Scrive di: Harry Mulisch

Recensione: “L’attentato” (1987)

© Mario Biondi
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e obbligo di citazione (per cortesia...)

Il ritornare implacabile dei ricordi e il loro comporsi in ricostruzione della realtà è il tema di L'attentato, ottavo romanzo dell'olandese Harry Mulisch, narratore, poeta e saggista fino a ora inedito in Italia. Mulisch, dicono le storie della letteratura d'Olanda, autore di importante rilievo nel panorama letterario di quel paese, è narratore incline al misterioso, al surreale, all'irrazionale, al simbolico, oltre che all'autobiografico e all'impegno civile. Nato a Haarlem nel '27, il suo esordio risale al '52, quando colse un grosso successo con il primo romanzo, Archibald Strohalm, (Arcibaldo fuscello di paglia), opera fortemente segnata dal simbolismo, così come i successivi De Diamant (Il diamante) e Het zwarte licht (La luce nera). Imperniato sui problemi della condizione umana nel dopoguerra è invece Het stenen bruidsbed (Il letto nuziale di pietra), del '59; aubiografico è Voer voor psychologen (Mangime per psicologi); centrato sull'impegno nei confronti di verità e giustizia è infine Tanchelijn, kroniek van een ketter (T., cronaca di un eretico). Elementi tutti che ricompaiono e si fondono in quest' ultimo L'attentato (1982), che ha vinto il più importante premio letterario olandese e si sostiene abbia venduto - soltanto in quel paese - 200.000 copie.

L'azione prende il via durante le ultimissime battute della Seconda guerra, in Haarlem ancora occupata dai nazisti. Un commando partigiano compie un attentato notturno nei confronti di un esponente della polizia olandese collaborazionista, il quale cade morto davanti a una di un gruppo di tre villette periferiche e isolate. Ne consegue la furiosa rappresaglia, nel cui corso, insieme a un folto gruppo di ostaggi viene sterminata una pacifica famiglia, colpevole soltanto di risiedere in una delle tre villette. Muoiono padre, madre e figlio maggiore, diciassettene. Si salva il minore, dodicenne, che viene prima preso in consegna dai tedeschi e poi consegnato a una coppia di zii di Amsterdam, i quali, non avendo figli, come tale lo allevano.

Impegno fondamentale del giovane, a mano a mano che diviene adulto, medico e padre, è di dimenticare i terribili eventi che hanno sconvolto alle origini la sua vita, che egli intende invece ricondurre nei binari dell'assoluta normalità, portare avanti e concludere il più tranquillamente possibile, da uomo comune, senza ossessioni storiche o ideologiche nei confronti del passato. Ma ciò appare impossibile. Come detto, i ricordi sembrano farsi realtà per conto loro, ripresentarsi e imporre al protagonista una presa di coscienza civile, rievocati da persone che l'attentato hanno visto, subito o addirittura compiuto. Gli incontri con tali persone scandiscono la vita del protagonista, che alla lunga, nonostante il conclamato desiderio di dimenticare, non può che rimanerne segnata. E scandendo la sua vita, tali ricordi costruiscono un romanzo dalle tinte livide, che assume a tratti una cadenza quasi da vicenda poliziesca, con il successivo incastrarsi dei vari tasselli che di rivelazione in rivelazione portano alla verità.

Il poliziotto ucciso nell'attentato non era caduto davanti alla villetta dove viveva la famiglia del protagonista, ma vi era stato trascinato, cadavere, dagli abitanti di quella adiacente, che così agendo sembravano aver condannato gli innocenti vicini allo sterminio. Ma gli attori della vicenda compaiono in scena a uno a uno, quasi evocati da un'implacabile forza invisibile (quella della ragione? quella della coscienza civile?), e si presentano alla ribalta a raccontare il loro brandello di verità, che a mano a mano si compone con gli altri, lasciando in definitiva tutti innocenti e vittime della medesima, immensa, irrazionale esplosione di violenza e dolore. Colpevoli sono soltanto i responsabili della brutale e dissennata rappresaglia: la guerra e chi ha voluto portarla alle conseguenze estreme anche nei confronti dei civili. Non a caso lo svelamento finale avviene durante una grande manifestazione pacifista ad Amsterdam, nel 1981, a cui il protagonista partecipa in compagnia del figlio minore, dodicenne come lo era lui al momento della strage, nel 1945. Più nei dettagli non sarà opportuno scendere, perché altrimenti si rischierebbe di togliere al lettore il piacere di scoprire per conto proprio le successive agnizioni che portano a conclusione il romanzo.

Romanzo che per il lettore italiano non appare di facilissima lettura. Sottilmente giocato sul filo psicologico dell'apatia (o falsa coscienza), come unico atteggiamento capace di mettere al riparo dalla contesa tra Bene e Male, intessuto di un cromatismo («nordico»?) non composto praticamente altro che da una serie infinitesimale di varianti del grigio (grigio di caratteri, grigio della natura, grigio dell'esistenza), esso alterna infatti momenti di forte tensione ad altri di grande freddezza, in una spirale di «docce scozzesi» letterarie che troppo spesso vengono affrontate con spirito decisamente sommario, nel tratteggio dei personaggi e dei loro caratteri, nell'elaborazione e narrazione dei fatti salienti. (Taglio)

Il giornale, 1987
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