Scrive di: Jay McInerney

I. Intervista (1986)
II. Recensione: “Le mille luci di New York” (1986)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Non ancora trentun’anni, faccia sveglia da bambino ben coltivato, occhi da furetto, conversiamo con Jay McInerney, giovane scrittore baciato in fronte dal successo ottenuto negli Stati Uniti con il suo primo romanzo, Bright lights, big city. 300.000 copie. («Fino a ora», precisa, sorridendo sbarazzino. Complimenti!) McInerney è a Milano per l’uscita di tale romanzo, pubblicato da Bompiani con il titolo Le mille luci di New York. Intanto, però, negli Stati Uniti è già uscito anche il secondo, Ransom, 170.000 copie («Fino a ora», ripete), che dell’oscillare dei bioritmi critici sta attualmente subendo gli umori. Tutto il mondo è paese: al di qua come al di là dell’Atlantico, a un esordio di successo non può che fare seguito una replica accolta con sottili e pensosi distinguo. Avendo già recensito su queste colonne - e con calore - Le mille luci di New York, vediamo dunque di parlare con McInerney soprattutto di Ransom, amara vicenda di giovani anime perdute tra Afghanistan, Pakistan e Giappone. Romanzo di grosse qualità, da lui iniziato in quest’ultimo paese, mentre vi campava insegnando inglese, subito dopo il college. Quindi, in pratica, sua prima opera. Un critico americano, particolarmente pensoso, si è accigliato sulla «questione estetica se il protagonista di un opera di finzione possa morire», dando in un lampo di geniale stupidità una bella lezione alle tristi fini fatte da un bel numero di protagonisti vari, tra i quali - nell’occasione - tornano particolarmente alla memoria il Kurtz di Cuore di tenebra e Lord Jim. Ovvero: Joseph Conrad. Che rapporti ha il giovane Jay McInerney, autore di un notevole romanzo «di autoannullamento nell’esotico», con il grande narratore anglo-polacco?

«Giustissimo», risponde. «Non ci avevo mai pensato. Ma in effetti ho letto Lord Jim alla fine del college e Cuore di tenebra proprio mentre ero in Giappone. E’ molto probabile che a livello inconscio ne sia stato influenzato. Soltanto a livello incoscio, però.»

Ransom, il ventiquattrenne protagonista dell’omonimo romanzo, rifugiatosi in Giappone per espiare e trovare nuova serenità di spirito dopo aver vissuto la tragedia della droga sul continente asiatico, contesta il sistema americano. È l’organica contestazione del ventenne di tutti i tempi, oppure un fatto più profondo? Il protagonista di Le mille luci, per esempio, fatuamente perso nel mondo della moda e della pubblicità, non appare...

«Un momento. Ho già avuto modo di dichiarare come mi dispiaccia profondamente che buona parte dei lettori non abbia colto quanto di demistificante ho cercato di mettere nel mio romanzo a proposito dell’assoluta vacuità di quel mondo. Per il personaggio Ransom, può darsi che si tratti di un semplice fatto di impeto e ingenuità giovanili, ma in effetti io, nelle mie opere, intendo denunciare con fermezza il grave vuoto culturale da cui è afflitto il mio paese.»

Il personaggio Ransom contesta in particolare la televisione (il suo romanzesco padre è produttore di successo), come emblema di una certa «american way of life» di massa. Tuttavia pensa: «Di questi tempi è difficile non vivere come in un film». E Ransom romanzo trasuda stilemi cinematografici: riferimenti al western, di taglio certamente ironico-kitsch, ma anche lunghe e serissime sedute di karate, che non possono non far pensare ai vari «Karate Kid». E tuttavia, ancora, McInerney ha dichiarato che non crede di subire particolari influenze dal cinema e dalla televisione.

«E’ una dichiarazione che ho letto, ma che non ho mai rilasciato. Sarebbe bene che gli intervistatori usassero sempre registratore e taccuino. Al contrario: io sono assolutamente convinto che la nostra vita, i nostri comportamenti, tutto di noi sia profondamente influenzato dalla "cultura dell’immagine". E inorridisco di fronte agli irreparabili guasti che la vedo produrre a livello di massa. E’ questa la protesta di Ransom, che è anche la mia.»

McInerney ha frequentato corsi di «scrittura creativa»? Con chi? Pensa che siano serviti ad attrezzarlo per affrontare la complicata professione di scrittore?

«Sì, ne ho frequentati. Con Raymond Carver. Per me è stato di impagabile utilità il rapporto, la, per così dire, "convivenza" con un autore di quell’esperienza. Penso invece che i corsi in sé non servano assolutamente a nulla.»

Ma non è che per caso da tali corsi derivi una certa stucchevole costanza di temi «penosi, ma di successo garantito»? Per esempio la droga, onnipresente nelle sue opere, anche se non in maniera gaglioffa come nell’opera di un altro giovane, Bret E. Ellis. Per esempio il cancro, che straripa letteralmente dai suoi testi, oltre che da quelli dello stesso Ellis, di David Leavitt e di Amy Hempel.

«Temi di successo garantito? Non credo proprio. Quelli da lei citati sono autentiche pene della nostra generazione. Tutte le generazioni devono ineluttabilmente vivere il loro dramma, la loro tragedia. Noi non abbiamo conosciuto gli orrori della guerra. La nostra tragedia, dunque, la identifichiamo in problematiche come la droga e il cancro. E su di esse, se intendiamo mettere dramma nelle nostre opere letterarie, scriviamo.»

Ha influenza, sul suo modo di scrivere, il fatto di essere cattolico, di origine irlandese?

«Credo proprio di sì, anche se non saprei specificare in quale misura. Certo, il fatto di essere cattolici, in un contesto sociale multireligioso come quello degli Stati Uniti, costituisce una condizione imprescindibile.»

