Scrive di: Jonathan Franzen

1. Riflessioni di lettura su
The Corrections, Crossroads, Purity

2. Correzioni, depressioni, interpretazioni, ambientazioni, masturbazioni:
ancora Purity e Freedom

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Nell'estate 1973 ero in felicissimo viaggio negli Stati Uniti con sgangherate auto a noleggio, le più economiche. Una delle tappe obbligate era ovviamente il Gran Canyon del Colorado. Non mi ha fatto grandissima impressione. Troppo tutto. Troppo Canyon, troppo Deserto dipinto, troppa Foresta pietrificata. E, in mezzo al troppo, l’infinita tristezza dei Navajo, con le loro tendine di paccottiglia turistica sul bordo della strada, la loro ostilità talmente esibita da risultare più finta che patetica, le ingiunzioni a pagare per fotografare qualsiasi cosa. E la guardia a cavallo che mi sollecitava a chiudere bene l’auto. Davvero tutto molto triste.

Mi torna in mente con nitidezza quasi dolorosa adesso, mentre leggo la parte di Crossroads che si svolge appunto in Arizona tra i Navajo. Nel 1971. Raccontata in maniera davvero splendida, potrebbe bastare a collocare in maniera incontestabile Franzen tra i grandi scrittori. Un autore che rappresenta senz'altro una pietra miliare per la letteratura statunitense. Oltre che un sontuoso collezionista dei suoi stili, se non altro del Novecento.

L'attacco del capitolo “The Failure” di The corrections si specchia preciso, seppure con ribaltamento, in quello di Rabbit at rest di Updike. Qui sono i nonni Angstrom ad aspettare all’aeroporto il figlio problematico, là viceversa è il figlio problematico ad aspettare i nonni Lambert. In entrambi i romanzi hanno grande importanza i rapporti nonni/nipoti. E nelle svariate famiglie romanzesche di Franzen aleggia molto spesso una notevole eco dell’inventore di Coniglio e Janice Angstrom, con corollario dello sciagurato figlio drogato Nelson, dissipatore delle fortune di famiglia (vedi il pestifero, precocissimo e infelice Perry di Crossroads; ma anche in buona parte il Chip Lambert di The corrections).

Grande scrittura, sempre, contorsioni linguistiche e onomaturgie che discendono direttamente da Faulkner, come anche, forse, il procedere delle trame per singole vicende personali dei personaggi nel loro rapporto con gli altri e con la struttura complessiva. Quarant'anni fa, inoltre, sono stati i "minimalisti" a mettere in fortissimo rilievo l'importanza della malattia a fini di romanzo: non c'era praticamente uno di quei giovani narratori che non mettesse in scena il cancro di una mamma. In Franzen la malattia si aggiorna e diventa depressione, onnipresente a fianco di Alzheimer e Parkinson. Il sesso di Philip Roth? In dosi massicce. Basterebbe quello di Chip Lambert. Il giovane Holden? eccolo di nuovo, connotato di tragedia più che di scafataggine, nel povero Perry.

Come poi dimenticare le svagatissime famiglie di Anne Tyler? Ci sono anche loro, seppure non così svagate ma al contrario circonfuse di profonda, severa cupezza se non addirittura infelicità. I Lambert in tutte le loro combinazioni (The Corrections), i “vecchi” Hildebrandt (Crossroads), Purity con mamma e papà uccel di bosco (romanzo omonimo).

La cupezza sembra essere il tono generale della narrativa di Franzen. Sesso, va bene, ma se in Roth è crepitante, frenetico e addirittura protestatario, in Franzen diventa puntuale tassonomia delle escrezioni umane. L’onanismo di Leopold Bloom, per cambiare del tutto scenario, è fondamentalmente comico e soprattutto accennato con pirotecnica eleganza linguistica. Non parliamo poi di quello furibondo del ragazzo Portnoy: quello del quindicenne tedesco orientale Andreas Wolf (Purity) gli assomiglia moltissimo, è anch'esso protestatario, ma alla fine risulta soprattutto isterico.

