Scrive di: Stratis Haviaras

L'età eroica, 1987

© Mario Biondi
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e obbligo di citazione (per cortesia...)

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, com'è tristemente noto - ma forse non troppo - la Grecia venne travagliata da una terribile guerra fratricida, che ne lacerò quasi insanabilmente il tessuto sociale, oltre a fiaccarne il già provatissimo stato dell'economia nazionale. Da una parte gli Andartes, ovvero i partigiani di sinistra, che avevano combattuto strenuamente contro l'occupazione nazista e che, dopo gli accordi di Yalta sulla spartizione delle zone di influenza, non avevano voluto cedere le armi, pur non essendo più sostenuti da nessuno; dall'altra i nazionalisti monarchici, appoggiati dagli anglo-americani. Fu una guerra sanguinosissima, senza quartiere, svoltasi nelle montagne del nord del paese, ai confini con Albania, Jugoslavia e Bulgaria, che arrivò a coinvolgere migliaia di ragazzi e bambini, arruolatisi volontari nelle file della guerriglia, portati in montagna dai genitori partigiani o respinti dai campi profughi della Yugoslavia dopo l'uscita di Tito dal Cominform. Una tragedia di dimensioni storiche, non molto conosciuta nel mondo occidentale, che fa quasi il pari con quella della demenziale e medievale «crociata dei bambini».

All'odissea dei fanciulli greci è malinconicamente e poeticamente dedicato il romanzo L'età eroica di Stratis Haviaras, greco trapiantato negli Stati Uniti, dove è curatore del reparto poesie della biblioteca dell'Università di Harvard. Cinquantenne - come ci informa il risvolto editoriale - e autodidatta, l'autore ha certamente fatto in tempo, se non forse a vivere direttamente, certo a conoscere l'atmosfera dei terribili eventi che hanno coinvolto, sconvolto e in buona parte travolto la sua generazione. Quelle che racconta, dunque, attribuendole a un solo protagonista-ragazzo, più che essere fatti strettamente autobiografici, costituiscono molto probabilmente un collage di vicende occorse a varie persone, un intelligente e dolente miscuglio di realtà e invenzione, che con il procedere della narrazione assume vigore e autentica potenza, attingendo nel finale risultati di notevole caratura poetica ed emotiva. (E una volta tanto è un piacere poter dire che la traduzione di Franca Castellenghi Piazza risulta impeccabilmente all'altezza della qualità del testo.) E' lo stesso autore, in una brevissima nota premessa al libro, ad avvertirci che il romanzo è opera di fantasia.

La vicenda, imperniata su un gruppo di ragazzini sbandati, ma essenzialmente su uno di essi, denominato Panagis (non è il suo vero nome), prende avvio - Prima Parte, La guerra dei fanciulli - dal loro donchisciottesco tentativo senza speranza di raggiungere i confini settentrionali della Grecia, per riparare in Jugoslavia o Albania. Come già detto, tali confini non possono più essere superati, si viene respinti. I ragazzini, che vivono la loro odissea in un atmosfera tra il gioco e il sogno (con alta cifra lirica e onirica, ma con struttura narrativa e cedimenti che a tratti ricordano fastidiosamente gli aspetti più petulanti della Storia di Elsa Morante) finiscono con il trovarsi coinvolti nel massacro finale degli Andartes da parte delle truppe nazionaliste. Moltissimi vi lasciano la vita, molti ne rimangono segnati per sempre, nello spirito se non nel fisico. I sopravvissuti subiscono il complicato processo di rieducazione nelle strutture appositamente create dal nuovo governo della Grecia e dai suoi consiglieri.

E' la seconda parte del libro, di gran lunga la migliore, intitolata Pace e ricostruzione. Panagis e i compagni sopravvissuti vengono internati in un campo sito nell'isolotto di Antikalamos, semplice lingua di roccia riarsa sporgente dal Mediterraneo, dove lavorano in una cava, a tagliare pietre per restaurare la chiesa della vicina Kalamos. Lentamente la situazione si evolve, lo stato di lacerazione del tessuto sociale greco tende a ricomporsi, le ferite a sanarsi, i giurati nemici a convertirsi in prospettivi collaboratori. Le condizioni dei piccoli internati, agli inizi intollerabili, migliorano. A poco a poco essi vengono liberati sulla parola e affidati in custodia a persone dell'isola di Kalamos, che si assumono l'impegno di educarli e farli lavorare. Piano piano le cose tendono a normalizzarsi per quasi tutti, tranne, per esempio, per il duro e logico Fotis, irriducibile comunista, il quale decide di continuare la sua lotta e, piuttosto che collaborare con il nuovo ordine, preferisce rimanere a lavorare le pietre, completamente isolato, probabile prefigurazione di una certa parte dell'attuale estrema sinistra greca. Nell'isola di Kalamos avvengono altri eventi. Tra l'altro ricompare, enigmatica figura, la fanciulla che Panagis aveva brevemente amato nel terribile periodo della guerra civile. Compare - scena forse di più alta cifra poetica di tutto il libro, profondamente emozionante pur nella sua estrema brevità - un'infelice zio in disperata ricerca del nipote, sbandato, disperso e - come Panagis sa, senza tuttavia avere cuore di rivelarglielo - morto sull'isolotto. Compare un'altra ridda di personaggi enigmatici, che rappresentano probabilmente il nuovo comporsi del tessuto sociale greco e dei suoi amici o avversari. E la storia si conclude nell'abbraccio notturno tra Panagis e la ritrovata fanciulla amata. «Avevo quasi quindici anni», dice il protagonista, «e per me l'età eroica era finita.»

Aliena dalle facili lusinghe delle mode e dall'invenzione di movimenti letterari cervellotici quanto inesistenti, la casa editrice Feltrinelli opera sul terreno della narrativa nordamericana procedendo in una sua accurata ricerca di opere e autori di qualità, eccentrici, estranei al caravanserraglio promozionale. Un impegno senz'altro encomiabile: ciò che ne deriva non risulta sempre del tutto convincente, ma lo è senz'altro questa opera del greco americano Stratis Haviaris.

Il giornale, 1987
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