Una domanda frivola: come mai in entrambi i suoi libri compare un furetto? La memoria non ne rammenta in altri romanzi.

«E’ un animale che mi piace molto. E quindi mi sembrava giusto dargli una dignità anche romanzesca.»

(Il giornale, 1986)


II.

Le notizie che annunciavano l’emergere, negli Stati Uniti, di una generazione - o «non generazione» - di giovanissimi scrittori tematicamente e stilisticamente omogenei, si stanno rivelando per lo più poco precise (anche se a onor del vero Nanda Pivano ha diffusamente tentato di spiegarne le differenziazioni in un paio di brillanti elzeviri). Così, almeno, sembrerebbe evincersi dalla traduzione italiana delle opere di esordio di due tra i più noti esponenti di tale generazione: David Leavitt in primavera e, in questi giorni, Jay McInerney, di cui la Bompiani pubblica il romanzo Le mille luci di New York. Due autori che appaiono estremamente diversi.

Quello di McInerney, comunque - va detto subito -, è un esordio molto felice, di tutto rispetto. Le mille luci di New York è un racconto lungo, che si lega baldanzosamente alla fortunata tradizione del romanzo picaresco americano, un fratellino minore - quanto ad anagrafe, non certamente quanto a qualità - dei Sotterranei di Jack Kerouac, testo sacro della beat generation. Narrativa eminentemente «East Coast», dunque, o più specificamente «newyorkese»: dura, dissacrante, estroversa, non di rado violentemente disperata; diversa nell’intimo da quella «West Coast» o «californiana», troppo spesso tendente all’estenuazione, al solipsismo, ai toni malinconici o «soft», anche nella disperazione. Esattamente come il jazz «East Coast» si differenzia radicalmente da quello «West Coast», così McInerney si differenzia da Leavitt.

In Le mille luci di New York il primo mette in scena appunto la metropoli che in molti abbiamo imparato ad amare, ma che pochi hanno veramente imparato a conoscere nelle sue pieghe più ambigue e inquietanti: dunque la New York dei mirabili edifici, degli splendori, dei successi folgoranti, ma anche la New York «turpe» di certa vita notturna «downtown», ai margini del Village e di Chelsea, verso i dock. La New York di locali come il Club 54 e assimilati, ma anche quella di luoghi infernali e rivoltanti come l’indimenticabile Toilet, con i suoi dintorni. Luoghi di vita più sciagurata che spensierata, dove sesso stravolto e droghe del più vario assortimento vengono consumati con furia, quasi ne andasse dell’ultimo respiro. O - assai più tristemente e banalmente - della carriera, sia essa di (sempre verde, sempre rampante) attrice, modella, pubblicitario o giornalista. Insomma, le professioni che secondo i mass media sarebbero le più «in», le più desiderabili, quelle che susciterebbero le massime aspirazioni nelle giovani leve del nostro mondo.

E puntualmente McInerney, tra le sfolgoranti e ambigue Mille luci di New York, mette in scena le vicende di un esponente di tali giovani leve, un ventiquattrenne che lavora nella redazione di una rivista di gran classe, dove - aspirando lui stesso a diventare tale - è incaricato di scovare eventuali errori negli articoli dei riveriti e celebri collaboratori. Professione che risulta assai ardua quando per l’appunto si usa non dormire e passare le notti nella New York peccaminosa di cui sopra, tra diverse vodke e molte «righe» di cocaina, tra superbellezze femminili autentiche e altre dal sesso invece ambiguo, in una ridda di locali notturni, loft, limousine e taxi. Picareschi compagni di tali vicende di grande comicità sono, naturalmente, un giovane pubblicitario dalla straordinaria inventiva e un assortimento assai variegato di personaggi che aspirano tutti a salire fino alla più alta rampa della gerarchia, se non sociale, almeno mondana, costi quello che costi.

Notti di follia a cui seguono grandi pasticci mattutini in redazione, che culminano ovviamente con il licenziamento del reprobo, il quale tuttavia ha una giustificazione morale: così si comporta in quanto abbandonato dalla moglie, la bellissima Amanda (come non ricordare la Mardou dei Sotterranei?), modella dal fulgido futuro, a cui il protagonista ha fatto da Pigmalione fino a sposarla. E come mai il protagonista ha sposato questa Amanda, a lui assai socialmente inferiore? Per far piacere alla mamma, morente di cancro. Jay McInerney è figlio del nostro tempo, un autore che sa perfettamente - con giusta dose di cinismo - il fatto suo. Sa miscelare con sapienza da alchimista delle lettere il sacro e il profano, il comico e il tragico, ma sa soprattutto che il pubblico dei lettori è formato in massima parte da donne. Dunque, dopo aver gettato i suoi abilissimi ami al largo, ribollente ma sfuggente pubblico giovanile, non dimentica quello femminile - assai più stabile e sicuro -, con le sue problematiche, di cui purtroppo non possono non far amaramente parte l’invecchiamento e la malattia.

Una madre, comunque, quella di Le mille luci di New York, tratteggiata con mano molto felice, da scrittore di intensa sensibilità. Una donna di spirito vitalissimo, che lascia nel lettore un ricordo di profonda simpatia, così come in genere lo lasciano le sventate avventure del protagonista, il quale, tuttavia, si capisce benissimo che, passata l’ubriacatura della prima giovinezza, saprà, seguire virtù e conoscenza. E qui le somiglianze con la generazione bruciata dei Sotterranei svaniscono bruscamente: McInerney ha una sua strada, generazionale e stilistica, da seguire, e la segue con assoluta sicurezza. Molto bravo.

Jay McInerney,
Le mille luci di New York, Bompiani

(
Il giornale, 28 settembre 1986)
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