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Lo scrittore Mario Biondi nel Sahara
Lo scrittore Mario Biondi
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Lo scrittore Mario Biondi

RACCONTA

“Ray
Ray Bradbury

Recensione di “Morte a Venice” (1987)

© Mario Biondi
Divieto di riproduzione integrale
e obbligo di citazione (per cortesia...)

Venice, California, giace sul mare ai margini di Los Angeles, immersa nel clima tipico della zona, dolce d'inverno e cupamente nebbioso, piovoso, non di rado gelido d'estate e autunno. In buona misura dimora di chi trae il proprio comodo sostentamento dalla sovrastante Hollywood, essa è tuttavia anche squallido ricovero di drop out perduti nei meandri della droga o dell'alcol. Nell'autunno del 1949, anno «in cui le nebbie non» finiscono «mai e il vento non» smette «il suo lamento», sul vecchio tram di Venice viaggia solitario un giovane scrittore originario dell'Illinois settentrionale. E' stanco. Tiene infilato nel rullo della vecchia macchina per scrivere Underwood Standard '34 un foglio del romanzo «senza titolo» che non riesce a concludere, campa vendendo di quando in quando un racconto a una delle tante riviste americane di narrativa popolare. Vive in una casa sgangherata e, per comunicare con la propria ragazza, temporaneamente in Messico, non soltanto deve servirsi del telefono pubblico fuori sul marciapiede, ma anche ricorrere a coloriti strattagemmi al fine di non pagare la tariffa dovuta. Momenti di apprendistato, vita di bohème.

Non è difficile, in lui, riconoscere l'allora ventinovenne Ray Bradbury, autore del magico Morte a Venice recentemente pubblicato in Italia dalla Rizzoli. Romanzo che segna un triplice lieto evento, anzitutto in sé, per la qualità narrativa con cui è tessuto e per l'eleganza della lingua (resa con qualche stridore ma nel complesso con classe e ottimo ritmo da Giuseppe Lippi), poi anche perché segna il ritorno di Bradbury al romanzo dopo un silenzio di quasi venticinque anni, iniziato in seguito alla pubblicazione di Il popolo dell'autunno, infine perché rappresenta un significativo passaggio dell'autore dal genere fantascientifico, che gli è tipicamente proprio, a un altro, che si può in prima istanza e con discreta approssimazione definire poliziesco. In ogni caso rimanendo sempre, checché possano pensare gli eterei schizzinosi della prosa, nell'ambito del romanzo della più smagliante qualità. «Ho sempre avvertito un atteggiamento snob nei confronti dei gialli», ha affermato lui stesso nel corso di un'intervista: «Ma cosa c'è al mondo di più importante di un omicidio? Il più grande dramma della storia, "Amleto", è il più grande mistero poliziesco nella storia.» Il tram corre nella pioggia. Una voce spettrale e terrorizzante alle spalle del giovane gli mormora nelle orecchie: «La morte è a Venice». Ne deriva una serie di misteriosi ammazzamenti e sparizioni, sulla cui traccia, seguendo uno stillicidio di indizi bizzarramente minimi, putrefazioni, odori, egli stesso si avvia baldanzoso, seppure sempre un po' incerto, un po' scalcagnato, vagamente spaventato, splendido esempio di protagonista non-eroe. Vittime e personaggi di contorno - in un torvo e cadente scenario cinematografico, singolarmente molto felliniano (Bradbury conosce e stima il nostro regista), fatto di gabbie da circo, di baracconi da luna park, di sgangherate sale cinematografiche, di crolli e distruzioni, - compongono una sorta di bestiario di personaggi che va da un gruppo di vecchi senza speranza, abituati a passare la vita alla stazione del tram di Venice, fino a Constance Rattigan, affascinante ex diva del muto, ritiratasi nella splendida solitudine della propria villa, dove ha preso l'abitudine di recitare persino per se stessa, oltre che per il mondo esterno, facendo anche le parti della propria cameriera e del proprio autista (espediente narrativo peraltro già visto in un romanzo completamente diverso come Cuori in trasferta di Alison Lurie). Personaggio che lo stesso autore ha rivelato essergli stato ispirato dalle dive dei grandi anni di Hollywood e in particolare da Joan Crawford.

C'è poi Fannie Florianna, l'ex cantante lirica di dimensioni mastodontiche, che si nutre soltanto di maionese, vive da sola ascoltando costantemente le proprie incisioni d'opera (in particolare Puccini) e non può dormire che seduta, altrimenti non si alzerebbe mai più, soffocherebbe. C'è il barbiere incapace e allegro, che sostiene di avere conosciuto Scott Joplin (mitico pianista e compositore americano, autore dell'opera Treemonisha ) e di avere suonato con lui. C'è l'anziano attore perennemente perduto nella cura del proprio corpo statuario ed efebico, che si aggira inquietante e inquieto con un'elegantissima bici Raleigh. C'è lo «strizzacervelli» Shrank (Strizzai), «cartomante, psicologo, frenologo numerologo e...», collezionista di balordissimi libri, nonché torbido psicoanalista, che assomiglia a Edgar Allan Poe e vive in una sudicia baracca. C'è la signora dei canarini. C'è il vulcanico signor Shapeshade (Plasma-ombre), gestore del galleggiante e fatiscente Venice Cinema, innamorato del cinema muto, di Mary Pickford e Tom Mix. C'è Annie Oakley, proprietaria del tiro a segno. C'è, infine e soprattutto, l'investigatore Elmo Crumley, anche lui poco fortunato scrittore a tempo perso e appassionato botanico, che vive in una casa con un giardino lussureggiante, una giungla di verde. Tutti impegnati a comporre un romanzo di grande classe, misterioso, sfuggente e inquietante nella composizione, eppure perfettamente logico nella conclusione, che si iscrive senz'altro più nella categoria del gotico raffinato che del poliziesco.


Il giornale, febbraio 1987
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