Scrive di: E. L. Doctorow

Recensione: “La fiera mondiale” (1994)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Il Tourmobile, silenzioso tram su ruote di gomma che percorre il celebre Mall di Washington, procedeva nella sua corsa molleggiata, e il giovanissimo speaker di colore, sistemato nella parte anteriore e voltato in modo da guardare in faccia i turisti, annunciava di volta in volta: «Ecco il Jefferson Memorial, inaugurato nel 1943... Quello è il Lincoln Memorial, completato nel 1922... E lì, davanti ai vostri occhi, vedete il Monumento a George Washington, aperto al pubblico nel 1888. Wow! Ho detto 1888! Ogni cosa a Washington è storia, come potete vedere». Entusiasmo che faceva sorridere bonariamente l'europeo in visita, ma che veniva pienamente e giustamente condiviso dalla popolazione americana multirazziale (e anche multilingue) del pacifico veicolo. Era il 1976. Gli Stati Uniti festeggiavano il Bicentenario, l'American Revolution Bicentennial, come annunciava fieramente il simbolo che faceva orgogliosa mostra di sé dappertutto, sulle lattine della Coca Cola come in vetta all'Empire State Building, illuminato da una titanica tripla striscia di lampadine azzurre, bianche e rosse. A Philadelphia, fuori dalla casa dove Betsy Rose, nel 1776, aveva confezionato la prima bandiera americana, oppure sull'Indipendence Mall, davanti all'Indipendence Hall, «sito storico più famoso degli Usa», più lunga e paziente che mai era la coda di folla, che sfilava ordinatamente per ammirare la sunnominata bandiera, nonché la campana che con i suoi rintocchi in quel fatidico anno aveva significato al mondo l'avvenuta scelta di indipendenza americana. Nel Bronx, a Queens, a Harlem, a Brooklyn, ai margini del Lower East Side di New York, nei miserabili ghetti di popolazione centroamericana, alla festosa atmosfera circostante faceva invece da contraltare un'impressionante quantità di scritte tracciate con la biacca da mani irose: «Bicentenario sin colonias». Tra i numerosi romanzi «storici» pubblicati in vista dell'occasione, particolare fortuna era arrisa al gaio e al tempo stesso problematico Ragtime di E.L. Doctorow.


Nazione giovanissima, che vanta per l'appunto poco più di duecento anni di storia, gli Stati Uniti perseguono con encomiabile ansia l'impegno a raccogliere ed elaborare i documenti di tale storia, a non lasciar sfuggire nulla, dall'epopea western dei dipinti di Frederic Remington, dei film di John Ford, dei romanzi di Louis L'Amour, giù giù alle testimonianze sul nostro tempo. Un'ansia che da qualche tempo a questa parte tende sempre più di frequente ad assumere connotazioni etniche - gli americani di origine italiana, irlandese, africana, ebraica - se non addirittura autobiografiche, se non altro nella narrativa. Un numero sempre maggiore di romanzi americani pare infatti tendere a raccontare «il sogno» o «l'antisogno» americano attraverso l'esperienza individuale dell'autore. A questo genere appartiene anche La fiera mondiale, ultimo romanzo del citato E.L. Doctorow.


La «storia» è quella degli Anni Trenta, la «vicenda» quella di Edgar, un bambino che arriva ad averne nove nel 1939. Un bambino di famiglia ebraico-orientale non praticante, che vive nel Bronx e che vede sfilare davanti alla propria ingenua esperienza i fatti più elementari della famiglia e della nazione - i giochi, i personaggi dei fumetti o dei libri per bambini, il baseball, gli spettacoli radiofonici popolari, amichette e amichetti -, accanto a quelli un po' più complessi - le feste e ricorrenze tradizionali di famiglia, i dissapori tra padre e madre oppure tra madre e nonna, i problemi finanziari, la scuola elementare -, accanto, infine, a eventi sempre più grandiosi e terribili: il disastro del dirigibile Hindenburg, la televisione sperimentale, la crisi degli Anni Trenta, il presidente Roosevelt, le torve adunanze dei nazisti americani, le minacce degli antisemiti, l'immagine di Hitler nei cinegiornali, la guerra in Europa.


Il racconto si chiude su una duplice visita alla Fiera mondiale di New York, del '39, quella Fiera che dà appunto il titolo al libro e in cui il giovanissimo protagonista si muove incantato attraverso una kermesse di svaghi popolari, ma soprattutto tra diorami sensazionali, tra città dell'avvenire, tra immagini e strutture che ipotizzano un futuro straordinario. Un futuro che tuttavia non sembra coinvolgerlo fino in fondo. Edgar appare in qualche modo condannato a conservare nel proprio destino il marchio di una certa «diversità», evidentemente quella prodotta dal suo retaggio etnico, dall'appartenenza al popolo ebraico. Ha, infatti, partecipato in segreto a un concorso per un tema su «Il Tipico Ragazzo Americano». Non ha vinto, ma ha ricevuto una delle cinque menzioni d'onore. «Non essere deluso», gli dichiara fieramente suo padre: «Tu non sei il tipico ragazzo americano e questo è tutto.» Che cosa sarà mai, al di là di una distinzione etnica che comunque connota - ora come allora - milioni di ragazzini statunitensi di svariata origine? Non appare chiaro. Confusamente consapevole della propria appartenenza a un'epoca storica, comunque, il giovanissimo protagonista costruisce una propria rudimentale «capsula del tempo» da tramandare ai posteri, in cui cela alcuni oggetti assolutamente tipici dell'essere ragazzini a New York nel 1939, e che seppellisce in un parco. E così arriva la fine di un romanzo di buona qualità e grande affabilità ma in definitiva capace di assai pochi scatti di interesse.

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