Quello poi del pastore riformato ex mennonita Russ Hildebrandt, dai venti ai quarantacinque anni, è sofferto e ogni volta cesellato con cura da amanuense (no pun intended…) nei minimi dettagli, fino al lavandino del bagno. Sesso ovvero un’insopprimibile, naturalissima esigenza del corpo umano destinata quasi sempre a a sublimarsi in malinconia se non vera e propria sofferenza (Denise in The Corrections, ma anche Becky — e suo fratello Clem — in Crossroads.)

Una cupezza che credo discenda dalle origini nord europee e genericamente luterane dell’autore e dalle sue esperienze di studio in Germania. Viene da pensare che anche nella sua formazione non sia mancata una vena di fede mennonita. Sta di fatto che Russ Hildebrandt la trova anche nel suo fatale innamoramento giovanile per i navajo: hanno conosciuto a apprezzato a fondo quei missionari, per questo lo accolgono con favore tra loro. Per questo lo affascinano, anche se sono dei tremendi tipacci.

Al di là degli Stati Uniti bianchi, il resto del mondo conta poco o niente, l’esperienza di Clem in Perù è pura autopunizione alla Raskolnikov; il disprezzo per la scombinata Lituania post comunista è perlomeno impressionante (se fossi lituano potrei persino trovarlo offensivo), e da lì discende in linea diretta il torbido guru tedesco orientale che abbindola Purity in Bolivia; l’Europa è poco più di un fondale da operetta, dove val la pena di andare soltanto per far vedere come si è bravi con la musica rock; Roma fa addirittura schifo, piena di coglioni in scooter che pensano soltanto a mettere le mani addosso alle sventurate giovani turiste.

Naturalmente non cattoliche ma protestanti riformate, forse con un fondo di fede mennonita. E Becky è capace anche di lamentarsi perché nel palazzo nobiliare decaduto in cui è ospitata gratis non ci sono abbastanza mobili. Poi, per fortuna, il folle para-Dracula erotomane che la porta in Mercedes verso la Toscana a duecento all’ora non è italiano ma tedesco. Comunque in Italia, quando non si palpano innocenti giovanette, si va in giro così. Si è dimenticata, Becky, che il suo guru riformato, Rick Ambrose, ha trovato Dio proprio vedendo quattro adolescenti andarsi a schiantare a centosessanta contro il pickup di un innocente coltivatore. A un crossroad. In Idaho. USA. Comunque, timorosa di palpamenti, a Roma non è andata a vedere niente.

Scrittore di grosso calibro, indubbiamente, Jonathan Franzen, formidabile costruttore di intrecci narrativi. Come potrei non tifare per un autore che mi sembra abbia affermato che la brevità non fa per lui, che per esprimersi al meglio gli ci vuole sempre qualche centinaio di pagine ("Portland Monthly", 18 dicembre 2012)? Però a me ha anche fatto venire in mente l’urticante commento di Berlioz a Camille Saint-Saëns: «Bravissimo, quel giovane, sa tutto; gli manca soltanto un po’ di INesperienza».

2.

Nella seconda metà degli Anni Ottanta del secolo scorso, in Italia, tanto per cambiare imperversava una feroce polemica contro i protervi scrittori rei di voler continuare a praticare la forma letteraria "romanzo", dichiarata ufficialmente defunta e di conseguenza maleodorante. Qualcuno arrivò a definirli "scrivitori". Ferocissimo il poeta, storico della letteratura, critico letterario e millanta altre cose Giuliano Gramigna, per altro reo di aver ceduto lui stesso al canto della sirena "romanzo", pubblicandone 5 o 6, numero di gran lunga superiore a quello cumulativo dei suoi lettori. Ci detestavamo e vivevamo felici. In un suo articolo di precettistica critica ad uso dei recensori della domenica arrivò a decretare che i romanzi non è necessario leggerli, basta annusarli. Gli replicai nei denti e ci detestammo ancora di più, continuando per altro a vivere ancor più felici.

