. Un opera coloratissima, fluviale, alla cui base sta quella che qualcuno potrebbe definire «microstoria». L’epopea di una famiglia ma al tempo stesso qualcosa di assai più ambizioso. Che cos’è esattamente questo libro, Gay? «È la vicenda della mia famiglia, una famiglia italoamericana tipo attraverso cui ho cercato di raccontare una Storia con la esse maiuscola, quella dell’emigrazione dall’Italia del Sud verso gli Usa. Un libro di narrativa realistica e al tempo stesso di Storia, scritto con il linguaggio popolare del giornalismo. Ho cercato di rivolgermi al larghissimo pubblico degli americani di origine italiana, i figli dei figli appunto, per raccontare loro chi sono e perché devono essere fieri delle loro radici.»

Un mondo singolare, per non dire straordinario, da cui è uscita una gamma di personaggi che va da Frank Sinatra a Joe Di Maggio, da Al Pacino a Silvester Stallone, da Lee Jacocca a Mario Cuomo. E l’elenco potrebbe essere lunghissimo. Ma, a proposito, Cuomo diventerà mai presidente degli Stati Uniti? «Non credo. E penso che lui stesso risponderebbe la stessa cosa. Il presidente degli Stati Uniti deve continuamente delegare ad altri e non preoccuparsi assolutamente di ciò che accadrà. Cuomo invece è un politico onesto, integro, che vuole fare tutto in prima persona, poter seguire tutto, giurare che una certa promessa verrà mantenuta. E’ la nostra mentalità di italiani. Viviamo nella metropoli ma abbiamo ancora in testa la dimensione del villaggio dal quale proveniamo. Sono sicuro che quando Cuomo è, che so, a Tokyo ha soltanto voglia di tornare qui a dormire nel suo letto.» E tu hai mai pensato di abbracciare la carriera politica? «In effetti ci ho fatto un pensierino. Ma il problema cruciale dei politici sono i rapporti con la mafia. E mia madre, come ho scritto nel libro, aveva un cugino mafioso, che girava con la bombetta corazzata. Una cosa ormai lontanissima, ma che per un politico potrebbe significare la morte.»

Accidenti. Torniamo immediatamente ad argomenti di più amena casualità. Direi che l’itinerario attraverso cui si passa dalla liberazione sessuale di La donna d’altri all’epopea storica di Ai figli dei figli non appare uno sviluppo naturale. Non ci sarà un po’ dietro il riflusso che affligge i nostri giorni? «Assolutamente no. Il riflusso è nei fatti, nella noia in cui si vive oggi a New York, nella sessuofobia provocata dalle istituzioni puritane prima ancora che dall’Aids.» Ma se ne uscirà? «Certamente. Per forza. Io credo di avvistare già qualche segno di una nuova liberazione. Lo vedo nelle mie figlie, nei loro amici. Le giovani generazioni faranno qualcosa che assomiglierà molto da vicino alla grande rivolta studentesca degli anni Sessanta, e la ruota riprenderà il giro.»

Speriamo. Comunque l’epopea degli italiani d’America secondo Talese non si conclude con Ai figli dei figli. In origine si sarebbe dovuta sviluppare su tre volumi. Ora Gay assicura che saranno almeno due. Se la prima parte si chiude agli inizi degli anni Quaranta, il prossimo dovrà investire più direttamente i tempi dell’autore adulto, la sua vita, la sua persona. Che cosa emergerà dall’elegante completo blu a righine dentro cui Gay Talese, più che offrirsi al pubblico, sembra quasi cercare riparo? Un austero figlio dei figli o un gaudente seguace della donna d’altri? Probabilmente un esplosivo miscuglio dei due.

Gay Talese,
Ai figli dei figli, Rizzoli

(Amica, 1993)
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