Scrive di: John Cheever

Recensione di “Addio fratello mio” (1987)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Le mobile home sono vere e proprie case mobili, a un piano, posate su giganteschi apparati di ruote, trainate da grossi trattori. Erano - probabilmente lo sono tuttora - la cosa che più colpiva una quindicina d’anni or sono, quando, ancora animati da un vago spirito on the road, correvamo qua e là in auto sulle piatte highway del Midwest e del West degli Stati Uniti. Procedevano lente e goffe, seguite da immensi camper con appesa davanti la motocicletta, dietro la bicicletta, sul tetto una barca, un catamarano, un motoscafo, accanto all’immancabile antenna della televisione. Veri e propri traslochi in piena regola, migrazioni con tutta la casa, come tante spropositate lumache della società affluente: chissà, forse era proprio la stagione dei traslochi, il tempo delle migrazioni. Simbolo vivente del profondo, febbrile spirito di mobilità che permea la società nordamericana. Di provvisorietà. Di precarietà, anche. Uno spirito fratello di quell’irascibilità dei vecchi pensionati newyorkesi, delle «scene di disperazione» che Mario Monti evoca nella sua prefazione a un volume di racconti di John Cheever pubblicato venticinque anni or sono dalla Longanesi. Una prefazione essenziale, bella quasi come uno degli impeccabili racconti presentati, un vero pezzo di bravura.

Ed è un peccato che Fernanda Pivano non la ricordi nella sua commossa postfazione al volume di racconti di Cheever pubblicato in questi giorni dalla Garzanti, intitolato Addio, fratello mio e contenente i sette già apparsi nel ’62 nel sopra ricordato Dry Martini longanesiano, più altri nove inediti. E’ un peccato, dicevamo, perché è proprio a Mario Monti e alla sua Longanesi che dobbiamo la conoscenza, in Italia, di tanta narrativa americana contemporanea, da Carson McCullers a Louis L’Amour, da Dashiell Hammett a Jerzy Kosinski, da Ring Lardner a Isaac B. Singer. E tanti altri, tra cui appunto John Cheever, con i citati racconti del ’62 e con Amore e la vita (The Wapshot Chronicle). Da qualche anno tuttavia, ritiratosi nel frattempo Mario Monti dall’editoria attiva, l’opera di John Cheever viene meritevolmente pubblicata dalla Garzanti, che è prossima - ci pare - a completarla. Mancavano i racconti, ben più di cento, apparsi in trent’anni e passa sul New Yorker e su altre riviste. Quelli della «scelta personale», pubblicata con enorme successo in volume sotto il titolo The Stories of John Cheever.Ne conoscevamo sette, ora se ne aggiungono altri nove; ne mancano ancora moltissimi, che ci auguriamo di vedere presto tradotti in italiano.

John Cheever, ricordano gli storici della letteratura americana contemporanea, è essenzialmente il cantore della società medio-piccolo borghese dei sobborghi di New York e del Connecticut. Persone con «media di reddito, posizione e rispettabilità soddisfacente», che guardano con un certo sospetto chi riceve «gente di tutti i tipi, l’optometrista, il veterinario, l’agente immobiliare o il dentista». E’ il cantore, insomma, di un certo successo, pagato spesso con il distacco da ciò che è veramente vitale, con un irresolubile rovello esistenziale, con la forzata repressione degli istinti, con improvvise esplosioni di irrazionalità, se non di autentica follia. I suoi personaggi viaggiano avanti e indietro tra l’abitazione di campagna e il posto di lavoro servendosi di veloci treni locali o di rapide navette aeree, cambiano professione con una frequenza spesso non giustificata dalla normalità dell’esistenza. Cambiano casa, cambiano moglie, cambiano vita, così come cambiano umore. Una vera e propria frenesia di mobilità, di precarietà. E’ su un aereo navetta che comincia il racconto Il marito di campagna, il treno compare più volte, ma ciò che veramente connota tutto è il trasloco, evento che quasi sempre rappresenta un decadimento nella scala sociale: lo si trova, soprattutto, in Il sovrintendente della casa, in La pentola d’oro, in I figlioli, in Il furgone scarlatto, in Il nuotatore (racconto splendido e molto celebre, da cui tempo fa è stato tratto un film con Burt Lancaster). La nevrosi aleggia ovunque, da curarsi, fondamentalmente, con il rifugio nell’ipocrisia dei rapporti sociali standardizzati (le cene puntigliosamente calibrate nella composizione degli invitati, i party di fine settimana) e nell’alcol. Finché un giorno, di crisi in crisi, di trasloco in trasloco «"Assente... assente... assente",sarebbe stata la risposta per quel plotone disperso dai divorzi, dall’alcolismo, dalle malattie nervose, dalle avversità».

John Cheever - morto a settant’anni nell’82 - è uno scrittore di altissima qualità, forse non conosciuto quanto meriterebbe dal pubblico italiano. La sua lingua è perfetta, il suo stile è levigato e in apparenza terso, ma in realtà sottilmente screziato, nervoso, febbrile, come febbrili sono le storie che racconta. Storie davvero di ordinaria follia, raccontate attraverso il New Yorker ai newyorkesi, che evidentemente, leggendole su quelle famose navette ferroviarie e aeree, o rifugiate nelle loro case dei sobborghi, sul bordo dell’immancabile piscina, in attesa del rientro del consorte, della cerimonia serotina del primo aperitivo, del primo canonico litigio, del cocktail del venerdì, della festa domenicale in giardino, magari della tremenda minaccia di un trasloco, vi si riconoscevano con occhio commosso. Così come con occhio commosso può coglierne e goderne tuttora la suprema finezza psicologica il lettore italiano di oggi. Nella prefazione, anch’essa molto bella, l’autore ricorda scherzosamente come il New Yorker gli abbia procurato «una schiera di lettori attenti e sensibili e denaro sufficiente per mantenere la famiglia e comperare un vestito nuovo ogni due anni». In Italia, i suoi magistrali racconti non avrebbe nemmeno avuto dove pubblicarli.

John Cheever, Addio, fratello mio, Garzanti

(Il giornale, 15 novembre 1987)
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