Tuttavia quella dell'annusar libri è evidentemente una pratica non soltanto perniciosa ma contagiosa, e, sia pure in età veneranda, devo ammettere di esserci cascato anch'io. Con Jonathan Franzen e il suo Purity. Mi aveva talmente irritato che ne ho piantato la lettura a circa un quarto, non astenendomi tuttavia da pomposi quanto sciocchi pareri e filippiche. Trovavo insopportabile la protagonista e ancor di più il suo milieu hippy; addirittura indecente la raffigurazione del co-protagonista tedesco orientale diventato guru della disinformazione di massa. Poi, stimolato da amici fidati, ho letto altri libri di Franzen e ho avuto motivo di ripensarci, riprendendo quindi la lettura di Purity al punto in cui l'avevo lasciata e concludendola.

Scrive indubitabilmente bene, il cantore di Minnesota e dintorni — molto, molto bene —, pur se con un'ingombrante tendenza all'ipertrofia e, soprattutto, al finale rosa. In quest'ultimo sembra non cascare (fino in fondo) soltanto in The Corrections, mentre vi precipita al limite dell'inverosimile in Crossroads e Freedom. Oltre che appunto in Purity, nelle cui pagine conclusive la protagonista, la madre e la vicenda tutta sprofondano in una davvero imbarazzante pasticceria di auto consolazione. Altri suoi libri non ho letto.

Ma è proprio Purity il romanzo in cui, se non altro, Franzen sembra voler rinunciare a un po' di INesperienza per cercare con forte impegno una cifra struttural-stilistica personale, senza schidionare sontuosi e sterminati capitoli alla. Alla Updike, alla Cheever (con forse persino qualche mediazione di Richard Ford), alla Roth, alla Anne Tyler (quanta; e, più Franzen si legge, sempre di più)…

Prendi per esempio il ragguardevolissimo Freedom. All'inizio, nello strampalato quartiere residenziale in cui vivono i protagonisti coniugi Berglund e poi in quello dove finiscono con il rifugiarsi verso la fine, non si possono non sentir rimbombare stentoree eco di tanti ambienti già raccontati da Cheever, tipo per esempio quello dove dipana le sue malinconiche imprese The swimmer (magnificamente e cupamente ampliate nel film che ne ha saputo trarre Burt Lancaster).

Poi, quanto Updike (Couples) nelle imprese ginnico-erotiche della confusa signora Patty Berglund nonché in quelle in cui esse costringono a rifugiarsi l'altrettanto confuso (ambientalista) marito Walter. E persino nelle attività del loro programmaticamente indeciso ma infine soprattutto astuto figlio Joey con mancata amante e futura sposina. La quale ultima sposina (prima di divenire tale) conferisce inoltre modo all'autore di farci vedere con quanta attenzione egli abbia letto e analizzato non soltanto le strutture narrative di Philip Roth (magazzini all'ingrosso di masturbazione, a tutte le età) ma persino quelle dell'inventore di Holden Caulfield nel suo girovagare newyorkese. Infine, anche qui, quanto devono ad Anne Tyler i rapporti della post depressa Patty Berglund con la sua depressa e ansiogena famiglia, madre, sorelle e fratello?

Quindi, una volta letto anche Freedom, ho deciso due cose, ovvero che del pur ammirevole Franzen non leggerò probabilmente nessun altro libro (lui camperà benissimo lo stesso) e che, contrariamente al mio avventato giudizio iniziale, una volta sfrondato della consolatoria melassa finale, Purity diventa con ogni probabilità il suo romanzo migliore, almeno secondo il mio schizzinoso e poco rilevante giudizio. IMHO secondo il fortunato acronimo degli americani in Rete. E i personaggi di Franzen per larghi tratti vivono più in Rete che nella Realtà.
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